sabato 29 febbraio 2020

Oh, io amo gli animali, ho un cane per cui farei follie!

Che belle le dichiarazioni d'amore delle persone verso i loro cani, gatti, coniglietti. Li vedono come figli, li proteggono, li accudiscono, li curano se si ammalano, ci dormono abbracciati e quando muoiono li piangono. Si rendono conto che sono intelligenti, perspicaci, consapevoli, capaci di esprimere la loro volontà e di avere esperienza del mondo.

Peccato che queste stesse persone non riescano a capire che pure tutti gli altri animali sono individui e non cibo, non prodotti, non macchine da usare, non risorse da allevare per trarne profitto.

giovedì 27 febbraio 2020

L'uso è già un abuso

Ogni volta che si scrive "maltrattamenti sugli animali in questo o quell'allevamento" si sta implicitamente affermando che il problema sia la modalità con cui si trattano gli animali, e non la normalizzazione del loro uso.

La violenza è nell'uso. L'uso di corpi che non ci appartengono.

mercoledì 26 febbraio 2020

Lo stagista inaspettato


Lo stagista inaspettato (titolo originale: The Intern) di Nancy Meyers è una commedia gradevole e femminista.
De Niro, nei panni di un vedovo in pensione in cerca di un'occupazione che lo tenga occupato, risponde a un annuncio di una start up di e-commerce creata e gestita da una giovane donna (Anne Hathaway).

Attenzione, da qui in poi ci sono spoiler, anche se faccio una riflessione abbastanza generale:

Il film propone solo in apparenza il classico conflitto sociale della donna in carriera, dilaniata tra lavoro e sensi di colpa per non aver demandato al compagno il ruolo dell'accudimento della bambina e della gestione familiare, in realtà invece affronta e risolve quello maschile e sociale, incapace di accettare nel profondo l'inversione dei ruoli; o meglio, l'accettazione sociale di una paritaria considerazione della donna che lavora.
Il problema infatti è che nella nostra società una donna che passa molte ore a lavoro e che quindi ha meno tempo da trascorrere con i figli viene sempre colpevolizzata, comunque giudicata negativamente; mentre non accade il contrario. Così succede che una donna che lavora molte ore, poi, per sopperire al senso di colpa indotto dalla società, una volta tornata a casa o nel tempo libero, si ammazzerà comunque di lavoro anche tra le mura domestiche per dimostrare che è perfettamente in grado di bilanciare e gestire lavoro e famiglia. Si chiama multitasking burn out, cioè esaurimento da sollecitazioni multiple. Molte donne che lavorano infatti si stressano non tanto per i compiti del lavoro stesso, che sono perfettamente affrontabili, ma dal controllo contemporaneo sulla vita al di fuori del lavoro: pensare a cosa mettere in tavola per la cena, pensare a passare a prendere i bambini a scuola o alle altre attività a cui partecipano, a comprare il regalino per il compleanno dell'amichetto, tenere a mente l'appuntamento dal dentista e la scadenza di questo e quell'altro, insomma, non è il lavoro che stressa, ma l'insieme delle incombenze del quotidiano da incastrarci in mezzo, incombenze che ancora per gran parte vengono demandate alle donne, pena il severo giudizio sociale, la stigmatizzazione di non essere una brava madre, l'accusa di aver sacrificato la famiglia per il lavoro, anche se quello è un lavoro che la realizza, che la rende felice, il lavoro dei suoi sogni per cui ha studiato e che si è costruita duramente negli anni. Tutti giudizi che invece non sono mai indirizzati agli uomini, i quali vengono invece incoraggiati a perseguire i propri sogni lavorativi e di carriera e quando sono a lavoro si concentrano esclusivamente su quello, senza pensare alle camicie da stirare, al pane da comprare, al figlio da accompagnare a lezione di tennis, ai colloqui degli insegnanti, allo shopping perché il bambino è cresciuto e non ha più scarpe da mettersi (perché di solito è la moglie che ci pensa, anche se lavora pure lei... ma tanto lavora part time, sono cose da donna queste, sono le donne che di solito ci pensano e via con una sfilza di luoghi comuni).

