martedì 13 luglio 2021

Convivere con un cane molto anziano

 

Convivere con un cane molto anziano significa sentire il cuore accelerarsi ogni volta che lo si scorge un po' più immobile del solito e avvicinarsi con la paura che il suo abbia smesso di battere.

Convivere con un cane molto anziano significa essere consapevoli che alcune delle cose che si faranno insieme potrebbero essere le ultime.

Convivere con un cane molto anziano significa pensare "questa è la sua ultima estate", "questo è il suo ultimo luglio", "questo potrebbe essere l'ultimo mattino".

Convivere con un cane molto anziano significa tendere l'orecchio nella notte per sentire il suo respiro, aguzzare la vista per cogliere il movimento, controllare a intervalli regolare che vada tutto bene.

Convivere con un cane molto anziano significa ripensare spazi e riorganizzare la casa così che possa muoversi meglio, che possa farcela da solo ad arrivare alle ciotole, che possa avere gli angoli migliori, più freschi e ventilati, a sua disposizione.

Convivere con un cane molto anziano significa pulire la pipì con gioia perché sai che quei pavimenti macchiati ti mancheranno. 

Convivere con un cane molto anziano significa rimandare impegni perché sai che è importante stargli vicino, esserci, non allontanarsi.

Convivere con un cane molto anziano significa sentirsi in colpa perché sai che avresti potuto fare di più, regalargli più corse al parco, più viaggi, più abbracci, più carezze, più tutto.

Vorrei dire che convivere con un cane molto anziano ci mette anche di fronte alla nostra morte, fragilità, vulnerabilità, ma invece dirò che questo non importa perché adesso non è il momento di pensare a noi o al senso della vita, ma a lui, a cosa gli resterà di questa vita nei suoi ultimi momenti e io vorrei tanto che fosse la consapevolezza di essere stato amato.

lunedì 12 luglio 2021

Letture imperdibili: Il sale della terra di Jeanine Cummins

 

Era dai tempi de Il cardellino di Donna Tartt che non mi esaltavo così per un libro, cioè quel tipo di esaltazione che ti fa venire voglia di parlarne a tutti. Ho letto tanti altri bei libri nel frattempo, chi mi segue su Instagram sa che ogni tanto butto là qualche consiglio di lettura, ma questo è particolare, coinvolgente, adrenalinico e insieme triste, tragico e disperato. 

Una donna e suo figlio di otto anni in fuga attraverso il Messico per sfuggire al temibile capo di uno dei cartelli più pericolosi, i Jardineros, chiamati così perché per uccidere i nemici usano gli attrezzi da giardinaggio. Il loro simbolo è un machete da cui pendono tante goccioline di sangue per ogni persona uccisa. 

La sua famiglia è stata sterminata durante una festa, sono tutti morti, marito, madre, sorella, nipoti, uccisi a sangue freddo mentre mangiavano in giardino e per puro caso lei e il figlio, che al momento dell'irruzione dei sicari si trovavano in bagno, sono riusciti a nascondersi e a non farsi trovare. Quello che hanno visto e sentito durante e dopo è un trauma impossibile da superare, una violenza che si tinge di toni persino grotteschi per quanto è assurda e spietata, eppure non c'è tempo di piangere, di disperarsi, nemmeno quello di sotterrare e salutare i propri morti; Lydia e Luca devono scappare, fuggire, una corsa contro il tempo con l'obiettivo di raggiungere il "norte" per darsi una possibilità di vita, anche se minima. Tentare il tutto per tutto, fare cose che fino a pochi giorni prima sarebbero stati impensabili anche solo da immaginare nel tran tran di un quotidiano in una città sempre più violenta, ma in cui in qualche modo sembrava ancora possibile vivere come sotto a una bolla. Lydia appartiene alla media borghesia, ha una bella casa, una libreria, suo marito è giornalista, un giornalista che voleva solo raccontare la verità, ma anche dire la verità, in un paese come il Messico, può avere conseguenze terribili. 

Ora si deve agire, fare scelte che potrebbero rivelarsi giuste o sbagliate, forse sarà solo per caso se riusciranno a restare vivi, come per puro caso non sono stati uccisi dai sicari poco prima, non c'è tempo di pensare, non pensare, non pensare, non pensare è il mantra con cui Lydia tiene insieme i pezzi della sua mente e si impedisce di sprofondare e di impazzire. Un pezzo alla volta, un'ora per volta, un piano alla volta. 

