lunedì 28 dicembre 2020

Ennesimo esempio di etica al ribasso

 Alla dichiarazione di non volersi fare il vaccino per motivi etici quasi tutti obiettano che allora non dovremmo nemmeno curarci se ci ammaliamo.

È un tipico esempio di etica al ribasso, peraltro fallace perché non distingue tra le diverse situazioni in cui si può effettivamente scegliere e quelle in cui invece non è possibile, pena il rischio della vita.

Se si ha una malattia conclamata dalla quale si può guarire solo assumendo farmaci, allora sarebbe autodistruttivo lasciarsi morire; si richiederebbe cioè un tipo di etica che andrebbe contro la propria sopravvivenza e non si tratterebbe nemmeno più di etica, ma di sacrificio. 

Il vaccino contro il covid però ci pone in una situazione diversa. Innanzitutto dovremmo iniettarci qualcosa non a fronte di una malattia, ma di una probabile malattia, che non è affatto detto che ci porti alla morte. 

Gli elementi negativi per chi è antispecisti sono due: si tratta di un farmaco testato su animali e che in più contiene ingredienti di origine animale. E che dovremmo farci iniettare per evitare di contrarre un virus che potremmo anche aver preso senza nemmeno essercene resi conto (gli asintomatici sono tanti) o che potremmo non prendere mai o che potremmo prendere e da cui guarire senza tanti effetti collaterali.

Mettiamo da parte il discorso etico e affrontiamo quello medico-scientifico.

Gli effetti collaterali di questo vaccino appena messo in commercio, velocemente, per ostacolare un virus nuovo e che muta velocemente, si conoscono? 

Nella mia esperienza i vaccini non impediscono di farti venire l'influenza. In passato li ho fatti, per tre o quattro anni consecutivi, e mi sono sempre ammalata lo stesso. Il medico rispondeva che il vaccino non garantiva del tutto di non ammalarsi e che i virus dell'influenza mutano.

Dunque, riassumendo, io dovrei farmi iniettare un farmaco di non sicura efficacia, di cui ancora non si conoscono gli effetti collaterali (e comunque gli effetti collaterali sono diversi da persona a persona, quindi farmaci del tutto sicuri non esistono), testato su animali e contenente derivati di origine animale per scampare, forse, a un ipotetico contagio di un virus che muta velocemente e che magari ho già contratto? 

Quando devo prendere delle decisioni non facili io in genere faccio così, soppeso i pro e i contro. Poi siccome la vita non è un grafico, a volte intervengono fattori esterni o interni (emozioni, parte irrazionale ecc.) a farmi lo stesso decidere in un verso anziché in un altro nonostante i contro o i pro, ma, ad oggi, io propendo per non farmi il vaccino. 

Se sarà reso obbligatorio vedremo, ma a quel punto porterò un certificato medico che attesti la mia buona salute e qualsiasi effetto collaterale dovessi avere farò causa alle aziende farmaceutiche e allo stato italiano. 

Un vaccino iniettato contro la propria volontà si chiama trattamento sanitario obbligatorio ed è un grave attentato all'autodeterminazione della libertà sul proprio corpo.

Se volete commentare, per favore, non insultate e non iniziate con le etichette. Non sono una novax (ma questo si dovrebbe evincere da quello che ho scritto), ho fatto vaccini in passato, farei vaccini contro virus ad elevata mortalità. Sono però contraria all'autorità di altri sul mio corpo e sui corpi altrui e sinceramente tutta questa propaganda mediatica non mi piace nemmeno un po'.


martedì 22 dicembre 2020

La città dei vivi di Nicola Lagioia


Non riesco a smettere di leggerlo da ieri. Non è una semplice ricostruzione di un omicidio efferatissimo, ma il tentativo di comprenderne il perché partendo dall'analisi di una città già di suo incomprensibile come Roma. Dicono che a Roma non succeda mai niente, e invece è una città che sotto sotto ribolle, non sta mai ferma, come le acque torbide del fiume che la attraversano.

L'inizio è come una sorta di messa a fuoco, si parte dal luogo più iconico di Roma, il Colosseo, e si racconta la corruzione e il lassismo amministrativo con poche, efficaci battute, poi si stringe il campo sull'interno di un ufficio e dal pubblico si passa al privato, all'interno di una casa con una TV accesa da cui provengono le immagini del fatto di cronaca, dell'omicidio, assurdo e insensato, di un giovane ragazzo. Questo movimento dall'esterno all'interno e fino al privato, ai personaggi, corredato da interviste, messaggi su WhatsApp ecc. è la trama che Lagioia intesse per cercare di tenere insieme e dare un senso a questa tragica vicenda e ci riesce magnificamente, senza retorica, senza indugio nel morboso, senza bisogno di effetti speciali, semplicemente ponendosi domande e scrivendo con sincerità.

domenica 20 dicembre 2020

Normal People (serie tv)

 

A volte le serie tv più belle le scopro per caso, facendo zapping la sera tardi nella speranza che mi venga sonno e invece con il risultato di ritrovarmi a guardare un episodio dietro l'altro fino all'alba.

Questa è Normal People, tratta da un romanzo di successo di una scrittrice molto giovane (Sally Rooney) ma, pare, molto talentuosa, che però non ho ancora letto.

La storia segue le vicende di due liceali in un piccolo paesino dell'Irlanda e li accompagna durante gli anni dell'università al Trinity College di Dublino. Marianne e Connell sono due ragazzi introversi che fanno fatica a comunicare, ma visceralmente attratti l'uno dall'altra. Si conoscono e parlano attraverso il sesso, i loro corpi si capiscono e si accolgono più di quanto riescano a fare con le parole e infatti ogni volta che parlano finiscono per farsi male e allontanarsi. Il non detto, l'immaginato, il trarre conclusioni e supporre è la loro via per farsi del male, in un desiderio di autodistruzione e infelicità. Ma anche questo farsi male è comunque una forma di complicità e un modo, alla fine, per crescere e accettarsi, non solo loro stessi, ma loro stessi nel mondo.

Una storia di formazione, dunque, e d'amore, delicata e profonda.

sabato 12 dicembre 2020

Un bravo ragazzo di Javier Gutiérrez

 


Una storia forte dal ritmo serrato che si legge tutta d'un fiato, scritta con l'uso peculiare della seconda persona.

Siamo a Madrid, Polo, io narrante che si rivolge a se stesso in seconda persona, incontra per caso Bianca, un'amica dei tempi dell'università con cui, insieme ad altri due amici, tra cui il fratello di lei, aveva formato una band negli anni novanta. Da questo momento la narrazione si riempie di flashback alternati ai dialoghi con lo psicologo e con la sua attuale fidanzata, Gabi.

Quel che emerge, a sprazzi, è il racconto di una notte di violenza, una notte che è stata la fine di tutto e il principio di qualcos'altro: la fine di quel periodo meraviglioso pieno di entusiasmi e di scoperte in cui la vita era una meraviglia continua, la fine della band, proprio nel momento in cui stava per firmare un contratto con un'etichetta importante, la fine dell'amicizia con i ragazzi della band. 