Agli uomini viene chiesto molto meno, nessun uomo avverte mai la necessità di doversi giustificare perché ha scelto la carriera e nessun uomo viene colpevolizzato, socialmente, se viaggia per affari, se lascia a casa la moglie e i figli, se va a cene di lavoro ecc.; al massimo sono dinamiche che si risolve a livello personale, dinamiche interne alla famiglia, ma non c'è la pressione sociale perché è considerato normale che l'uomo trascorra molto tempo fuori di casa, che viaggi per lavoro ecc.

Ecco, seppure con leggerezza - è una commedia - il film tocca queste questioni. E, una volta tanto, è la donna che viene incoraggiata a non sacrificare i propri sogni.

Nel film vengono poi affrontati altri aspetti, non meno importanti, come il riconoscimento del contribuito di tutti gli impiegati a prescindere dal sesso di appartenenza; anzi, a volte è la protagonista stessa a scivolare in stereotipi che riguardano il suo stesso sesso, quando ad esempio non sembra riconoscere il valore della sua assistente donna, seppure laureata, e affida compiti più importanti allo stagista uomo. Qui è evidente la visione ancora paternalista, il bisogno di affidarsi a un uomo perché uomo. E in maniera sottile forse questa cosa c'è, alla fine è l'uomo che fa il discorso femminista in una sorta di mansplaining, ma il film manda comunque un messaggio complessivamente femminista e, credetemi, trattandosi di un film comunque hollywoodiano, di una commedia per tutti, leggera e divertente, è tutto oro che cola.

Si affronta poi anche il tema della vecchiaia, dell'isolamento sociale che spesso vivono i pensionati, dell'ageismo ecc.

P.S.: La parità tra uomo e donna non avviene se anche le donne lavorano. Avviene se la considerazione è paritaria, se cade lo stigma sociale delle donne in carriera, se la divisioni dei compiti al di fuori del lavoro è veramente ed equamente suddivisa. Avviene quando i ruoli di genere sono veramente abbattuti nel profondo.
E ne siamo ben lontani.
Una donna che lavora è ancora quella che trascura i figli.
Mentre l'uomo che lavora è quello riconosciuto appieno nel suo ruolo.

martedì 25 febbraio 2020

Differenze tra specismo e nazismo (non solo analogie)

Ancora una riflessione sui salvataggi degli animali tramite denaro o concessione pietistica da parte degli allevatori e macellai.
Allora, molti portano l'esempio di Schindler che salvava gli Ebrei impiegandoli come lavoratori nella propria azienda, così sottraendoli ai lager.
Ora, questa azione, di per sé molto nobile, non ha combattuto il nazismo, ma ha semplicemente offerto salvezza ad alcuni individui. Il nazismo poi è stato sconfitto, come sappiamo, con una guerra cruenta.

Ora, vorrei suggerire di fare attenzione alle analogie che si fanno con il nazismo e con l'Olocausto. Io stessa ne faccio spesso, paragonando le strutture dei lager a quelle dei macelli e degli allevamenti, la modalità di soppressione delle identità delle vittime, la costrizione, la deportazione forzata, le modalità con cui si opprimono le persone - umane o non umane che siano - con cui si annienta ogni tentativo di singola ribellione grazie a una superiorità di mezzi e forza, così impedendo qualsiasi forma di lotta organizzata, ma tra i due fenomeni c'è anche una profonda differenza e cioè che mentre il nazismo fu una dittatura spietata che subito trovò l'opposizione di molti Stati e persone (da ricordare la Resistenza dei tedeschi), lo specismo è invece un'ideologia che esiste dalla notte dei tempi, normalizzata, legittimata, naturalizzata.
Che il nazismo fosse un'aberrazione fu evidente a tutti, a parte i nazisti e i collaborazionisti che avevano i loro interessi, vantaggi, deliri di potenza e superiorità. Certo, una macchina spietata come quella messa in moto dai nazisti non si costruisce in due giorni e ha alle spalle teorie razziste, costruzione dell'identità dell' Ebreo in negativo e come capro espiatorio di tutti i guai economici della Germania dell'epoca (che viveva una profonda crisi economica per la pesante eredità della prima guerra mondiale e concorrenza spietata con la Francia per l'esportazione di importanti materie prime, perdita della Saar ecc.), però comunque sia l'Europa non è che accolse a braccia aperte Hitler, e molti paesi conquistati dalla Germania furono comunque conquistati militarmente. Con la forza e la violenza, con la paura. L'emergere del nazionalismo riguardò alcuni stati, come l'Italia, la Spagna e poi la Francia dopo l'occupazione, ma anche questo fu comunque un'aberrazione e ha sempre visto un gruppo di Resistenti.