Si uniranno alla rotta dei migranti, salendo e scendendo da La Bestia, i poderosi e pericolosi treni merci diretti al confine di cui Lydia aveva sempre sentito parlare come di un qualcosa che mai avrebbe potuto riguardarla. La compassione, la pietà per i migranti è un pensiero che si fa in fretta a scacciare dalla mente, non ci riguarda, è lontano, si prega per loro e si dimentica.

Ora invece Lydia e Luca sono diventati essi stessi dei migranti e devono imparare in fretta, capire come muoversi, mimetizzarsi, stare in silenzio e rispondere solo a chi potrebbe aiutarli veramente.

Restare vivi su quei treni, sulla Bestia, è un terno al lotto: il pericolo maggiore non è soltanto quello di cadere giù e venire mutilati, se dice male, morire subito se dice bene, o di non farcela a salire - perché si sale al volo, mentre il treno è in movimento, dato che le stazioni sono recintate e controllate dalla polizia - ma si rischia di essere derubati, rapiti, stuprate, uccise. Ogni persona potrebbe essere qualcuno del cartello, o qualcuno che ha interessi a spremere dai migranti (cioè da chi non ha nulla se non le proprie gambe, zaino con pochi averi e a volte nemmeno le scarpe) tutto quel che si può, vita compresa. "Ognuno di voi sarà derubato", li mette in guardia un prete in un ricovero per migranti, solo uno su tre ce la farà a raggiungere il norte. Sarai tu, chiede a uno a uno alle persone presenti?". Non lo sanno, ma devono tentare perché restare è morte sicura. 

Devono crederci. Lydia impara che preoccuparsi è inutile, se il peggio deve accadere, accadrà comunque e così si ripete le innumerevoli volte in cui il cuore le batte all'impazzata nel petto, non pensare, non pensare, non pensare. Ma decidere, saltare giù a volo, scappare o, al contrario, farsi piccola, sospendere persino il respiro. A volte è solo questione di intuito. Si sceglie per istinto. Una risorsa che si impara a padroneggiare.

Sullo sfondo gli incantevoli paesaggi del Messico, la natura incontaminata, l'oceano, la terra, il deserto, i piccoli centri urbani dove i migranti possono ricevere conforto e solidarietà dalle persone del luogo, riposarsi un po' e poi ripartire (ma sempre stando bene attenti a capire di chi ci si può fidare e di chi no perché tutto potrebbe essere una trappola), rimettersi in viaggio a piedi, salendo e scendendo dai treni, fuggendo dalla polizia o da chi si approfitta della disperazione per farsi pagare, per estorcere le uniche cose possibili, qualche risparmio, sesso e se non c'è altro, la vita stessa.

Un romanzo che è sociale, politico, ma soprattutto profondamente umano. L'umanità di chi è capace di stuprare due ragazzine in fuga per la loro vita - perché sì, l'umano è anche questo -, ma anche quella capace di gesti immensamente generosi e altruisti come quelli di coloro che sanno che anche regalare un sorso d'acqua, un sacchettino con dentro tre cioccolatini può fare la differenza tra resistere o mollare. E resistere, andare avanti, per i migranti significa vita, significa salvezza.

La Bestia, il treno merci, è un mezzo, una possibilità, ma anche una condanna. L'equivalente dei barconi su cui salgono i migranti dall'Africa o dai altri paesi quando per scampare alla morte l'unica è attraversare il mare.

Deserto o mare, attraversarlo significa darsi una possibilità di vita. Anche se lo si dovrà rifare tante volte perché non è che arrivare al "norte" è garanzia di vita nuova. 

Ma una cosa per volta, un passo per volta. 

Una pagina per volta mi sto avviando alla fine di questa storia tragica e disperata dove l'avventura si mischia alla riflessione come nella narrativa migliore.


venerdì 9 luglio 2021

La scelta vegan è la scelta etica per eccellenza

 

Puntualmente ogni tot mesi esce fuori l'articolo del furbone di turno convinto di diffondere chissà quale informazione asserendo che "I vegani non hanno nulla di etico perché consumano quinoa" (o avocado, anacardi, bacche di Goji ecc., insomma, cambia l'alimento esotico di turno, ma non il concetto, che è sempre lo stesso). Stavolta, sulla scia del famoso articolo di Matteo Leonardon  pubblicato su The Vision ben tre anni fa e che purtroppo continua a mietere vittime (vittime di narrazioni ingannevoli e superficiali, di scarsa o nulla conoscenza della questione animale), è il turno di tale Rino Camilleri che titola "Perché i vegani non hanno nulla di etico" per il blog di Nicola Porro. 

