Andavo alle medie e nel primo pomeriggio mi piazzavo sulla grande poltrona nera davanti alla TV insieme a Bubes, il pinscherino color nocciola sempre freddoloso che immancabilmente si infilava sotto al maglione. Mi sintonizzavo su Quinta Rete e da quel momento la mia esistenza entrava in una dimensione parallela. Guardavo un po' tutta la programmazione dei cartoni dell'epoca, Jeeg Robot, Mazinga, L'ape Magà, ma la grande attesa era per Candy Candy, mito indiscusso delle ragazzine (e anche qualche ragazzino) della mia generazione. La mattina successiva all'episodio in cui morì Anthony, i professori in classe ci chiesero come mai avessimo quei musi lunghi, sembrava che veramente avessimo perso un amico. All'epoca non c'erano le serie TV, a parte Dallas che era un mix tra soap opera e serial, ma Candy, con i suoi cliffhanger e focus sulle dinamiche sentimentali dei personaggi conteneva già tutti gli elementi per tenere gli adolescenti incollati allo schermo. In breve uscì anche tutto un merchandising dedicato, io avevo l'album delle figurine, e in classe disegnavamo i vari personaggi sul diario. Infatuate dei personaggi maschili, facevamo il tifo per questa o quella coppia, sognando magari di incontrare qualcuno che assomigliasse al bel principe della collina o al tenebroso Terence. Sullo sfondo la prima guerra mondiale e la società dell'epoca, cenni storici didascalici, certamente, ma senza risparmiare ombre e dolori. Lo scorso dicembre è uscito il romanzo scritto da una delle autrici dell'anime originale, peraltro con il vero finale, che è diverso da quello che venne lasciato intendere nel doppiaggio mandato in onda da noi.
Ci sono storie e personaggi che hanno fatto parte della nostra crescita, che in qualche modo ci hanno formato, e non importa quanti anni si abbiano, rimangono come dei luoghi mentali a cui tornare, magari per osservarli da prospettive diverse o perché, semplicemente, sono luoghi rassicuranti, in cui ci sentiamo a casa. Un po' come accade in certi sogni ricorrenti.
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