Invece riteniamo perfettamente normale far nascere individui, privarli di esistenze libere e poi usarli come macchine o trasformarli in prodotti.

Lo specismo non ha Resistenti, a parte noi, da circa qualche decennio, anno, mesi per alcuni; cioè, in termini storici, adesso, un attimo fa.

Lo specismo è considerato normale. Non è che costringiamo le persone a comprare i prodotti animali con una pistola puntata alla tempia, pena ritorsioni e perdita della vita; le persone li comprano perché pensano che non ci sia nulla di male; nemmeno li vedono i corpi degli altri animali - che sono referenti assenti - vedono cibo; dicono "pollo", ma non vedono il singolo individuo con le ali e le penne cui è stata negata l'esistenza; vedono un prodotto alimentare da fare in padella.

Gli orrendi crimini nazisti sono apparsi subito come tali, mentre i crimini che avvengono dentro i laboratori di vivisezione o dentro i macelli appaiono come normali, sono giustificati, accettati, legali.

Quindi, già portare Schindler come esempio non va bene perché comunque è evidente come il nazismo non sia stato certo sconfitto a forza di salvataggi di singoli individui; ma poi bisogna appunto considerare le due diverse forme di ideologie.

Per combattere quella specista servirà ben più di una collaborazione con allevatori o macellai di turno che fanno finta di impietosirsi per poi vantarsi della pubblicità ricevuta. Bisogna combattere la cultura che vi è dietro, che consente l'esistenza, degli allevamenti e dei mattatoi (e degli zoo, circhi, laboratori di vivisezione ecc.). Bisogna combattere lo specismo come ideologia invisibile, normalizzata, naturalizzata.

La Resistenza allo specismo dobbiamo costruirla bene, su basi solide, non facendo affari con gli allevatori, con le industrie ecc.
Quello si chiama collaborazionismo.

lunedì 24 febbraio 2020

Quell'attivismo così rassicurante...

L'homo sapiens trova difficile cambiare. Che si tratti di abitudini quotidiane rodate da anni, quale quella di prendere un caffè appena alzati la mattina e di farlo svolgendo un preciso rituale, o che si tratti di idee, credenze, opinioni confermate e supportate dalla maggioranza, quindi spacciate per "normalità", il risultato non cambia.
Il cervello fa fatica a pensare in modo critico, ad accogliere e mettere in dubbio, a stravolgere, a cambiare, appunto. Trova più semplice confermare le proprie idee perché ciò è rassicurante. E cercare conferma di esse, prestando attenzione a tutto ciò che in qualche modo assolve questo compito e ignorando, dimenticando, negando, rimuovendo il resto. Stare nella zona comfort, si dice. Anche se alcune abitudini possono essere nocive, anche se una parte di noi le percepisce magari come discutibili o addirittura sbagliate, comunque sia, se sono quelle cui siamo abituati, ci danno comunque conforto e protezione.

Ora, vediamo di applicare questo discorso allo specismo.
Da quando nasciamo ci dicono e ci comunicano in ogni modo possibile che mangiare e usare animali sia una cosa normale; rinchiudiamo e forziamo alcuni animali in ruoli precisi e pensiamo che questi ruoli siano naturali (naturalizzare, si dice, funzioni che invece sono frutto di cultura e non biologiche); così alcuni li mangiamo, mentre altri li consideriamo da compagnia, altri ancora li sfruttiamo come fossero macchine, o li usiamo in spettacoli di intrattenimento o li rinchiudiamo per andare a guardarli o ancora li torturiamo e facciamo ammalare per farci gli esperimenti. Quale che sia la funzione cui li destiniamo, consideriamo normale usarli per i nostri interessi e scopi perché sin da quando siamo venuti al mondo abbiamo visto farlo, sappiamo che è legale, lo facevano anche la nonna, la mamma, il papà, e tantissime altre brave persone che di certo non sono dei mostri nazisti. Questo ci dice ogni fibra del nostro cervello. E questo tendiamo a conservare.