Stupidaggini sulla quinoa a parte (o avocado, o anacardi o bacche di Goji) - che non è affatto necessario mangiare per essere vegani perché per esser vegani infatti basta NON mangiare animali e derivati e non è scritto da nessuna parte che li si debba sostituire con la quinoa, alimento che peraltro è consumato anche dagli onnivori - si tratta del solito discorso di etica al ribasso in cui si tenta di inficiare una scelta etica spostando il focus del discorso dagli animali ad altro, tipo sulle implicazioni indirette degli allevamenti, per poi asserire che tale scelta non sarebbe totalmente etica. E certo, se anziché parlare di antispecismo, ci si mette a parlare di altro, tutto diventa opinabile.

Comunque sia, i vegani hanno fatto una scelta etica del massimo valore già semplicemente non mangiando animali e derivati e combattendo in vari modi il sistema che li vede solo come macchine produttive o prodotti essi stessi. 

Questa scelta ha poi tutta una serie di benefici indiretti anche per il pianeta perché è cosa nota che gli allevamenti inquinano, consumano risorse idriche in eccesso, comportano deforestazione e distruzione di territori e non serve certo di essere un genio in matematica per capire che coltivando vegetali, legumi e cereali da destinare direttamente al consumo umano è mille volte più conveniente in termini di copertura dei fabbisogni alimentari che non prolungare la "catena" dovendo prima ingrassare animali per poi ucciderli e farli mangiare alle persone. E questo al NETTO di ogni considerazione etica di natura antispecista, che è l'unica cui dovremmo rispondere quando si parla di allevamenti giacché nulla può essere più grave dello sterminare sistematicamente milioni di individui senzienti al giorno.

 Quindi, sì, la scelta dei vegani è indubbiamente più etica di quella di chi consuma corpi di esseri senzienti e lo è sotto ogni punto di vista. 

Comunque queste obiezioni sciocche vengono fatte sempre perché anziché parlare di antispecismo (e di veganismo nel modo corretto) si parla di impatto ambientale ricorrendo agli argomenti indiretti.

giovedì 8 luglio 2021

Come vitelli

 

Come vitelli.

Il problema sta nella normalizzazione e totale accettazione dell'uccisione degli animali nei mattatoi.

L'indignazione del titolo è tale solo perché questa volta la violenza è agita su individui umani.

E che non si dica che dovremmo combattere lo specismo e quindi la violenza sugli animali solo perché propedeutica a quella sugli umani poiché resteremmo invischiati ancora una volta in quelle argomentazioni indirette che rilevano problematicità e solo perché, da ultimo, a farne le spese siamo anche noi umani.

Non è normale e non è giusto che i vitelli vengano abbattuti nei mattatoi. Non è normale e non è giusta l'esistenza dei mattatoi. E questo a prescindere dalle conseguenze che l'esercizio continuo e normalizzato della violenza provochi nella nostra società.

Una società sana deve smetterla di distinguere tra violenza accettata (quella sugli animali) e violenza stigmatizzata (quella sulle persone umane).

La violenza è sempre violenza. Una mattanza, anche se legalizzata, rimane pur sempre tale. 

Pensateci quando fate la spesa perché la fettina di prosciutto non arriva dal salumiere per magia e senza una dose massiccia di violenza.

venerdì 2 luglio 2021

Ancora sull'inganno del benessere animale, il principale ostacolo al superamento dello specismo

 

Da un punto di vista della comunicazione bisogna fare i complimenti alla Coop. 

Praticamente si sono appropriati di un concetto che spesso usiamo anche noi per far riflettere le persone sulla sofferenza degli animali allevati per essere trasformati in prodotti, solo che noi finalizziamo il discorso all'abolizione dello sfruttamento animale e per il superamento dello specismo, mentre loro ripropongono il solito welfarismo, ossia il mantenimento della visione specista degli animali che ne normalizza l'uso e l'uccisione, però ammantata di un falso interesse per il loro benessere. 

Certamente il dominio sugli animali implica ed ha come conseguenza tantissime pratiche violente, ma non è riformando o eliminando alcune di esse, quali il taglio della coda (o l'eliminazione delle gabbie), che si mette in discussione la violenza che è alla base: quella di considerarli risorse rinnovabili da trasformare in prodotti dopo l'uccisione al mattatoio.

Quindi sì, se la coda al casello ti sembra una sofferenza, pensa a quella degli animali che finiscono SEMPRE al mattatoio, appesi a testa in giù per essere sgozzati e poi fatti a pezzi. 

E per finire COMUNQUE sugli scaffali della Coop.

