giovedì 25 gennaio 2024

La Storia (serie tv)

La Storia, serie per la Rai diretta da Francesca Archibugi, tratta dallo straordinario romanzo di Elsa Morante, è un ottimo prodotto televisivo, pur con tutti i limiti, appunto, del prodotto televisivo. Premetto che ho visto solo i primi 4 episodi e quindi al momento il mio giudizio non può che essere parziale.

Intanto è fedelissima al romanzo (e se non l'avete letto vi consiglio di farlo prima di guardare la serie), poi è ottima la scelta del cast, quasi tutti gli attori sono calati nel ruolo e recitano bene, a parte alcune eccezioni di cui dirò poi. Una menzione speciale al bimbo che interpreta Useppe di cui riesce a rimandarci lo stesso sguardo stuporoso verso il mondo, pieno di innocenza e al tempo stesso di saggezza e conoscenza, come se già sapesse molte più cose di quelle che spetterebbe a un bambino sapere. 

I punti di forza sono quelli in cui si mette in scena la quotidianità in tempo di guerra,   i momenti di solidarietà e il vivere insieme tra gli sfollati, ma anche quelli dei legami affettivi tra Useppe e Nino, Useppe e Ida, Useppe e Eppe Tondo, Useppe, Nino e Blitz.

Buone anche le scene in cui si narrano i vari eventi storici che fanno da sfondo e che determinano le vicende di Ida, Useppe e le altre persone comuni come lei, che poi, nell'opera della Morante, sono i veri protagonisti della storia e della Storia. Appaiono abbastanza didascalici, ma appunto l'intento è quello di fornire il contesto storico per poi far procedere narrativamente gli eventi che coinvolgono Ida, Useppe e gli altri. Come nel romanzo si prediligono i momenti storici più significativi: i bombardamenti, la deportazione degli Ebrei, episodi della Resistenza e dell'organizzazione dei Partigiani. Ho trovato ben ricostruita la scena in cui Ida e Useppe vanno alla stazione di Tiburtina e assistono alla partenza del treno merci che deporta gli Ebrei. È una scena volutamente straziante il cui tragico nonsense è affidato allo sguardo incredulo di Useppe che si chiede il perché della Storia e di Ida che non sa, non può rispondergli, impotente, mentre dal cielo piovono fiocchi di cenere, particolare questo che è presente anche nel libro. 

Ovviamente non ho potuto non pensare all'analogia con i TIR che trasportano gli animali al mattatoio il cui sguardo ci interroga dalle strette feritoie attraverso cui vedranno scivolare via il mondo per la prima e ultima volta. 

L'accenno agli animali vien fatto a un certo punto quando una donna Ebrea dice "ci schedano come le bestie", ma ovviamente il paragone non rileva l'ingiustizia di quanto accade agli animali, che sono bestie e quindi è naturale e giusto che abbiano un trattamento diverso rispetto agli umani, bensì è volto a narrare l'orrore di quanto accade alle persone quando sono trattate come bestie. Forse ci dovrebbe far riflettere, ma come sappiamo ancora non avviene mai abbastanza. 

I punti che finora invece ho trovato deboli sono i dialoghi politici, soprattutto quelli tra Nino e Carlo, per non parlare dell'evoluzione politica di Nino o di Carlo quando decide di unirsi ai Partigiani: assente, nel senso che non viene narrata, ma presentata come un dato di fatto in entrambe i casi. I dialoghi affidati a Carlo e a Nino per parlare delle differenze tra comunismo e anarchia sono troppo semplicistici, così come quelli affidati a Eppe Tondo che però, essendo interpretato da Elio Germano, riesce quanto meno a risultare credibile, anzi, è un bellissimo personaggio, cosa che, mi spiace dirlo, non si può dire di Lorenzo Zurzolo che interpreta Carlo Vivaldi.

