Sette minuti è un film di Michele Placido di qualche anno fa.
Ispirato a una storia vera, racconta della riunione di undici donne operaie, rappresentanti dell'organico di una fabbrica tessile, che si trovano a dover votare una richiesta dopo che la fabbrica stessa è stata acquisita da un'altra azienda francese, più grande, che ne è diventata proprietaria maggioritaria.
La richiesta è: rinunciare a sette minuti della pausa pranzo.
Di fronte alla paura di venire licenziate in massa e di trovarsi così senza lavoro, in un momento storico difficile del nostro paese, inizialmente tutte le operaie, tranne la portavoce, più anziana e con più esperienza, votano sì. Rinunciare a sette minuti gli sembra in fondo una richiesta da poco, un sacrificio minimo, niente rispetto ai timori paventati di essere sbattute fuori.
Ogni operaia ha i suoi motivi necessari per accettare: c'è chi sta pagando il mutuo, chi deve riuscire ad apparecchiare la tavola per quattro figli, chi è immigrata e si sente grata di avere l'opportunità di lavorare, non importa a quale prezzo.
La portavoce le invita a ragionare, a riflettere, a pensare alle conseguenze.
Sette minuti del proprio tempo sembrano pochi, ma moltiplicati per tutte le operaie della fabbrica (centinaia, loro sono soltanto le rappresentanti) e per tutti i giorni di lavoro in un anno, diventano novecento ore di lavoro gratis che i padroni possono ottenere da loro. Novecento ore di produzione in più, di denaro in più, di ricchezza in più, sottratte alla pausa pranzo e quindi non retribuite.
La discussione si fa accesa, alcune capiscono il punto e ci ripensano, sono disposte a votare no, a rischio di perdere il posto. Litigano, si dividono, si insultano. Escono fuori rancori sopiti, le italiane accusano le straniere di farsi sfruttare e di rinunciare alla dignità. Le straniere dicono che non hanno scelta, che non possono permettersi di trattare, di patteggiare, che devono accettare perché il sistema, i padroni, hanno sempre il coltello dalla parte del manico.
Le cose vengono presentate da diverse angolazioni. I pro, i contro.
Le idee contro la realtà; l'ideale di giustizia che si scontra con il bisogno di essere pratici.
Quelle disposte a rinunciare ai sette minuti accusano le altre di voler rischiare il posto per un'idea. Per un ideale di giustizia. Per un puntiglio.
Sì, lo sappiamo, è ingiusto, dicono, ma si deve mangiare, si deve continuare a lavorare, non possiamo non accettare.
Ma le idee non sono soltanto idee, sono scelte che hanno conseguenze pratiche e future. Scelte e decisioni che spettano ai singoli di oggi e che domani ricadranno sui loro figli, nipoti, su altri giovani operai. Accettare una richiesta oggi, significa consegnare un domani una fabbrica in cui ci sono solo pochi minuti di pausa. Pause che un tempo arrivavano a un'ora e che poi, di anno in anno, di decennio in decennio, sono state erose minuto per minuto. I sette minuti sono un simbolo, ovviamente. Negli ultimi decenni è stato ceduto ben di più. Minuti, ferie, riposo per malattia, diritto a non venire licenziati senza giusto motivo, posto a tempo indeterminato.
La più anziana ammette le proprie colpe. Decisioni apparentemente piccole prese in momenti come questo di oggi. Decisioni prese di fretta, sul ricatto della paura di perdere il posto, senza pensare al peso degli effetti nel tempo, alle conseguenze globali perché quello che accade in una fabbrica di un paese poi diventa pretesto per altre, diventa esempio, costituisce precedenti legali.
Se oggi siamo qui a dover votare per sette minuti è proprio perché in passato abbiamo ceduto.
L'ago della bilancia si sposta quindi a favore del no, cioè di non accettare di dare via i sette minuti di pausa, quando ognuna di loro capisce che quello che è in ballo è molto più di questo. Cedere significa non solo regalare ore di produzione gratis ai padroni della fabbrica, ma decidere anche per il futuro del lavoro del nostro paese; significa creare un precedente e far trovare peggiori condizioni di lavoro alle operaie che verranno in seguito; significa consegnare nella mani dei padroni pezzetti di diritti.
Perché è vero che il sistema è terribile e che ha il coltello dalla parte del manico, ma i singoli possono fare comunque delle scelte, anche quando apparentemente sembra che non si abbia scelta.
Quello che capiscono le operaie è che loro servono all'azienda perché una fabbrica senza manodopera è una fabbrica morta. Sì, molte di loro hanno assolutamente bisogno di lavorare e per lavorare sarebbero disposte a fare tutto, ma questo è il ricatto del sistema a cui non si deve cedere e insieme, tutte insieme, possono diventare una sola voce, possono costringere l'azienda ad accettare la loro, di richiesta, che una richiesta di rifiuto di regalare i loro sette minuti di pausa.
Quello che ho apprezzato maggiormente di questo film, interpretazioni magistrali a parte di tutte le attrici e ottima tenuta della tensione narrativa - impresa non da poco, considerando che alla fine è quasi tutto girato intorno a un tavolo - è proprio la parte di contenuto intorno alle idee e alla pratica.
Infatti ho deciso di parlarne perché mi ha fatto molto pensare alle discussioni che si hanno spesso anche in ambito antispecista.
Si pensa che le idee contino poco, che "filosofeggiare", come dicono alcuni, non serva, che bisogna essere pratici. Nel furore di questa praticità spesso però si perdono per strada i contenuti e si finisce, a poco a poco, per rinunciare all'idea, all'ideale di giustizia. Si finisce per svendere ciò che è giusto in favore di ciò che oggi sembra utile. Le guerre però non si vincono solo basandosi sulle battaglie del presente, ma si vincono sul lungo tempo, continuando a portare avanti le giuste strategie, senza cedere a tattiche più facili che danno risultati immediati.
Se non si perseguono le idee radicali, accade che questa giustizia, minuto per minuto, venga erosa e ci si trovi poi ad accettare riforme welfariste, gabbie più grandi, discorsi incentrati sulla salute e sull'ambiente, nella convinzione che serva essere pratici, che si debba cedere o abdicare alla propria radicalità per ottenere qualcosa. Che si debba essere accondiscendenti.
E invece no. Perché se cediamo oggi a parlare in nome degli animali e nei loro esclusivi interessi, quello che lasceremo agli attivisti di domani saranno sole le briciole di un veganismo ormai svuotato di ogni contenuto antispecista di liberazione animale e ridotto a dieta o stile di vita alternativo.
Sette minuti è un bel film. Ma è bello perché si presta a tante riflessioni ed è un invito al pensare ragionato, al peso delle scelte e delle idee, che non sono mai teorie astratte, ma hanno conseguenze pratiche, sempre. E non riguardano mai soltanto noi, ma la società nel suo complesso.
Gli individui contano, le scelte dei singoli hanno un peso. Il sistema si regge sempre sulle decisioni prese dai singoli nei momenti cruciali e anche in quelli che sembrano meno cruciali. Il percorso per la giustizia è un percorso di idee e azione. Teoria e pratica. Decisioni dei singoli per risultati collettivi.