Taglio della coda o meno, questi sono i corpi dei maiali poco prima di finire sugli scaffali. Non mi pare che stiano molto bene. Non mi pare che si possa parlare di benessere. Il benessere implica la preservazione dell'interesse principale di qualsiasi individuo senziente, cioè vivere e fare esperienza del mondo.

Stesso discorso per la proposta di abolire le gabbie negli allevamenti che dovrebbe essere discussa in Parlamento Europeo nel 2023 che soddisfa soprattutto le persone speciste che vogliono continuare a mangiare tranquillamente gli animali e i prodotti derivati dalla loro esistenza - concepita in funzione di macchine - sentendosi a posto con la coscienza perché non vogliono mettere in discussione gli allevamenti, ma solo le modalità di produzione.

Gli animali continueranno a essere considerati risorse rinnovabili, macchine da latte o per le uova o per il miele.

Nessun traguardo, nessuna vittoria per gli animali, ma semmai per le aziende zootecniche che dal concetto di benessere animale hanno tutto da guadagnare a lungo termine. 

Come sempre vince il neo-welfarismo perché trova una gran massa di sostenitori, cioè la maggioranza, cioè quella massa di persone che agisce continuando a sostenere gli orrori nella più totale indifferenza e normalizzazione senza porsi una domanda perché "si è sempre fatto così, solo dobbiamo farlo meglio". 

Il fine degli allevamenti, il senso della loro esistenza è la trasformazione degli animali in prodotti. Con gabbie o meno si tratta di una delle peggiori forme di dominio che la nostra specie abbia pensato. Un nazismo quotidiano, un olocausto continuo. E nazismo quotidiano continuerà a essere, con o senza gabbie. Al chiuso o all'aperto. Su verdi pascoli o dentro scatole di cemento.

Perché il nazismo è nel pensiero, nelle intenzioni, nel concepimento aberrante di far nascere qualcuno intenzionalmente per poterlo usare, schiavizzare, uccidere e trasformare in prodotto.

La vera gabbia è quella mentale. 

Se vogliamo liberare gli animali dobbiamo prima liberarci noi dallo specismo. 

E non cadere nei tranelli linguistici, semantici e concreti di quel concetto e apparato normativo che va sotto il nome di "benessere animale".


giovedì 1 luglio 2021

Oxygène

Prodotto da Netflix e diretto da Alexandre Aja.

Una donna si sveglia intrappolata all'interno di una capsula criogenica senza sapere come ci sia finita, né chi sia. Una voce, quella dell'Intelligenza Artificiale, che si presenta come Milo, la avvisa di un guasto e del fatto che l'ossigeno stia finendo. Le rimane meno di un'ora di tempo prima che si esaurisca del tutto e che muoia. Senza memoria, se non qualche sprazzo che le arriva qua e là, riesce, tramite Milo, a farsi aprire una comunicazione con l'esterno e piano piano rimetterà insieme i pezzi che le sveleranno il motivo della sua presenza all'interno della capsula e il suo passato. 

Un po' claustrofobico all'inizio, ma poi è talmente pieno di colpi di scena che la sensazione passa in secondo piano.

Ci sono tanti elementi attuali che non vi svelo perché altrimenti vi farei dei super spoiler, ma di uno posso parlarvi perché tanto è visibile sin dalle primissime scene, ossia quello della sperimentazione sugli animali. 

Non vi fate illusioni, il film è specista, cioè non ne parla in modo critico, eppure in qualche momento qualche spunto viene fuori. Per esempio non è un caso che la protagonista a volte abbia delle allucinazioni in cui vede migliaia di ratti dentro la capsula insieme a lei, come se le immagini fossero un incubo ricorrente dovuto alla presa di coscienza. Poi a un certo punto c'è una rivelazione che ovviamente fa pensare e mettere in relazione la sua situazione con quella degli animali che hanno subito la stessa cosa, anche se il punto è sempre lo specismo, cioè il considerare orrorifiche alcune cose fatte su di noi, ma perfettamente lecite se fatte sugli altri animali.

Chi ha una sensibilità antispecista non potrà fare a meno di pensare per tutto il tempo alle migliaia, anzi, milioni, di piccoli animali chiusi dentro piccole teche di plastica o gabbiette senza sapere perché si trovano lì e senza alcuna possibilità di uscita, se non la morte. 

Questa del film è una storia di fantascienza, ma per migliaia di animali è un incubo reale. 

Oxygène ci porta a fare ovviamente anche tante altre riflessioni su chi siamo noi, come specie, e le nostre possibilità future. Ma la più importante dovrebbe essere quella etica perché se non siamo in grado di porci dei limiti, allora la risposta è che siamo semplicemente dei mostri.