Ora, quando una minoranza arriva a mettere in discussione tutto ciò è importante che lo faccia andando a intaccare il cuore di queste credenze errate e usando anche un certo tipo di argomentazioni logiche e chiare. È molto importante che i nostri messaggi e le nostre comunicazioni non siamo ambigue e che, soprattutto, non contengano elementi che possano invece rassicurare e confermare proprio quelle credenze che vogliamo scalfire.
Secondo quanto detto sopra, infatti, il cervello, pigro nel cambiare, a suo agio nelle abitudini e credenze della zona comfort, si comporterà come una bambino spaventato che di fronte alle novità che lo disorientano e spaventano - perché mettono in discussione tutto ciò cui aveva creduto fino a quel momento e fanno crollare la sua scala di valori, che poi è la scala di valori della società antropocentrica e specista, cioè quella che dice che l'umano viene prima di ogni cosa - cercherà riparo proprio in quella piccola ambiguità e frasetta che gli conferma e ribadisce che in fondo quello che pensa e fa non sia sbagliato.
Dunque, se noi portiamo avanti un'idea di antispecismo che contempla l'amicizia con gli allevatori, il pietismo nei loro confronti, la riduzione dell'uso degli animali (anziché l'abolizione), le gabbie più grandi (anziché la loro totale eliminazione) o che si appella ad argomentazioni indirette in cui gli altri animali sono comunque ancora inseriti, a livello discorsivo e di immagine, dentro il paradigma specista che ne conferma l'uso, non solo non andremo a scalfire il cuore dello specismo, ma daremo un appiglio al cervello per confermare e rafforzare quanto già sa. Il cervello riceverà conferma del fatto che in fondo gli allevatori non fanno poi delle cose così terribili e che in fondo non sia poi così sbagliato usare gli animali, basterà trattarli meglio, ucciderli pietosamente, non picchiarli, non abusarli (ma l'abuso è già nell'uso poiché il corpo degli altri non dovrebbe appartenerci).

In questi giorni si è parlato molto del salvataggio di una mucca e di un vitellino a opera di Joaquin Phoenix (che comunque ha agito all'interno di una cornice di attivismo che ormai sta andando per la maggiore), il quale si è recato presso un noto allevamento e dopo aver parlato con il proprietario si è fatto regalare questi due individui.
Tutti si sono focalizzati sull'azione del salvataggio. Nei giorni successivi l'allevatore addirittura se ne è vantato sui suoi social, affermando che per lui era tutto un ritorno in pubblicità positiva e quindi business; poi Phoenix si è fatto una foto con lui, come fossero grandi amiconi, e si è sperticato in lodi della suddetta persona, affermando di aver trovato un amico, che era una persona di buon cuore ecc.
Ora, indovinate un po' il cervello su cosa si sofferma? Ovviamente, non sul fatto che in quell'allevamento ci sono migliaia di individui che verranno mandati al macello di lì a poco, che le mucche saranno sfruttate e munte fino allo sfinimento, che i vitellini saranno ingrassati per qualche mese e poi inviati al macello anche loro, né, tanto meno, si sofferma sulla messa in discussione dello specismo in generale. No, si sofferma sulla buona azione dell'allevatore, sulla pacca della spalla di Phoenix all'allevatore, sulla normalità di essere un allevatore, cioè uno che fa nascere individui deputati alla sola funzione di essere macchine e prodotti. L'allevatore è uno di noi, allevare è un lavoro come un altro, lo dicono persino gli animalisti, lo dice persino uno come Phoenix.