Nel racconto pian piano si fa strada la verità, ma quale verità se Polo mente persino a se stesso, fino all'ultimo? 

Anche il finale è una menzogna che Polo si racconta e racconta a noi lettori, ostinatamente: quella di essere "un bravo ragazzo".


venerdì 11 dicembre 2020

Legati i maiali di Teodora Mastrototaro

 


Una volta Teodora mi disse che scrivere poesie significa prendere un'immagine che è rimasta impressa nella nostra mente e renderla universale.

In Legati i maiali, le immagini che ci vengono presentate sono immagini di dolore. Un tipo peculiare di dolore, che non è quello dello struggimento per un amore non corrisposto o per la perdita di un affetto, ma è quello innanzitutto fisico. Il dolore dei corpi. Della reclusione, del freddo, o del  caldo, della prigionia, della lama che incide la carne, delle viscere che cadono a terra, dei liquidi corporei, sangue, lacrime, sudore, pus che colano da corpi squartati, dilaniati, tumefatti.

Freddo e caldo non sono però meramente delle sensazioni che vengono enunciate, ma ci vengono trasmessi attraverso l'effetto che producono sui corpi. Se si dice "faceva un freddo terribile", infatti, dobbiamo fare uno sforzo d'immaginazione per arrivare a sentire quel freddo; ma se invece si racconta della pelle rimasta attaccata al metallo a causa del gelo, come nella poesia che segue, ecco che quel freddo diventa immediatamente palpabile, che i nostri percorsi neurali subito richiamano alla memoria un'esperienza similare in cui abbiamo provato una sensazione di quel tipo e l'immagine si trasforma in qualcosa di più del semplice coinvolgimento emotivo: diventa compartecipazione, compassione intesa nel senso di empatia, di soffrire con; e allora noi diventiamo quei maiali, quei corpi, e sentiamo la nostra pelle staccarsi dal corpo per restare attaccata alle pareti di metallo gelate.

Alcuni maiali arrivano congelati 

per aver viaggiato vicino alle pareti del carro bestiame.

La realtà dell'inverno è nella durezza dei pezzi di pelle 

rimasti attaccati alle pareti di metallo quando

legati i maiali vengono strappati con forza e portati fuori.

Gli operai li gettano sulla pila dei morti, tanto moriranno

prima o poi, con la stagione del freddo.

Oppure, è un altro tipo di dolore che si racconta, quello di sapersi invisibili, di sentirsi annientati senza che si abbia avuto la possibilità di vivere, ma anche in questo caso ciò che si ricerca è la produzione di un effetto, di un sentimento, attraverso la descrizione di un dettaglio. Ed ecco che l'immagine di un fiore tagliato diventa scoperta e meraviglia agli occhi di un essere, un individuo, cui è negato lo scorrere delle stagioni, ossia, il divenire, il semplice esistere nel mondo.

Madre, non ho il permesso per le stagioni: 

devo crepare in assenza di stelle, in assenza di sole.

Nella trappola la verità di un fiore tagliato mi meraviglia

la sua crudeltà: siamo orfani da quando siamo stati partoriti.

Madre, andrò a dormire senza invecchiare, senza avere armi,

senza leccare la neve se mai arriverà.

Madre che infliggi la vita, guardami!

Non piango più, ormai ci somigliamo.

La raccolta è divisa in due sezioni: nella prima sono gli animali a esprimere il proprio dolore, sconcerto, stupore eppure consapevolezza precoce del destino che li attende; se per noi esseri umani la vita è una scoperta continua, una serie di rivelazioni in successioni, ossia quel che chiamiamo esperienza, per gli altri animali si consuma tutta in pochi attimi: il tempo di aprire gli occhi sul mondo e già l'inferno li inghiotte, senza esperienza alcuna se non quella di un dolore cui è negata la speranza del sollievo che arriva con la morte violenta; nella seconda parte il punto di vista si sposta dalla vittima all'aguzzino, o meglio su alcuni, feroci, particolari che l'aguzzino vede o di cui ci parla in prima persona, per mezzo dei quali la tragedia dell'olocausto animale esplode in tutto il suo significato.

Ci sono storie di bovini 

che cercano di scappare

infilando la testa sotto le grate

rimanendo incastrati.

Ci sono poi storie 

di liberazione degli animali

quando l'unico modo

per salvargli la vita

è mozzargli la testa

mentre sono lì

ancora in vita.

I dettagli sono ciò che ci rende possibile immedesimarci nella sofferenza degli altri. 

Parlare della tragica questione animale in generale, elencare dati, numeri, talvolta, rimane un esercizio astratto.

Le poesie di Teodora Mastrototaro invece arrivano fin dove è inimmaginabile arrivare: superano la soglia dei mattatoi, entrano nelle celle frigorifere e fin dentro le carni di quegli animali che la nostra umanità divora senza aver mai conosciuto davvero.

La speranza è che ci sia uno scuotimento interiore, in chi legge, un lampo di rivelazione improvvisa che possa arrivare a fargli sentire la tragedia di quello che facciamo agli altri animali in tutta la violenza fisica. Perché di questo si tratta: di violenza che noi perpetriamo, ininterrottamente, sugli altri animali.

C'è una pistola, prima dello stordimento

c'è un coltello, prima della iugulazione

prima della depilazione, ci sono vasche di acqua bollente

ci sono macchine a trazione, prima dello scuoiamento

prima dell'eviscerazione, c'è una pedana automatica

c'è una sega elettrica, prima del sezionamento.

Prima ci siamo noi.

Un libro come questo è più che bello: è importante. È necessario.

giovedì 10 dicembre 2020

Gli animali vittime di abusi domestici

 Quando si pensa allo specismo il nostro pensiero va immediatamente agli individui che vengono allevati, sfruttati e poi uccisi per essere trasformati in prodotti alimentari, di vestiario ecc., oppure a quelli rinchiusi negli zoo, torturati nei laboratori per la sperimentazione animale, braccati dai cacciatori ecc.; ma c'è un'altra faccia dello specismo, ancora più oscura e invisibile, che è il trattamento che subiscono migliaia di individui nel privato delle abitazioni domestiche. Animali picchiati, maltrattati, tenuti rinchiusi in gabbiette o teche, abusati da persone che non hanno nessuna idea di come gestire un animale, come crescerlo, come relazionarsi con lui. Ci sono persone che ancora usano la punizione per insegnare a un cane ad obbedire, che lo picchiano se fa pipì in casa o che gli ci strofinano il muso sopra. 

C'è poi un tipo di violenza ancora più difficile da rilevare ed estirpare poiché indecifrabile, irrazionale ed è quella agita da persone sadiche che provano piacere nel torturare gli animali o nell'usarli sessualmente. 