Bravissima Jasmine Trinca, anche nella scena in cui viene stuprata dal soldato tedesco. Una scena complessa, violenta e piena di tutti gli orrori della guerra, compresa l'assurdità di mandare al fronte dei ragazzi giovanissimi che agiscono come uomini feroci, ma sognano la tenerezza della mamma. In Ida non c'è rancore, accetta quanto accade, ma non per arrendevolezza, bensì perché anche lei, come Useppe, è un personaggio oltre la Storia, che quasi la travalica in una consapevolezza metafisica inesprimibile a parole, ma fatta di gesti, sguardi, abbracci. Useppe e Ida sono uguali in questo e per questo, per chi conosce il romanzo, non potrà che finire in un certo modo. 

Vedremo nei prossimi episodi se la qualità si manterrà, tornerò forse a parlarne. 

Si trova su Rai Play.


venerdì 19 gennaio 2024

Julie & Julia

 

Quando guardi un film su Netflix, Prime o altre piattaforme, esce la lista dei film con contenuti simili o che potrebbero piacerti. 

Visto che l'altra sera ho guardato Hunger, mi è stato proposto Julie & Julia, spassosa e ben diretta commedia del 2009 diretta da Nora Ephron, con Maryl Streep e Amy Adams, tratta dal libro autobiografico di Julie Powell ispirato a sua volta al suo blog di grande successo in cui si cimentava nell'impresa di rifare, entro un anno, tutte le ricette del libro della famosa e realmente esistita chef statunitense Julia Child. 

La storia, come tutte le storie, ha vari livelli di lettura e qui il messaggio sotteso è il riuscire a trovare la propria strada e fare di una passione una carriera, risultato che sia Julie che Julia ottengono. Il film si snoda infatti in due diversi momenti temporali alternando la storia di Julia Child agli inizi della sua carriera, negli anni 50, e quella di Julie Powell nel periodo subito dopo il crollo delle due torri. 

Il film è spassoso e motivazionale, o almeno è tale per la maggior parte delle persone perché, essendo un film incentrato sul cucinare ha il solito enorme problema di mostrare ogni specie di animale a pezzi ritenuta commestibile (è mai possibile che in questo genere di film non si cucini mai un piatto di verdure manco per sbaglio?).

Anche qui c'è una scena terribile, resa ancor più terribile dal fatto che sia una scena realizzata apposta per far ridere, cioè con dei momenti e battute che vorrebbero suscitare ilarità. 

In pratica Julie Powell, lavorando al proposito del suo blog, arriva al punto delle ricette di Julia Child in cui deve cucinare un'aragosta viva.

La scena è anticipata diverse volte con battute sul sentirsi "assassina di aragoste" e con il fidanzato che la motiva, il tutto sempre comicamente, come se non si trattasse realmente di uccidere qualcuno, cioè usando la stessa ironia che potremmo fare noi quando buttiamo le patate nell'acqua bollente ("assassini di patate", fa ridere, in effetti). L'aragosta è trattata alla stregua di un vegetale.

Dopo queste anticipazioni arriva il grande giorno e la nostra eroina si reca al mercato a comprare delle aragoste vive. Gliele mettono in una busta e lei inorridisce, ma non per empatia o dilemma etico, bensì per il fastidio di dover fare questa cosa di ucciderle. Apre il sacchetto e vede un'aragosta che la fissa, che muove occhi, agita chele e antenne. La richiude schifata. 

A casa tenta di seguire il consiglio della Child: uccidere le aragoste piantandogli un coltello a colpo sicuro tra gli occhi. Lei però non crede di potercela fare, quindi sceglie l'altra soluzione... e sapete bene di quale soluzione si tratti: gettarle direttamente nell'acqua bollente.

Lo fa, la scena viene mostrata, ma se non altro, essendo un film girato in America dove bisogna rispettare le norme di non maltrattare gli animali sul set (sul set! Fuori le aragoste si possono tranquillamente uccidere) si vede che sono finte o forse vere ma già morte (ma sono chiaramente vere quelle delle scene precedenti in cui vengono comprate al mercato e  messe nella busta). 

Una volta gettate nell'acqua  la nostra eroina, sentendosi finalmente sollevata nell'essere riuscita a portare a termine tale impresa, si affretta a chiudere il coperchio. Il coperchio si solleva e cade a terra, lei fugge terrorizzata, ma ecco che interviene in aiuto il prode cavaliere, cioè il fidanzato, rimettendo subito il coperchio sopra al pentolone e chiudendolo con forza onde impedire ai poveri animali di fuggire dalla pentola, con tanto di espressione soddisfatta. 

