Per rassicurare i consumatori sempre più attività (ristorazione, aziende che sfruttano direttamente gli animali, allevamenti di vario genere ecc.) si appropriano, letteralmente, di termini svuotati del loro significato originario.
In home mi compare la pagina di un'attività di ristorazione che offre ai clienti tartare di daino, specificando che trattasi di carni ottenute nel rispetto del benessere animale, a filiera corta perché loro ci tengono all'etica, all'equità ecc.
Purtroppo concetti quali "benessere animale" e "filiera corta" servono a mantenere e rafforzare lo specismo poiché non suggeriscono minimamente l'idea che si possa abbandonare l'uso degli animali, ma anzi, lo ripropongono in tutta la sua orribile normalità dopo avergli dato una mano di vernice, una ripulitina, diciamo così.
L'attenzione è ovviamente tutta rivolta ai clienti, ai consumatori, che così possono mangiare "carni" più buone, migliori, non trattate da antibiotici o ormoni, di animali che secondo loro sono vissuti felici, nel pieno rispetto del loro benessere.
Animali sempre visti come cose, come prodotti da consumare, come esseri inferiori la cui esistenza è funzionale all'uso che la nostra specie vorrà farne, che sia il sollazzo di cacciatori, il guadagno di allevatori e ristoratori, o il piacere di clienti che vorranno mangiarne le carni trasformate in manicaretti alla moda.
Animali che contano meno di noi, meno di tutto, numeri rinnovabili all'infinito, chiamati, semplicemente, "selvaggina".
Ogni volta che ci soffermiamo a rimarcare la differenza tra intensivo ed estensivo, che citiamo il rispetto di norme del benessere animale o che parliamo di impatto ambientale o ancora di antibiotici, stiamo rafforzando implicitamente lo specismo.
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