Non di rado questi atti di sadismo vengono persino filmati e messi in rete, ma, a causa dello specismo, è raro che i criminali subiscano conseguenze significative o che siano condannati, anche perché spesso si tratta di video girati all'estero, in paesi dove gli animali non hanno nemmeno quel minimo di tutela che c'è da noi. Ad ogni modo, per un caso che viene alla luce, ce ne sono migliaia che avvengono all'insaputa e di cui nessuno saprà mai nulla.

Tutto ciò è anche una conseguenza della mercificazione degli animali, ossia del fatto che chiunque possa entrare in un negozio e comprarli, a prescindere dall'uso che vorrà farne. Mentre per le adozioni in genere c'è maggior controllo. 

Il mio primo pensiero quando vedo animali in vendita nei negozi è sempre questo: in quali mani finiranno? 

E che dire delle violenze legalizzate come l'uso di trappole per topi, di veleni e colle che, oltre a causare la morte di piccoli animali, ne provocano lunghe e terribili agonie? 

La cosa che più mi sconvolge è vedere come persone perfettamente sane di mente e che, in generale, vengono definite "brave persone" siano capaci di commettere azioni terrificanti come annegare formiche nell'alcool, lumache nella birra o gettare aragoste vive dentro pentoloni di acqua bollente. 

Anche questa è una conseguenza dello specismo, ossia dello scarso valore che attribuiamo alla vita degli altri animali e all'ottusità che dimostriamo nel non voler riconoscere la capacità che hanno di sentire, avere esperienze, provare dolore fisico e mentale. 

La differenza ontologica tra noi e gli altri animali ci porta a mettere in atto una sorta di pensiero magico per cui quanto più manteniamo il nostro status privilegiato di specie superiore, tanto più neghiamo l'intelligenza e il valore a tutte le altre. Non vogliamo assolutamente riconoscerci animali tra gli animali perché questo ci farebbe sentire meno speciali. Denigriamo l'altro per meglio innalzare noi stessi, avviluppati in un'eterna patologia di personalità narcisistica.

Così, di fronte alla sofferenza di un'aragosta che tenta disperatamente di fuggire dal pentolone di acqua bollente o di un topo che cerca di liberarsi dalla colla, queste persone, moltissime "brave persone", restano indifferenti grazie alla convinzione intellettuale che le porta a minimizzare quella sofferenza, ossia alla convinzione che un topo, una formica, un'aragosta non soffrano come noi. Del resto lo si pensava anche delle persone deportate dall'Africa, si era convinti che non provassero i nostri stessi sentimenti. Che fossero, appunto, animali.

Ma incentrare tutto sulla capacità di provare dolore non è sufficiente perché altrimenti poi si potrebbe ricorrere a metodi di uccisione indolore. 

Bisogna invece combattere l'idea di base dello specismo, ossia l'attribuzione di minor valore alle esistenze degli altri animali.

martedì 8 dicembre 2020

Per te, Nora

 

È stato un lungo addio, piccola dolce Nora. 

Da gennaio, quando sembravi sul punto di lasciarci e poi ti sei inaspettatamente ripresa, passando per un'estate in cui, tra alti e bassi, hai potuto comunque godere del sole sul terrazzo, di pappe buone, di coccole e piccoli rituali, fino ad arrivare all'autunno quasi allo stremo delle tue condizioni fisiche. In questi ultimi giorni eri inquieta, diversa e sapevo che stavolta ci stavi lasciando per davvero. Che erano le ultime carezze, gli ultimi buongiorno, le ultime giornate al sole o a guardare la pioggia, le ultime fusa, gli ultimi sguardi. 

L'ultimo saluto in una notte piovosa, gelida come la morte quando si fa presenza. 

Ti ho sognato, dopo, quando mi sono appisolata per pochi attimi all'albeggiare di un nuovo giorno. Ho sognato che tornavi in vita, che ti riprendevi, che eri di nuovo tra noi. 

Porto con me questa immagine, di te che apri gli occhi e mi guardi, in pace. Sei qui, non te ne andrai mai. 

Ciao Nora.


lunedì 7 dicembre 2020

I gusti degli altri

 Iniziamo il lunedì con un po' di vis polemica, spero non oziosa. Dunque, ho appena letto "Sono vegan, ma rispetto tutti gli stili di vita". 

Il veganismo non è semplicemente uno stile di vita alternativo, ma una scelta etica che si riflette anche, ovviamente, nel quotidiano. Nasce da una presa di coscienza, intellettuale ed empatica insieme, da una conoscenza e comprensione profonda del fatto che gli altri animali sono esseri senzienti e che la discriminazione morale che effettuiamo nei loro confronti, quella che poi ci consente di ucciderli, sfruttarli ecc. sia fondata su pregiudizi e credenze errate, nonché da un'idea del tutto fantasiosa, mitopoietica quasi, tanto del concetto di animalità che di umanità, entrambi contrapposti e distinti da giudizi di valore ben precisi per cui quanto più si abbassa il primo, tanto più si innalza il secondo; sostenuta da leggi, normalizzazione culturale e reiterata e rafforzata attraverso pratiche, consuetudini, linguaggio cioè trasmessa culturalmente di generazione in generazione.

Preso atto di ciò, quindi della profonda ingiustizia dello specismo - cioè una volta che lo si è smantellato logicamente e filosoficamente - come si può dire che si "rispettano tutti gli stili di vita"? 

Sarebbe come dire, io sono femminista, ma rispetto la cultura che opprime le donne, oppure, sono pacificista, ma rispetto chi fa saltare in aria interi paesi.

Oppure semplicemente significa che si mangia vegetale, ma non come conseguenza di una presa di coscienza antispecista. 

Voi direte, purchessia. 

Ma in questo modo il messaggio di richiesta di giustizia per gli animali viene completamente dimenticato. 

Gli animali rimangono invisibili, assenti dal discorso, accettati nei piatti di chi ha uno stile "tradizionale" perché l'importante è rispettare tutti, tranne, appunto, le vittime.

Che poi, detto tra noi, tutto questa smania di rispetto per l'altro si manifesta sempre e soltanto quando le vittime in questione, invisibili, sono gli altri animali. Per altre ingiustizie e forme di oppressione infatti non diremmo mai, io sono così, ma rispetto te. A un pedofilo non diremmo mai, sai, io non vado con i bambini perché per me è sbagliato, ma rispetto i tuoi gusti. Questo perché l'etica non è una questione di gusti, non quando di mezzo c'è un terzo soggetto che diventa vittima dei gusti degli altri.

martedì 1 dicembre 2020

Corpi da consumare

 

Questa immagine racchiude la normalizzazione di due forme di sfruttamento: quello del corpo della mucca e quello del corpo della donna umana.

Entrambi i corpi ritratti sono finalizzati ad appagare il consumatore: l'onnivoro che beve il latte di mucca, in un caso, lo sguardo maschile, nell'altro.

E sì, perché lo specismo, cioè l'ideologia invisibile che normalizza l'uso degli altri animali, e il maschilismo, figlio della cultura patriarcale che sottomette le donne allo sguardo maschile e ne normalizza la mercificazione, vanno spesso a braccetto.