La scena ha intenzioni comiche, eppure tanto ci sarebbe da dire, a cominciare dalla smaccata conferma dei ruoli di genere per cui alla fine il maschio uccide senza pietà mentre la femmina, che pure non prova chissà quale empatia con le aragoste, si impressiona nel farlo, così come si impressionerebbe nel dover schiacciare un grosso ragno o prendere a bastonate un topo. Infatti il sentimento descritto nella scena è solo uno: la repulsione. E la comicità è su questo che gioca e lavora: la repulsione di dover cucinare ciò che dal punto di vista della considerazione morale è equiparabile a un ortaggio, ma che presenta il fastidioso inconveniente di muoversi, agitarsi - mannaggia, proprio come il cane dell'esperimento di cui parlava Cartesio nel 600 che quando veniva bastonato attivava quel fastidioso guaito, ma, niente paura, si trattava solo di semplice meccanica, al pari del pendolo di un orologio che suona allo scoccare dell'ora -, inconveniente poi appunto risolto brillantemente grazie all'intervento del fidanzato e prova complessivamente superata alla grande con il successo della ricetta riuscita alla perfezione e tutti gli amici a cena che divorano con gusto le povere aragoste. 

Ora il punto qual è? Il punto è che qui non stiamo parlando di una scena comica di finzione che esaspera alcuni aspetti della realtà o che nella realtà non esiste; non stiamo parlando di Fantozzi che cade in maniera rocambolesca dagli scii e poi si rialza tutto ammaccato a rappresentare le sfighe del piccolo impiegato, né di Stanlio & Ollio che si prendono a torte in faccia. Qui stiamo parlando di quello che accade nella realtà: aragoste o altri crostacei bolliti vivi, pesci vivi affettati, quarti di manzi, maiali, polli interi ecc. massacrati nei mattatoi. Individui senzienti, non ortaggi, non vegetali. Individui di cui si ride. E il punto non è solo che si ride della sofferenza di un'aragosta, ma che si ride,  questo l'obiettivo finale, di chi prova empatia o si fa scrupoli di coscienza perché tutta la scena prende per il culo chi realmente avrebbe problemi a uccidere animali e non per semplice repulsione, ma per un pizzico di empatia che pure chi cucina e mangia animali, talvolta ha.  

In altre scene si mostra come disossare un'anatra, come riempire un pollo, teste di maiali e mucche appese al mercato, pesci ecc.

Una commedia come questa, che in una società normale sarebbe invece un horror, piace perché è rassicurante. Non mette in dubbio l'esistente, ma anzi lo conferma.

Va bene uccidere le aragoste gettandole in pentoloni di acqua bollente, va bene decapitare polli e disossare anatre, va bene tutto pur di inseguire il successo, realizzarsi, divertirsi. 

Il film è del 2009, non di decenni fa. E comunque anche oggi, come si è visto in Hunger,  gli animali nel cinema continuano a essere rappresentati come cibo, ossia sono semplicemente dei referenti assenti (dell'uso degli animali nel cinema ho parlato anche in un capitolo del mio libro). 

Attenzione: io non sono a favore della cancel culture. Io penso e rilevo il modo in cui gli animali sono raccontati nelle varie forme di produzione culturale. Lo faccio ovviamente al fine di mettere in discussione lo specismo, convinta che, solo rendendo visibili le ideologie oppressive violente ma normalizzate e finanche naturalizzate, le si possa combattere.

mercoledì 17 gennaio 2024

Hunger

 


Ieri sera ho visto Hunger, un film su Netflix, ambientato in Thailandia, che racconta la storia di una ragazza che lavora come cuoca senza pretese nel chiosco di famiglia. Viene notata dal sous-chef di uno chef famosissimo che cucina solo per gente ricchissima e potente che la convince a fare un tentativo per entrare nel suo team e in breve inizia il suo apprendistato presso questa sorta di divinità della cucina, tanto enigmatico, quanto scontroso e aggressivo (per usare un eufemismo).

