La bottega del macellaio, una delle tappe che facevo con mia madre all'uscita da scuola, era quella in cui non volevo mai entrare per la puzza, ma dove non vedevo l'ora di arrivare per salutare il cane che stava fisso all'entrata.
Il cane del macellaio, lo chiamava mamma, ed era un tutt'uno con la sequela di raccomandazioni che puntualmente mi faceva, non toccarlo che poi ti metti le mani in bocca, guardalo ma senza farti annusare, mettiti seduta sullo scalino ma stai attenta a non farti leccare la faccia, sì, poi gli diamo un ossetto, qualcosina, ma se sta sempre qui è perché lo sa che poi qualcosina rimedia sempre.
Non lo so se fosse davvero del macellaio o se fosse soltanto un randagio, me lo ricordo come se lo vedessi adesso. Marrone, tipo segugio, orecchie lunghe, occhioni grandi e tristi, magro e dall'andatura dinoccolata, la coda tra le gambe.
Allora non potevo capirlo, ma probabilmente era un cane che ce le prendeva, chissà quanti calci, quante volte sarà stato scacciato, allontanato, trattato in malo modo.
Ero una bambina obbediente, ma per lui facevo un'eccezione, lo accarezzavo eccome, oh, se lo accarezzavo e gli davo anche dei bacetti sulla testa.
Quando mi chinavo, con la faccia tra le sue morbide orecchie, sbirciavo dentro la bottega per assicurarmi che mamma non mi vedesse. Lei era sempre di schiena, aveva quel cappotto rosso che mi piaceva tanto. Alla sua destra i corpi appesi dei polli spellati, il bagliore dei ganci di metallo che rimandavano all'infinito altre immagini di altri corpi appesi. Ogni tanto un guizzo veloce. Le mani del macellaio sporche di sangue che tagliavano e trinciavano.
Corpi e corpi a non finire.
Quello del cane, il mio, quello di mamma, quello dei tanti cadaveri animali. Io ero fuori e dentro. Spettatrice partecipe di una natura morta.
Penso che già allora percepissi l'orrore, il disgusto fisico e morale, che chiamavo semplicemente "puzza".
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