Nelle immagini, nel linguaggio, nella riduzione della donna all'animalità, o meglio, all'idea degradata che abbiamo costruito dell'animalità in opposizione a quella di umanità.

La donna è istinto, la donna è vacca, è troia, è cagna, è irrazionale, è vipera, è gatta morta, è zoccola, è la lupa, è divoratrice di uomini, è preda. Insomma, è l'animale per eccellenza, laddove l'animale è in opposizione all'uomo forte, saggio, razionale, ragionevole, predatore. L'uomo è intelletto, la donna è solo funzione corporale: da usare sessualmente o per procreare.

Vacca e donna. Utili al consumo. Questo ci dice, in sostanza, a un livello subliminale profondo, l'immagine postata.


Immagine presa dal web (ringrazio Giuseppe Di Benedetto per avermela gentilmente passata).

lunedì 23 novembre 2020

Esaltare gli animali: l'altra faccia dello specismo

 Una faccia dello specismo è ovviamente quella di relegare gli altri animali nell'insieme negativo dell'animalità contrapposto a quello positivo dell'umano/umanità. 

L'altra faccia, molto più subdola, è quella invece di esaltare gli animali attribuendogli caratteristiche mitiche o sacre, misticheggianti, simboliche, seppur in un'accezione positiva.

Lo specismo si rivela laddove gli altri animali non sono mai considerati per sé stessi, come individui con un valore inerente relativo ai loro interessi, ma sempre come "altro" - simbolico o magico - che abbia una qualche utilità per noi, effetto di una narrazione antropocentrica. Gli animali come mito della nostra storia, nella nostra storia, quindi, e non come individui, soggetti dotati di una loro individualità a prescindere dal nostro sguardo. 

Esaltare l'animalità è uguale a denigrarla. In ogni caso non si tiene conto della realtà specifica ed etologica degli animali, ma solo di ciò che noi, quasi leggendariamente o basandoci su stereotipi, proiettiamo sulle loro esistenze.

Gli altri animali non sono i nostri spiriti guida, non hanno proprietà divinatorie, non sono in contatto con l'aldilà o altro. 

Gli altri animali vivono in questo pianeta, semplicemente, e quel che gli dobbiamo è rispetto. Non amore, non adorazione perché non sono Dei, ma soggetti in corpi vulnerabili, mortali, esattamente come noi.

sabato 21 novembre 2020

Oscenità

 Entro in una pizzeria e nei pochi minuti di attesa prima che arrivi il mio turno, alle orecchie mi giungono i suoni deformati di quel che per me ormai è indicibile: prosciutto, salsiccia, porchetta, provola, salmone, gamberetti. 

"Deformati" perché come in un incubo è l'orrore che si fa normalità. 

E vedo quelle pinze afferrare parti di corpi ormai a brandelli, quelle bocche ridere e chiacchierare nell'indifferenza, pagare e mordere avide.

E penso ai novecento maiali cui è crollato un capannone addosso (qui la notizia).

Penso che i più fortunati non sono stati quelli che si sono salvati, ma quelli morti subito, schiacciati, perché gli è stata risparmiata l'oscenità del mattatoio. 

Quando accadono incidenti in cui sono coinvolti gli animali allevati per le nostre orribili tradizioni culinarie - tir ribaltati in autostrada, incendi o crolli nei capannoni - l'azzeramento del valore delle loro esistenze si rivela in tutta la sua brutalità; a partire dalle narrazioni dei media, in cui le vittime non sono conteggiate come tali, ma solo in termini di perdita economica per poi proseguire con la conta dei superstiti che però non possono definirsi "salvati" perché nella destinazione cui sono diretti - il mattatoio - non c'è salvezza. 

Basterebbe riflettere su questo per capire l'insensatezza di tutto ciò. Ma chi lo fa? Riflettere, dico... 

Si entra in pizzeria e si chiede quel che si ha davanti, prosciutto, gamberetti, salmone, salsiccia. 

Un corto circuito cognitivo spaventoso. Osceno.

sabato 24 ottobre 2020

My octopus teacher

 

My Octopus Teacher è un documentario che potete vedere su Netflix e che parla dell'amicizia tra un uomo e una femmina di polpo. 

In seguito a delle vicissitudini personali, Craig Foster inizia a immergersi in un'area vicino Cape Town, in Sud Africa, denominata Kelp Forest perché contraddistinta da una vegetazione ricca di alghe Kelp. 

Qui un giorno è incuriosito da una strana forma depositata sul fondale e dopo qualche minuto di osservazione realizza che si tratta di un polpo che si è ricoperto di conchiglie e altro materiale nel tentativo di camuffarsi e nascondersi alla vista del suo maggiore predatore, lo squalo pigiama. 

L'uomo decide così di immergersi ogni giorno per osservare questa strana creatura e a poco a poco riesce a conquistare la sua fiducia.

Nel momento in cui si viene a creare questa bella relazione di amicizia, Foster inizia anche a porsi una serie di domande, per esempio se è giusto intervenire per proteggerla dagli attacchi di uno squalo o se è meglio non interferire. 

Il documentario, diretto da Pippa Ehrlich e James Reed, è il risultato di un anno di riprese, poi montate allo scopo di raccontare lo sviluppo della relazione tra Foster e la femmina di polpo ed è molto interessante perché oltre ad insegnarci molte cose sui polpi, animali dotati di un'intelligenza peculiare dettata dalla necessità di sopravvivere ai tanti predatori e in ambienti ostili, ci mostra il percorso di Foster che proprio grazie alla sua amica apprende la gentilezza, il rispetto e il valore di ogni animale, anche il più piccolo. 

Per questo motivo, se non proprio antispecista, lo definirei comunque un documentario non antropocentrico, capace di spostare la prospettiva dal nostro punto di vista per seguire quella del polpo e di altre creature marine. 

Foster capisce che per stare accanto alla sua amica e seguirne gli spostamenti è necessario che impari a pensare come un polpo, che diventi il polpo. 

La cosa bella è che Foster non ha mai l'atteggiamento antropocentrico di chi invade gli habitat selvatici pensando che sia suo diritto padroneggiarli e filmarli, ma cerca di entrarne a far parte come un animale qualsiasi, senza alternarne l'equilibrio; non tenta di manipolare o di toccare il polpo, ma aspetta che sia lei ad avvicinarsi, una volta superata l'iniziale diffidenza. 

Le scene in cui lei gli si avvicina sono molto toccanti e spero che facciano riflettere tutte le persone che ancora mangiano i polpi. 

Sono individui particolari, molto diversi da noi, ma, esattamente come tutti gli altri animali, sono esseri senzienti, intelligenti, capaci di fare esperienza del mondo e di avere loro interessi, desideri, sogni, in grado di proiettarsi nel futuro e di apprendere dal passato. 

Il pensiero dei pescatori subacquei che vanno a stanarli nelle loro tane è insopportabile; l'idea di ridurli a un ingredienti di un'insalata è semplicemente rivoltante.