Il film nelle intenzioni non è malvagio perché si filosofeggia sul Potere, sui privilegi dei ricchi, sulle sperequazioni sociali e sui vari simbolismi e sovrastrutture culturali legate al cibo che potrebbero essere riassunti nella frase "I poveri mangiano per riempirsi la pancia, di conseguenza il cibo deve soprattutto assolvere quella funzione, non importa la qualità, mentre i ricchi, che hanno soddisfatto il bisogno primordiale di avere la pancia piena, mangiano cibo speciale e costoso per sentirsi speciali", concetto questo ben rappresentato in sociologia dalla piramide di Maslow. 

Per farla breve, la protagonista, che vuole diventare speciale, insegue il successo come chef a costo di grandi sacrifici, ma poi capisce che non ne vale la pena e trova la giusta via. Anche perché comprende che l'essere speciali è poca cosa senza l'affetto e l'amore. 

Hunger, dunque, è un film incentrato sul cibo come metafora, sebbene si dichiari quasi immediatamente che appunto esistono due tipi di fame, quella dei poveri e quella dei ricchi, come abbiamo detto.

Il cibo dei ricchi come metafora del potere è una lettura scoperta e esplicita; quello dei poveri che può essere anche amore, idem. 

Ma veniamo al vero motivo per cui l'ho guardato: volevo capire se ci fosse una riflessione sul cibo animale, sul VERO costo del cibo non in termini di denaro, ma di vite, di individui unici e irripetibili. 

Ovviamente non c'è. 

Cucinano sempre e solo pesci e crostacei, che mostrano vivi, appena pescati, addirittura comprati direttamente sui pescherecci, e poi carne. 

In una scena si vede l'uccisione di un'aragosta. A me è sembrata reale. 

In un'altra si arrostisce l'intero corpo di un manzo. Poi gamberi, pesci di ogni tipo mostrati mentre si dibattono (a me sono sembrati tutti reali). 

L'unica scena davvero interessante, sebbene disgustosa, è quando servono a una tavolata di uomini ricchi e potenti della carne servita su una salsa rosso sangue a emulare proprio il sangue. Segue una carrellata in cui si vedono in primo piano queste bocche che masticano con avidità con tutta la salsa rosso sangue che gli cola dalle bocche. Bocche distorte, ghigni mostruosi, sguardi orcheschi, rumori amplificati. Nelle intenzioni registiche una bella metafora del Potere che divora il mondo, ma la critica sullo sterminio degli animali è assente perché anche la protagonista, l'eroina positiva della storia che rinuncia al successo e al potere per continuare a condurre la piccola attività di famiglia, cucina pesci e animali terrestri di ogni tipo. 

C'è un momento in cui l'occasione per riflettere sugli animali viene servita su un piatto d'argento: quando lo chef famoso accompagna dei ricchi cacciatori per cucinargli un uccello, appena ucciso (questo si vede che è finto) appartenente a una specie protetta, ma la nostra eroina ha una sola obiezione: è illegale. Lo chef famoso rilancia che non dovrebbe esserci differenza tra una gallina e un uccello protetto, peccato che tale spunto di riflessione non venga colto nel modo giusto (perché proteggiamo alcune specie e altre no? Solo perché alcune sono a rischio estinzione?), ma invece il tutto rimanga sul piano della legalità sì/legalità no. 

In conclusione, il film è un'allegoria smaccata ed esplicita sul Potere e il successo e su quanto si sia disposti a perdere per inseguirli. Peccato che non si rifletta mai sul vero costo del cibo animale, su ciò che realmente va perduta: la vita di milioni, miliardi di individui senzienti. 

Nota: amici e amiche antispeciste, vi avviso: ci vuole un bello stomaco per guardarlo, per noi alcune scene sono quasi insostenibili.


giovedì 11 gennaio 2024

L'ordine del tempo

 

Oggi invece NON vi consiglio un film. Ossia l'ultimo della Cavani, L'ordine del tempo. 

Un gruppo di amici, tra cui un paio di Fisici, apprende che sulla terra potrebbe abbattersi un enorme meteorite, chiamato Anaconda (sic!), che porterebbe alla fine della nostra specie. Le probabilità sono altissime. 

Sì, il pretesto è lo stesso di Melancholia di Lars von Trier, ma non solo i due film sono imparagonabili, ma direi che filosoficamente sono proprio agli antipodi. 