Ma questo di Phoenix è in fondo un aneddoto come tanti. Come troppi in questa nuova era di attivismo che sta totalmente stravolgendo il concetto di liberazione animale, servendo all'industria dello sfruttamento animale la soluzione per rinnovarsi e rafforzarsi tramite campagne incentrate su:
- riduzionismo;
- macellazione etica (magari con controlli effettuati dagli stessi attivisti o proponendo di mettere telecamere);
- salvataggio di pulcini maschi;
richiesta di metodi meno cruenti di uccisione per i pesci, di stordimento ecc.;
- richiesta di eliminazione delle gabbie (ma non degli allevamenti);
- richiesta di buone pratiche di allevamento tramite applicazione di miglioramenti per il "benessere animale" (termine coniato dagli allevatori stessi e funzionale in realtà all'ottenimento di un buon prodotto, salubre ecc.).
In aggiunta a tutto ciò; confusione sul termine di veganismo (per l'ambiente, la salute ecc.).

E tutto ciò lo stiamo facendo noi attivisti, noi che ci dichiariamo antispecisti, le associazioni animaliste più blasonate in termini di visibilità. Lo stiamo facendo d'accordo con aziende che lucrano sugli animali, che li usano, vendono, commerciano. Lo stiamo facendo in anticipo, servendo soluzioni al mercato della carne, latte ecc.;
Il welfarismo, riduzionismo e tutto quanto decritto sopra NON dovremmo introdurlo noi, ma dovrebbe essere una risposta reattiva dell'industria dello sfruttamento degli animali.
E noi dovremmo farci trovare pronti a combattere tutto questo, non a incoraggiarlo, proporlo, confermarlo. Noi siamo quelli che dovremmo alzare l'asticella, non metterci sullo stesso piano di allevatori e macellai con tanto di pacca sulla spalla.

Il nostro fine deve essere quello di abolire lo specismo, di bloccare questo ciclo di riproduzione forzata di individui che vengono messi al mondo solo per essere trasformati in prodotti e usati nei più svariati modi, combattere questa agghiacciante normalità, questa assurda banalità del male. Se al contempo riusciamo a salvarne qualcuno tramite azione diretta va bene, ma il fine non è il salvataggio di qualche singolo per poi rafforzare e mantenere intatto il paradigma specista. Attenzione quindi ai messaggi che accompagnano le liberazioni, alle modalità con cui lo si fa e a come lo si comunica.

I piccoli passi, il riduzionismo, il protezionismo e le collaborazioni con gli allevatori e i macellai sono la zona comfort del cervello della maggioranza che cerca conferma delle proprie idee speciste.

domenica 23 febbraio 2020

Ideologie invisibili

Ogni tanto, quando si parla di antispecismo o femminismo qualcuno se ne esce con la frase: "sei troppo ideologica".
Chiariamo una cosa: tutte le culture sono portatrici di precise ideologie, e se non le vediamo è perché ci siamo cresciuti dentro, le abbiamo assorbite in modo acritico, e abbiamo finito per considerare normali e naturali alcune pratiche. Naturalizzare e normalizzare pratiche, abitudini, comportamenti, tradizioni è proprio ciò che fa una cultura, la quale si trasmette di generazione in generazione e viene recepita anche in modo inconscio.
Criticare e mettere in dubbio l'esistente è un esercizio che tutti dovremmo fare, anziché tacciare di estremismo chi lo fa, soprattutto quando è evidente che esistono rapporti di potere totalmente sbilanciati da una parte (che sia quella della nostra specie che domina le altre o quella di un sesso che opprime l'altro).
Di fatto lo specismo è anch'esso un'ideologia invisibile, cioè una forma di oppressione e sfruttamento normalizzati.