P.S.: il titolo in italiano, Il mio amico in fondo al mare, non mi piace. Innanzitutto è evidente sin dall'inizio che sia una femmina. Foster usa sempre il pronome femminile e poi, se ciò non bastasse, lo si dice espressamente sul finale. Quindi non capisco perché non intitolarla, semplicemente, La mia amica in fondo al mare. Penso che sia uno degli effetti dello specismo nel linguaggio, come se gli altri animali non fossero individui, ma esemplari simbolici, interscambiabili. Maschio o femmina non importa, un polpo è solo un polpo, uno tra i tanti. Titolo che quindi contrasta con il contenuto del documentario.

venerdì 16 ottobre 2020

Piccoli criminali crescono

 I genitori lo difenderanno dicendo che è stata una bravata, una ragazzata, che non voleva fargli del male, voleva solo fare un video divertente. La legge lo proteggerà perché ha solo tredici anni e al massimo lo obbligherà a colloqui con lo psicologo o a qualche ora di servizio sociale. Questo perché nella nostra società intrisa di cultura specista esiste una gerarchia di valore delle esistenze e quelle degli animali non umani figura all'ultimo posto. Alla voce: risorse da sfruttare o da eliminare o su cui sfogare le proprie frustrazioni (e il discorso vale pure per tanti sedicenti animalisti). 

Era solo un gattino, ucciderlo è poco più che schiacciare una formica, che del resto è solo una formica, ancora meno del gatto. 

Il problema è lo specismo, che non è capitalismo o altro. Lo specismo riguarda la maniera in cui pensiamo e consideriamo gli altri animali, quindi l'animalità, in opposizione a quella che si potrebbe definire una vera e propria mitopoiesi, cioè alla costruzione al limite del mitologico del concetto di umanità. 

È da questa costruzione teorica che prendono vita i presupposti per sfruttare materialmente gli animali nei modi che sappiamo o, per restare in tema, per trattarli come fossero palloni per giocare a calcio perché ogni oppressione necessità di un presupposto simbolico e di un insieme di pregiudizi culturali per poter essere naturalizzata, normalizzata e legittimata.

Il fatto: un ragazzino di tredici anni ha intenzionalmente colpito un gattino come se stesse tirando un calcio di rigore. Con una forza e una leggerezza insieme che non saprei nemmeno come definire. Solo che il gattino era un essere vivente senziente e non un pallone da calcio e la porta non era una rete, ma un muro. Il gattino è rimasto ad agonizzare e poi è morto. Il ragazzino si è fatto riprendere in video e dopo aver tirato il calcio si è voltato imitando alla perfezione la gestualità dei giocatori quando fanno un goal. Petto gonfio, spalle rilassate, espressione trionfante leggermente camuffata da finta modestia, come a dire "Sì, beh, quanto sono figo". Gli amici in sottofondo ridevano. Poi hanno postato il tutto su Tik Tok, vantandosi della notorietà acquisita in poco tempo. Non una parola di pentimento. 



giovedì 8 ottobre 2020

Azzeramento del valore della vita

 È stato assegnato il Nobel per la chimica a due donne, Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna.

Il loro merito è quello di aver inventato una procedura che riscrive il DNA e che potrebbe essere utile per curare malattie su base genetica. 

La notizia dovrebbe rendermi felice, ma poi leggo, su Repubblica, che:

 "[...]anche se non viene ancora (o quasi) usata direttamente sull'uomo, negli ultimi anni si è rivelata uno strumento di lavoro enormemente utile per le applicazioni della ricerca di base, per creare modelli animali di malattie che colpiscono l'uomo [...]" 

E ancora "[...]rispr è un metodo inventato in epoche ancestrali dai batteri per tagliare il genoma dei virus che li invadevano. Le "forbici molecolari" osservate in laboratorio di Charpentier e Doudna vengono oggi usate dai ricercatori per fare ogni tipo di intervento sul Dna di piante e animali. Sull'uomo è usata più prudenza, perché Crispr non è ancora un metodo esente dagli errori.[...]"

Praticamente fanno nascere in laboratorio individui di altre specie con il DNA modificato per poi poterci fare esperimenti. Individui che chiamano, allo scopo di neutralizzare semanticamente l'impatto che potrebbe avere socialmente, "modelli animali".

Gli altri animali non sono individui singoli, ma semplicemente modelli.

Modelli nati per soffrire. Modelli che conosceranno solo le luci fredde dei laboratori, le gabbie gelide degli stabulari, le mani di chi li manipolerà, osserverà e infine ucciderà.

Questo azzeramento del valore della vita di individui perfettamente senzienti appartenenti ad altre specie si chiama specismo ed è ciò che consente la legittimazione sociale di pratiche tanto aberranti. Senza un impianto culturale a tutto tondo atto a giustificare tali orrori, non sarebbe possibile parlare di altri individui come fossero oggetti. 


venerdì 2 ottobre 2020

Sei bella quando ti senti realizzata

 La questione non è che si può essere belle anche con qualche kg in più, e il bodypositive e l'accettarsi come si è anche se non si rientra nei canoni prestabiliti e tutte quelle stupidaggini lì che sotto, sotto, nel profondo, non fanno che rafforzare le nostre insicurezze; le insicurezze infatti non nascono dall'aspetto estetico in sé, ma dal fatto che società ci giudica solo per quello.

Dal fatto che ci percepiamo come bambole, come oggetti da ammirare.

La questione quindi va ripensata totalmente. 

Vogliamo crescere con sfide motivazionali diverse: nell'essere più capaci, nel perseguire, coltivare e scoprire i nostri talenti, nell'essere intelligenti, professionali, realizzate. Vogliamo crescere spronate a prenderci il mondo, a camminare nel mondo, a muoverci nel mondo. 

Non dobbiamo essere più belle, o belle comunque sia, ma più realizzate.

Perché se non siamo realizzate, ci sentiremo sempre insicure, sempre con l'autostima sotto alle scarpe, sempre brutte. Potremo essere anche le donne più belle del mondo, ma ci sentiremo sempre inadeguate, fragili, vulnerabili, senza potere. 

Dobbiamo imparare a essere soggetti nel mondo e non oggetti da guardare.

Dobbiamo imparare e sapere chi siamo, a conoscere il nostro valore e quando lo sapremo ci sentiremo libere e belle in un modo in cui nessun tutorial sul trucco, nessun abito, nessun complimento sul nostro aspetto estetico ci farà mai sentire.

Io comprendo le buone intenzioni degli uomini quando ci vogliono rassicurare dicendoci che siamo belle comunque, che piacciamo comunque, che anzi, con le forme gli piacciamo anche di più. Ma il punto è che dobbiamo fare nostro, in modo profondo e radicale, il concetto che non esistiamo per piacere agli uomini, che non siamo oggetti da contemplare, osservare, sessualizzare, mercificare, gradire, guardare, giudicare. 

Siamo persone. E non siamo tenute in nessun modo a essere belle o seducenti o magre o con forme. Non siamo nemmeno tenute a essere "femminili" perché lo siamo comunque, di default. 

Il nostro corpo e la nostra mente sono strumenti per realizzarci, per fare cose, per vivere. Non sono orpelli estetici. 