Melancholia immensa allegoria della depressione e del nichilismo, L'ordine del tempo invece della gioia di vivere, apprezzamento del presente, dell'amore e snocciolamento di pensierini del tipo: tanto poi, meteorite o meno, la fine arriverà comunque per tutti, se non altro a livello individuale, se non di specie, ma l'amore è l'unica forza che supera il tempo, anche se il tempo non esiste e non c'è una legge fisica che possa spiegarlo (l'amore, come l'amore superi il tempo). 

Qualcuno ha scomodato Rohmer perché è un film basato sui dialoghi tra questo gruppo di amici cinquantenni che tirano le somme della loro vita, rimpianti e progetti futuri, sempre che il mondo non finisca. 

Ragazzi, non scherziamo. Non bastano degli attori che parlano attorno a un tavolo a fare Rohmer. E nemmeno un asteroide che, forse, sta per colpire la terra a fare von Trier.

Non basta nemmeno la musica struggente a indurre la nostalgia e forse l'unica scena degna di nota è loro che ballano su Dance me to the end of love di Leonard Cohen, ché se il film fosse finito in quel modo e in quel momento, un gruppo di cinquantenni che balla in maniera un po' goffa e arrugginita (con tanto di accenno di mossetta sensuale di una) e che si prende infine scherzosamente a cuscinate mentre il mondo sta finendo sarebbe stato pure, tutto sommato, una figata. E invece no. 

Ho avuto un solo unico sussulto sul finire, quando il film avrebbe potuto avere un senso ed è nel momento in cui nel giardino della bella villa sul mare (e no, non basta nemmeno la location a fare Rohmer) entra in scena un bambino sui 10 anni. 

Ho pensato: ecco dove voleva andare a parare, il tempo non esiste, l'evento cosmico della meteora in qualche modo è avvenuto, ma non ha distrutto il mondo, ha solo riportato loro nel passato, sono di nuovo bambini, ma è bellissimo, ho pensato, stupenda allegoria del tempo che veramente non esiste, oggi siamo sul punto di morire, ma siamo anche di nuovo bambini, adolescenti, siamo tutto insieme in un'unica esplosione di vita perché l'universo si dilata e comprime. Certo, da un punto di vista della Fisica magari non ha senso, ma un finale così avrebbe funzionato, narrativamente sarebbe stato perfetto. 

E invece no, il ragazzino che entra in scena all'ultimo - ATTENZIONE STO PER FARE SPOILER - è il figlio segreto di uno dei protagonisti. 

Marò. 

Liliana Cavani, perché? 

Perché chiudere così la tua carriera? 

Nota a margine: generalmente non scrivo recensioni negative, ho sempre pensato che sia uno spreco di tempo, i film si consigliano, non si Sconsigliano e anche quando per collaborazioni con riviste mi prendevo l'impegno di recensire film che non mi erano piaciuti, lo facevo sempre con enorme rispetto, cercando di valutare le intenzioni più che la resa e mettendo in evidenza gli aspetti più riusciti e questo perché so quanto sia difficile creare, pensare, immaginare e dare vita alle storie e in qualche modo l'impegno di chi ci prova va sempre, se non proprio premiato, almeno riconosciuto e rispettato. 

Però la Cavani ha quasi 90 anni, penso che non debba dimostrare nulla e secondo me in questo film voleva dire molto, ma le è riuscito male. 

Chi voglio veramente criticare invece è chi cialtronescamente scomoda Rohmer o von Trier. 

Dai, non scrivete di cinema se non siete capaci di distinguere opere e registi così distanti.


mercoledì 10 gennaio 2024

La società della neve

 Ormai questo blog è abbandonato a sé stesso, riporto solo giusto qualcosina che voglio salvare dal susseguirsi del presente sui vari social in cui scrivo, tanto per far sì che i miei scritti non vadano perduti come lacrime nella pioggia e anche perché ormai, a parte progetti un po' più strutturati, scrivo direttamente dal cellulare e quindi non salvo nemmeno sul pc.