sabato 22 febbraio 2020

Crimini specisti

Un pensiero che ho scritto già altre volte e che mi è tornato in testa con insistenza in questi giorni è questo: gli animali di cui controlliamo totalmente i corpi, quelli che facciamo nascere dentro recinti minuscoli e teniamo ammassati fino a che non sono grassi abbastanza per essere mandati al macello, non sono privati soltanto della libertà e dell'esistenza nel senso pieno del termine, ma anche della possibilità di evolversi, come specie, intendo. Al massimo subiscono processi di eugenetica.
L'evoluzione è un processo graduale che avviene per forza di cose in relazione all'ambiente circostante, ci si evolve trovando soluzioni a problemi nuovi e inaspettati, in un ambiente che muta di continuo, che cambia e che favorisce un certo tipo di adattamento oppure lo respinge.
Cosa succede ad animali che sono tenuti in non-luoghi sempre identici da centinaia di anni, che non fanno nulla se non mangiare il cibo che gli viene propinato, che non si relazionano se non conflittualmente in ambienti sovraffollati e malsani o in reazione alla violenza agita dai loro aguzzini se solo provano a ribellarsi, che non si fanno un giaciglio, non grufolano, non sperimentano il cambiare delle stagioni, che non hanno, insomma, alcuna esperienza del mondo? Rimangono bloccati in un ruolo predefinito, quello di essere oggetti, prodotti, risorse rinnovabili di inseminazione artificiale in inseminazione artificiale; nemmeno si accoppiano, non sperimentano nemmeno il piacere sessuale.

Questo è un crimine, se possibile, anche peggiore: blocchiamo evoluzioni di intere specie, di intere popolazioni non umane.

sabato 15 febbraio 2020

L'antispecismo non deve essere secondario ad altre lotte

Sul discorso delle intersezioni dico un paio di cose: intanto, che mi piacerebbe che gli altri movimenti iniziassero a pensare all'antispecismo almeno quanto noi ci preoccupiamo ogni volta di specificare che siamo anche contro questo e quell'altro.

Infatti non capisco perché se scendo in piazza con le femministe devo implicitamente accettare di lottare a fianco di persone che mangiano animali perché comunque in quel caso mi viene detto che la lotta femminista è contro una specifica forma di oppressione e quindi devo accettare, in quel contesto, di lasciare gli animali non umani in secondo piano, di fatto comportandomi come se fossi specista; mentre il contrario è per noi antispecisti sempre inammissibile. E va bene, sono d'accordo che in quanto antispecisti di default dovremmo essere anche contro ogni altra forma di oppressione e discriminazione, ma che sia anche il contrario altrimenti è vero che lasciamo sempre gli animali non umani sullo sfondo e che le battaglie che riguardano gli umani contano sempre di più.

Premesso questo, penso che ci sia confusione sul termine "intersezionale". Un movimento intersezionale è un movimento che si occupa allo stesso tempo di più battaglie insieme: non privatamente, come individui, ma proprio come strategia, policy, agenda, obiettivi definiti. Un movimento, ad esempio, che si occupa degli animali non umani uccisi nei macelli e allo stesso tempo dello sfruttamento dei lavoratori dello stesso macello, è un movimento intersezionale; un movimento (o associazione, gruppo, fate voi) che si occupa dell'oppressione delle donne umane, quindi femminista, e allo stesso tempo dell'oppressione delle mucche e delle femmine di altri animali schiavizzate nell'industria del latte, è un movimento intersezionale; un movimento che si occupa sia di ecologia che di antispecismo è un movimento intersezionale. I movimenti intersezionali, per quanto nobili, portano con sé una serie di problematiche e contraddizioni: perché nel momento in cui parlo dell'impatto degli allevamenti per fare un discorso ecologista, automaticamente non sto facendo un discorso antispecista in cui si ritiene invece sbagliato allevare animali di per sé in quanto li si riconosce soggetti di una vita e non perché il processo di trasformazione dei loro corpi in prodotti inquina e distrugge territori. Al riguardo dell'intersezione tra vittime non umane nei macelli e presunto sfruttamento dei lavoratori penso che abbiamo avuto di recente un esempio eclatante con il Save Movement. Fatele le intersezioni, poi però non venite a lamentarvi se gli altri animali finiscono sempre in discorsi e narrazioni speciste e continuano a essere visti come oggetti, elementi inquinanti, materie prime, risorse rinnovabili.
Ah, e lottare contro il capitalismo in senso ampio, non necessariamente significa lottare contro lo specismo. Anche qui, intersezionare con anticapitalisti che poi però ti accettano l'allevamento bio del contadino, ti sostengono il piccolo allevatore o i lavoratori diventa problematico. Si arriva poi a discorsi riduzionisti, welfaristi in cui gli animali non umani sono sempre visti come merci e risorse da utilizzare per i nostri interessi economici ecc.