Non siamo belle anche con qualche kg in più. Siamo belle quando ci sentiamo realizzate.

giovedì 1 ottobre 2020

Sette minuti

Sette minuti è un film di Michele Placido di qualche anno fa.

Ispirato a una storia vera, racconta della riunione di undici donne operaie, rappresentanti dell'organico di una fabbrica tessile, che si trovano a dover votare una richiesta dopo che la fabbrica stessa è stata acquisita da un'altra azienda francese, più grande, che ne è diventata proprietaria maggioritaria. 

La richiesta è: rinunciare a sette minuti della pausa pranzo.

Di fronte alla paura di venire licenziate in massa e di trovarsi così senza lavoro, in un momento storico difficile del nostro paese, inizialmente tutte le operaie, tranne la portavoce, più anziana e con più esperienza, votano sì. Rinunciare a sette minuti gli sembra in fondo una richiesta da poco, un sacrificio minimo, niente rispetto ai timori paventati di essere sbattute fuori. 

Ogni operaia ha i suoi motivi necessari per accettare: c'è chi sta pagando il mutuo, chi deve riuscire ad apparecchiare la tavola per quattro figli, chi è immigrata e si sente grata di avere l'opportunità di lavorare, non importa a quale prezzo. 

La portavoce le invita a ragionare, a riflettere, a pensare alle conseguenze. 

Sette minuti del proprio tempo sembrano pochi, ma moltiplicati per tutte le operaie della fabbrica (centinaia, loro sono soltanto le rappresentanti) e per tutti i giorni di lavoro in un anno, diventano novecento ore di lavoro gratis che i padroni possono ottenere da loro. Novecento ore di produzione in più, di denaro in più, di ricchezza in più, sottratte alla pausa pranzo e quindi non retribuite. 

La discussione si fa accesa, alcune capiscono il punto e ci ripensano, sono disposte a votare no, a rischio di perdere il posto. Litigano, si dividono, si insultano. Escono fuori rancori sopiti, le italiane accusano le straniere di farsi sfruttare e di rinunciare alla dignità. Le straniere dicono che non hanno scelta, che non possono permettersi di trattare, di patteggiare, che devono accettare perché il sistema, i padroni, hanno sempre il coltello dalla parte del manico.

Le cose vengono presentate da diverse angolazioni. I pro, i contro. 

Le idee contro la realtà; l'ideale di giustizia che si scontra con il bisogno di essere pratici. 

Quelle disposte a rinunciare ai sette minuti accusano le altre di voler rischiare il posto per un'idea. Per un ideale di giustizia. Per un puntiglio.

Sì, lo sappiamo, è ingiusto, dicono, ma si deve mangiare, si deve continuare a lavorare, non possiamo non accettare. 

Ma le idee non sono soltanto idee, sono scelte che hanno conseguenze pratiche e future. Scelte e decisioni che spettano ai singoli di oggi e che domani ricadranno sui loro figli, nipoti, su altri giovani operai. Accettare una richiesta oggi, significa consegnare un domani una fabbrica in cui ci sono solo pochi minuti di pausa. Pause che un tempo arrivavano a un'ora e che poi, di anno in anno, di decennio in decennio, sono state erose minuto per minuto. I sette minuti sono un simbolo, ovviamente. Negli ultimi decenni è stato ceduto ben di più. Minuti, ferie, riposo per malattia, diritto a non venire licenziati senza giusto motivo, posto a tempo indeterminato. 

La più anziana ammette le proprie colpe. Decisioni apparentemente piccole prese in momenti come questo di oggi. Decisioni prese di fretta, sul ricatto della paura di perdere il posto, senza pensare al peso degli effetti nel tempo, alle conseguenze globali perché quello che accade in una fabbrica di un paese poi diventa pretesto per altre, diventa esempio, costituisce precedenti legali.

Se oggi siamo qui a dover votare per sette minuti è proprio perché in passato abbiamo ceduto. 

L'ago della bilancia si sposta quindi a favore del no, cioè di non accettare di dare via i sette minuti di pausa, quando ognuna di loro capisce che quello che è in ballo è molto più di questo. Cedere significa non solo regalare ore di produzione gratis ai padroni della fabbrica, ma decidere anche per il futuro del lavoro del nostro paese; significa creare un precedente e far trovare peggiori condizioni di lavoro alle operaie che verranno in seguito; significa consegnare nella mani dei padroni pezzetti di diritti. 

Perché è vero che il sistema è terribile e che ha il coltello dalla parte del manico, ma i singoli possono fare comunque delle scelte, anche quando apparentemente sembra che non si abbia scelta.

Quello che capiscono le operaie è che loro servono all'azienda perché una fabbrica senza manodopera è una fabbrica morta. Sì, molte di loro hanno assolutamente bisogno di lavorare e per lavorare sarebbero disposte a fare tutto, ma questo è il ricatto del sistema a cui non si deve cedere e insieme, tutte insieme, possono diventare una sola voce, possono costringere l'azienda ad accettare la loro, di richiesta, che una richiesta di rifiuto di regalare i loro sette minuti di pausa.

Quello che ho apprezzato maggiormente di questo film, interpretazioni magistrali a parte di tutte le attrici e ottima tenuta della tensione narrativa - impresa non da poco, considerando che alla fine è quasi tutto girato intorno a un tavolo - è proprio la parte di contenuto intorno alle idee e alla pratica. 

Infatti ho deciso di parlarne perché mi ha fatto molto pensare alle discussioni che si hanno spesso anche in ambito antispecista. 

Si pensa che le idee contino poco, che "filosofeggiare", come dicono alcuni, non serva, che bisogna essere pratici. Nel furore di questa praticità spesso però si perdono per strada i contenuti e si finisce, a poco a poco, per rinunciare all'idea, all'ideale di giustizia. Si finisce per svendere ciò che è giusto in favore di ciò che oggi sembra utile. Le guerre però non si vincono solo basandosi sulle battaglie del presente, ma si vincono sul lungo tempo, continuando a portare avanti le giuste strategie, senza cedere a tattiche più facili che danno risultati immediati.

Se non si perseguono le idee radicali, accade che questa giustizia, minuto per minuto, venga erosa e ci si trovi poi ad accettare riforme welfariste, gabbie più grandi, discorsi incentrati sulla salute e sull'ambiente, nella convinzione che serva essere pratici, che si debba cedere o abdicare alla propria radicalità per ottenere qualcosa. Che si debba essere accondiscendenti.

E invece no. Perché se cediamo oggi a parlare in nome degli animali e nei loro esclusivi interessi, quello che lasceremo agli attivisti di domani saranno sole le briciole di un veganismo ormai svuotato di ogni contenuto antispecista di liberazione animale e ridotto a dieta o stile di vita alternativo. 

Sette minuti è un bel film. Ma è bello perché si presta a tante riflessioni ed è un invito al pensare ragionato, al peso delle scelte e delle idee, che non sono mai teorie astratte, ma hanno conseguenze pratiche, sempre. E non riguardano mai soltanto noi, ma la società nel suo complesso.

