Qualche giorno fa, in occasione della riapertura della Galleria Borghese, è stata inaugurata, al suo interno, la mostra di Damien Hirst, artista contemporaneo molto quotato.*
Di lui, come di altri, ho parlato nel mio libro "Ma le pecore sognano lame elettriche?" nel capitolo dedicato al modo in cui gli animali - l'animalità delle altre specie in generale - sono rappresentati nell'arte, nel cinema, nella letteratura. Sempre simboli di altro, a rappresentare problematiche e concetti umani, mai come individui soggetti della loro esistenza affrancati dallo sguardo antropocentrico. Ne ho parlato anche qui sul blog, in passato.
"Nell’arte contemporanea, oltre a continuare a rappresentare gli animali come simboli, non di rado si è passati a utilizzarli anche in senso materiale. Imbalsamati o uccisi all’uopo. I loro corpi usati come se fossero materiali da plasmare nelle mani dell’artista, dimenticando che essi erano, in primo luogo, individui unici e irripetibili.
Damien Hirst ha realizzato opere consistenti in vetrine che espongono corpi di squali, tigri, pecore, mucche, zebre e altri animali immersi in formaldeide; ha realizzato una sorta di mandala con ali di farfalla. Alle obiezioni degli animalisti ha risposto dicendo che erano animali acquistati già morti al macello. Questo significa che non li ha uccisi lui con le sue mani, ma che qualcun altro lo ha fatto al posto suo.
Il punto è che questi animali, anche quando materialmente presenti, stanno sempre a rappresentare altro, il nostro rapporto con la morte, il senso dell’esistenza ecc., ma non ci si interroga mai invece sulla violenza che caratterizza il nostro rapporto con le altre specie e non viene mai messa in evidenza l’unicità del soggetto, che rimane un rappresentante della sua specie, come se fosse intercambiabile; ancora una volta sono opere che parlano di noi. Mostrano animali, in questo caso veri animali, ma parlano delle nostre paure, angosce o desideri e aspirazioni.
L’artista, in questo caso, è un narcisista che usa gli altri per realizzare la propria opera e costruirsi una propria identità (di artista). Un’identità usurpata agli altri animali, negata, violentata.
Questi artisti (Hirst non è l’unico, cito anche Hermann Nitsch, Jan Fabre e Wim Delvoye: quest’ultimo ha tatuato il corpo di alcuni maiali, poi li ha imbalsamati ed esposti. In un articolo che recensisce una sua esposizione personale si legge “Tatuare un maiale è un’idea sovversiva morbida, rosea, quasi lirica. La fattoria degli animali secondo Delvoye.”) non vedono le altre esistenze, non le percepiscono, non provano empatia, le usano soltanto per i loro obiettivi."
Pagg. 74 e 75 del libro "Ma le pecore sognano lame elettriche?" pubblicato da Marco Saya Editore
*Nella mostra nella Galleria Borghese non credo siano presenti queste "opere" contenenti corpi di animali.