Detto questo, torno a parlare di cinema con un film visto di recente, anche se in verità il film che più mi ha colpito visto di recente è Speak No Evil, ma di cui non voglio parlare per una serie di motivi (troppa fatica parlare di opere polisemantiche), e invece parlerò di questo perché ci ho infilato in contropiede pure l'antispecismo, o meglio il carnismo. 



"Il passato è ciò che cambia di più". Inizia più o meno così il nuovo film, presentato allo scorso festival di Venezia, sui sopravvissuti delle Ande. 

Un fatto che all'epoca colpì il nostro immaginario e il cui clamore perdura ancora oggi. 

Lessi il libro, credo di aver visto almeno un paio di film, ma questo, dal titolo "La società della neve" è diverso per vari motivi. 

Innanzitutto la durata, 2 ore e 20, funzionale allo scopo di restituire ai protagonisti una dimensione a tutto tondo, un carattere, delle caratteristiche psicologiche e fisiche, un passato, interessi, sogni, desideri, progetti, obiettivi. Il film infatti inizia ben prima dell'incidente aereo, racconta le relazioni tra loro, con i loro familiari, fidanzate, amici. 

Poi l'incidente, certo, mostrato nei minimi particolari per il tempo, suppongo, che impiega un aereo effettivamente a cadere. A quel punto siamo dentro la storia, non più spettatori esterni, ma i vari protagonisti. 

Il resto del film è una storia di sopravvivenza dura, durissima, in cui per oltre due mesi dispersi in mezzo alla neve delle Ande hanno dovuto far fronte a fame, sete, freddo, e persino la sfiga - tragedia nella tragedia - di essere seppelliti da una valanga, nella quale il già decimato gruppo subisce ulteriori perdite. 

"Il mondo ci ha abbandonato" dice la voce narrante, ossia il racconto di uno dei sopravvissuti, il punto di vista privilegiato attraverso cui si racconta la storia e che continua a far sentire la sua voce anche dopo che è morto. 

Di diverso, dicevo, rispetto ai precedenti, è l'aver privilegiato i dilemmi etici e filosofici rispetto alla spettacolarizzazione. 

Dilemmi sul mangiare i corpi dei loro compagni morti, ad esempio, ma non solo. 

"Chi eravamo, chi siamo stati sulla neve?" e poi ancora, "Siamo tutti morti lassù, solo che qualcuno è tornato". 

Il film mi ha fatto pensare, mutatis mutandis, a "La sottile linea sottile rossa" di Malick, pur con le dovute differenze registiche, ossia l'essere umano che si pone domande su di sé, Dio o l'universo in un contesto in cui la quotidianità è stata spazzata via da fatti o contesti eccezionali. 

È un bel film che mi ha lasciato un'unica grande domanda e che si ricollega alla frase con cui il film inizia, sul passato che cambia. 

Perché io penso che in un contesto simile di sopravvivenza e trauma non ci sia stato spazio per porsi domande di quel tipo o per i dubbi etici sul mangiare la carne dei compagni morti. Io penso che le domande siano arrivate dopo, una volta riconquistata la civiltà (o presunta tale). Solo dopo avranno potuto chiedersi "Come abbiamo fatto?", ma non tanto per darsi risposte essi stessi perché loro sapevano benissimo come hanno fatto, cioè era pura fame, semplice questione di sopravvivenza, non c'era altra scelta, ma questa era la domanda che si faceva la gente e a cui hanno dovuto rispondere; gente scandalizzata e inorridita di fronte al superamento di un tabù culturale - per ovvi motivi appunto di sopravvivenza -, che però non si fa alcuno scrupolo, la gente intendo, a divorare corpi di animali e senza che vi sia motivo alcuno legato alla sopravvivenza.

Questo siamo nelle corsie dei moderni supermercati. Altro sono stati i sopravvissuti nella neve, più animali e meno umani, se vogliamo perché è l'umanità talvolta a essere feroce e non l'animalità che risponde solo alle necessità, straordinarie o ordinarie che siano.

Non chiediamoci allora, come hanno fatto loro, come hanno potuto loro, bensì, come possiamo noi oggi divorare i nostri fratelli animali. E senza che vi sia necessità. 

La società della neve, tratto dall'omonimo romanzo, lo trovate su Netflix e ve lo consiglio.