Gli individui contano, le scelte dei singoli hanno un peso. Il sistema si regge sempre sulle decisioni prese dai singoli nei momenti cruciali e anche in quelli che sembrano meno cruciali. Il percorso per la giustizia è un percorso di idee e azione. Teoria e pratica. Decisioni dei singoli per risultati collettivi.

lunedì 28 settembre 2020

Vista annebbiata

 





In montagna ho assistito a una scena parecchio emblematica del modo offuscato dalle lenti dello specismo con cui generalmente vediamo e interpretiamo alcuni comportamenti degli animali.

C'era un gruppo di mucche che stava pascolando su un prato molto grande. Erano sparse, alcune a parecchia distanza l'una dall'altra, altre più vicine. Intente e concentrate a mangiucchiare erba, prendere il sole, strofinarsi contro alcuni massi per auto-massaggiarsi e grattarsi, passeggiare, dormicchiare. A un certo punto, lungo il sentiero sterrato che costeggiava il pascolo, si è vista arrivare la macchina del pastore.

L'abbiamo vista noi e anche le mucche, di cui probabilmente hanno anche sentito il rumore in lontananza ancor prima che la vettura sbucasse dalla salita. 

Alcune hanno cominciato a muggire e, come a un cenno convenuto, tutte le altre hanno immediatamente sospeso le loro attività per radunarsi intorno al pastore, che nel frattempo aveva fermato l'auto ed era sceso. 

Gli sono andate tutte intorno, come per salutarlo, muggendo e scuotendo la testa. Poi, così radunate, lo hanno seguito per non so dove (probabilmente le stava facendo rientrare per la notte).

Le persone che erano lungo il sentiero sono rimaste sorprese da questo comportamento intelligente delle mucche e l'hanno interpretato in una chiave assolutamente positiva. Mucche felici di rivedere il pastore. Mucche affezionate al pastore. Il buon pastore che quindi deve per forza trattarle bene, altrimenti non gli sarebbero andate incontro festose.

In realtà dietro questo comportamento si nasconde una duplice forma di coercizione: quella dell'addestramento (le mucche sono state addestrate sin da piccole, a suon di pungolature e sgridate, a seguire il pastore) e quella della consapevolezza di dipendere da lui, volenti o nolenti.

Il pastore è quello che gli procura il cibo, che le porta al pascolo, ma a orari ben prestabiliti, pascoli comunque ben delimitati da fili elettrici o fili spinati e da cui non si può fuggire. Il pastore è colui che le sfama, che gli consente di avere una vita apparentemente libera, ma è anche colui che un giorno deciderà quale mandare al macello e quale no. Quella mano da cui sono costrette a dipendere è la stessa che le tradisce e ha potere di vita (fornitura di cibo) e di morte (mattatoio) su di loro.

Certamente queste mucche proveranno anche un affetto sincero per lui, così come un bambino prova affetto per il genitore che comunque lo sfama, pure se sarà un genitore cattivo. 

Non voler vedere tutto questo, oggi, è un non voler sapere. Il non voler sapere e conseguente benda specista sugli occhi è funzionale all'attaccamento alla bistecca o bicchiere di latte. 

Siamo tutti responsabili di questa cecità collettiva, in parte indotta dal sistema, in parte perseguita con ostinazione dai singoli individui.

Far credere che le decisioni dei singoli non contino è una strategia funzionale al mantenimento del sistema di dominio sugli animali. Invece le nostre scelte contano. La vostra, come la mia.

La prossima volta che vedrete degli animali apparentemente felici, - allo zoo, al circo, nei pascoli - chiedetevi se è davvero così e interrogatevi sul fine ultimo di quelle gabbie, di quei recinti, di quelle esistenze. 

Le esistenze non dovrebbero avere alcun fine se non quello implicito nell'esistere stesso. Se si vive in funzione di qualcosa o degli interessi di qualcuno, non si è individui liberi, ma schiavi. Da ciò se ne deduce che tutti gli animali sono schiavi.

venerdì 21 agosto 2020

"Violate le norme anti-covid"

I media riportano la notizia della chiusura dello Zoomarine, vicino Roma, per mancato rispetto delle norme anticovid.

Il Fatto quotidiano titola "Violate le norme anti-covid" (qui potete leggere la notizia:https://bit.ly/32bTQmC)

Nessun problema invece riguardo la detenzione e sfruttamento di delfini, foche, leoni marini, pinguini e diverse specie di uccelli tropicali: ad essere violati sono in primis i corpi e le esistenze di questi esseri. Famiglie intere separate per il sollazzo della gente.

Uno degli effetti dello specismo è quello di sentirci in diritto di andare a vedere animali in gabbia solo perché ci va, perché il nostro capriccio e quello dei bambini evidentemente conta di più di quello della vita e libertà di altri esseri.

Sapete che la maggior parte del delfini tenuti prigionieri in queste strutture sono i figli di quelli uccisi nella mattanza che avviene ogni anno nella baia di Taiji? Gli adulti vengono catturati e uccisi per le loro carni, i figli catturati e venduti in Usa e Europa per i delfinari e zoo acquatici, circhi e prigioni simili.

I delfini in libertà percorrono ogni giorno chilometri e chilometri in mare aperto, ma in questi luoghi, imprigionati e schiavizzati, dopo un addestramento ottenuto con la privazione del cibo e costretti a eseguire esercizi non compatibili con la loro dignità di individui senzienti, si ammalano di depressione e profondo stress e muoiono dopo qualche anno (tanto verranno rimpiazzati da altre vittime). Alcuni arrivano persino a suicidarsi, lasciandosi morire di fame. 

Queste informazioni possono non essere in possesso di tutti, ma credo che non ci voglia un genio per capire che un animale marino (quale sia la specie di appartenenza) privato del suo mare non sia felice. 

Il concetto di benessere animale, tanto usato da chi trae profitto dagli animali schiavizzati, è ciò che impedisce alle persone di prendere consapevolezza della violenza che subiscono questi individui per mano della nostra specie e che blocca sul nascere la possibilità di prendere posizione. 

Non può esistere benessere animale nella prigionia e coercizione.


lunedì 17 agosto 2020

La natura come centro commerciale

Dopo il lockdown, le persone che prima trascorrevano le giornate di festa nei centri commerciali hanno iniziato a riversarsi nei parchi cittadini; peccato che si comportino esattamente come se fossero ancora al centro commerciale, consumando in maniera bulimica ogni spazio, ogni centimetro di verde; convinti che sia un loro diritto appropriarsi del luogo, anziché abitarlo e viverlo consapevolmente, scorrazzano per lungo e largo con risciò, macchinine, go-cart e biciclette lanciati a tutta velocità per le discese e nei sentieri sterrati pedonali, alzando nuvoloni di polvere e rischiando di investire gli altri, gettando cartacce e mascherine ovunque, incuranti dei danni ambientali, agli animali e alle persone. La natura non è per tutti, ma per chi la rispetta. Questi non rispettano nemmeno se stessi, figuriamoci gli altri.