Ciò che si diceva sopra, invece, ossia che una persona antispecista dovrebbe, si spera, automaticamente rigettare anche ogni altra forma di oppressione e discriminazione si chiama, semplicemente, libertarismo. Ossia, riconoscimento del principio della libertà di ogni essere senziente, a prescindere dalla sua appartenenza di specie, etnia, sesso, orientamento sessuale.

lunedì 10 febbraio 2020

Teoria e Pratica

Combattere lo specismo significa combattere il concetto stesso di umanità che si è formato nei secoli in opposizione a quello di animalità. Significa combattere la nostra stessa cultura, tutto il sapere appreso, in modo formale e informale.
Premesso ciò, risulta evidente come sia abbastanza inutile parlare di compassione verso gli animali se prima non si abbattono i pregiudizi culturali sugli animali stessi.

Noi abbiamo il dovere di continuare a ripetere che schiavizzare gli animali (e la schiavitù è nel semplice uso, è implicita nel concetto di usarli) è un'ingiustizia, ma prima dobbiamo smantellare il concetto che abbiamo interiorizzato dell'animale-macchina, oggetto, merce, risorsa rinnovabile. Perché se gli animali sono percepiti come macchine da usare e per produrre qualcos'altro, sarà difficile riuscire a comunicare la portata di questa ingiustizia.

Per smantellare questa idea, questa immagine mentale, questi segni portatori di certi significati - che ci continuano a essere propinati in ogni prodotto culturale, sia intellettuale, che materiale, quindi linguaggio, arte, narrazioni, informazioni, economia, politica ecc. - ci vorrà tempo, e il fatto che ci voglia tempo non deve farci cadere nell'errore di voler imboccare scorciatoie facili.

Non dobbiamo cadere nella trappola della ricerca del consenso.

Affermare: "eh, ma le persone non capiscono, intanto possiamo però dirgli alcune cose più semplici come mangiate meno carne perché inquina" e quindi livellarsi a ciò che essi comprendono oggi degli altri animali (ossia che sono macchine per produrre qualcos'altro o prodotti alimentari e comunque esseri di minor valore rispetto a noi, esistenze sacrificabili per i nostri interessi economici, culinari ecc.) significa impantanarsi in uno stallo mentale, scatenare un corto-circuito, un impasse culturale che di fatto torna utile al mantenimento e rafforzamento dello status quo.

Questi potranno sembrare discorsi fin troppo astratti e teorici, filosofici, ma le buone pratiche dell'attivismo discendono dalle buone teorie.

giovedì 6 febbraio 2020

Complicità

C'è una negazione continua di quello che avviene agli altri animali, una rimozione costante, un meccanismo di auto-illusione che porta le persone a convincersi che la violenza sia un'eccezione e che sia possibile usare corpi di individui senzienti, farli a pezzi, così come stuprare mucche, ammassare galline, soffocare pesci e in generale imprigionare individui in modo etico e rispettando il loro benessere; ma il benessere animale è un concetto che hanno inventato gli allevatori stessi, una menzogna, una mistificazione semantica.
Non c'è benessere nella privazione della libertà e nel controllo sistematico, totale e sistemico dei corpi. Non c'è benessere quando vieni fatto nascere al solo scopo di essere trasformato in prodotto.
Programmare nascite al sol fine di trasformarle in prodotti è un'aberrazione in sé, a prescindere dai metodi.
Gli altri animali sono senzienti, coscienti di sé e capaci di fare esperienza del mondo. Negargli questa esperienza è abuso, violenza, schiavitù.
Imporsi di non pensarci, voltare le spalle, gli occhi, la testa, non voler approfondire è qualcosa di peggio che essere semplicemente indifferenti: significa essere complici.