Pensano che il mondo sia un enorme parco giochi e ne arraffano risorse come se fossero da Ikea. Strappano fiori, rami, mettono i piedi a bagno nelle fontane, allestiscono tavoli da pic-nic senza poi buttare nei cestini bottiglie e cartoni.

Ragazzini urlanti inseguono piccioni e scoiattoli, lanciano cibo (di qualsiasi tipo) alle anatre nel lago, disturbano con i bastoni le tartarughe mentre i loro genitori pensano a farsi un selfie e smanettano al cellulare o, ridanciani, li incoraggiano a spaventare gli animali.

Mi fa schifo questa umanità insolente, sgarbata, brutta, maleducata. L'aria di sfida con cui ti guardano. Si sentono i re del mondo, ma sono solo degli zombie con la mascherina infilata al braccio a mo' di borsetta.

sabato 11 luglio 2020

Nessuno sa che io sono qui



Opera prima del regista cileno Gaspar Antillo, prodotto da Netflix e presentato al Tribeca Film Festival ad aprile di quest'anno, potrebbe essere un film bellissimo se non fosse per un particolare, ossia la caratterizzazione quasi idilliaca - e comunque normalizzata - del "lavoro" di allevare pecore per la loro pelle. Non è questo il focus della storia, ma è comunque parte della storia.

Jorge Garcia (diventato famoso per aver interpretato Hugo Reyes nella serie televisiva Lost, qui dimostra di essere anche un ottimo cantante) interpreta Memo, un ex bambino dalla voce meravigliosa che è stato sfruttato, e distrutto psicologicamente, dall'industria musicale e da un padre senza scrupoli che aveva accettato di vendere la sua voce mettendola al servizio di un altro ragazzino, dall'aspetto fisico più vicino ai canoni estetici richiesti per diventare una star, che si esibisce al suo posto e diventa famoso usando la voce di Memo in playback.

Il film inizia con Memo adulto che si è ritirato dal mondo (letteralmente e psicologicamente) e vive su un'isoletta dove appunto lavora insieme allo zio allevando pecore e conciandone le pelli. Non è un particolare. Le pecore vengono mostrate più volte attraverso una narrazione mistificante che vorrebbe dimostrare quanto siano trattate bene. Memo la mattina le saluta affettuosamente e in una scena interviene in soccorso di una che era rimasta incastrata con la testa sotto al cancello.
Si passa poi a scene in cui le pelli vengono riconsegnate a Memo e allo zio per essere conciate e lavorate.
Quindi praticamente la loro attività è quella di allevare e conciare pelli. C'è un'omissione importante: quella in cui le pecore vengono spedite al mattatoio e uccise.

Il personaggio di Memo è caratterizzato in maniera assolutamente positiva. Sulla fine viene rimarcato espressamente quanto il suo animo sia sensibile, quanto sia un vero uomo, buono, talentuoso, dalla voce meravigliosa ecc.

La sua caratterizzazione lo mostra come una persona vittima, traumatizzata dagli eventi di quando era bambino. Una persona sensibile, anche se irascibile e facile a perdere le staffe, ma è comunque un atteggiamento pienamente giustificato nell'economia della storia e alla luce del suo vissuto doloroso.
Tramite l'utilizzo dei flashback apprendiamo la sua storia passata e capiamo che trascorre le sue giornate tra il "lavoro" e i sogni ad occhi aperti in cui immagina di essere su un palcoscenico e di esprimere se stesso, dimostrando finalmente al mondo chi è, il suo talento, il vero corpo cui era appartenuta quella voce prodigiosa dei successi del passato. Nella realtà non parla più, si esprime a monosillabi solo quando non può farne a meno, in una totale rinuncia della sua voce.
La sera indossa abiti colorati e luccicanti che taglia e cuce da solo (rubati dalle ville dei turisti disabitate in cui entra di nascosto di notte), chiuso nella sua stanza o in mezzo al bosco, indossa le cuffie per ascoltare la musica, chiude gli occhi e sogna.
Memo sa che il mondo ha amato la sua voce, ma non la sua persona, rifiutata dallo star system, non conforme ai canoni richiesti da un mondo votato all'apparenza.
È un personaggio che commuove, che suscita ammirazione, per cui facciamo il tifo sin dalla prime scene e per cui proviamo una sincera e profonda empatia. Siamo con Memo e speriamo in suo riscatto e proviamo malessere e disagio, accompagnati da un sentimento di ingiustizia, quando apprendiamo il modo in cui è stato usato dal padre e dall'industria musicale.
La storia procede poi con l'incontro di una ragazza a cui rivela il suo passato e la messa in moto di una serie di eventi che lo condurranno ad affrontare il mondo esterno e a confrontarsi con Angelo, il ragazzino che era diventato famoso con la sua voce e che ora è un motivatore, scrive libri e viaggia.

La connotazione assolutamente positiva del protagonista è profondamente funzionale all'accettazione e normalizzazione di quello che fa sull'isola, ossia sfruttare le pecore e lavorarne le pelli. Memo è una vittima e la sua caratterizzazione lo mostra come tale, ma quello che non viene detto è che anche le pecore lo sono e non solo nella storia, ma nella vita reale. 

Peccato che un film così delicato e commovente sia anche manifestamente specista, violento, antropocentrico.

Il mio giudizio è diviso. L'estetica non può non tener conto dell'etica. Il fatto è che se anziché allevare e uccidere pecore, il protagonista allevasse e uccidesse bambini, avremmo avuto la storia di un serial killer con una bella voce; invece poiché "sono soltanto animali", abbiamo una storia di riscatto e guarigione.

Comunque io ve lo consiglio perché nonostante tutto, da un punto di vista formale, di narrazione, linguaggio cinematografico e significati complessivi (specismo a parte) l'ho parecchio apprezzato. Non so se potrebbe essere definito un musical anomalo, con elementi anche surreali, perché sebbene si senta soltanto un brano ripetuto più volte (e l'accenno di un altro), questo brano è comunque un elemento drammaturgico importante, che scandisce e fa procedere la narrazione e direi anche fondamentale per la comprensione del film. Il brano musicale è parte della sceneggiatura, della storia e il testo, che ascoltiamo interamente soltanto alla fine, aggiunge significato.

Jorge Garcia è molto bravo, intenso, capace di passare dalla goffaggine alla grazia in un attimo.

La consapevolezza dell'ingiustizia del modo in cui la nostra specie tratta e considera gli altri animali è uno sguardo sulla realtà talmente decisivo, rivoluzionario e radicale che a volte rende impossibile godere anche di un bel film, ma una volta aperti gli occhi non è più possibile chiuderli.

sabato 13 giugno 2020

Il mondo a misura degli umani è un mondo sbagliato

Ieri un ragazzino di circa undici/dodici anni stava tentando di prendere a calci dei piccioni che se ne stavano per i fatti propri. Nel mentre i suoi amichetti stavano lanciando sassi per scacciarne via altri in un altro punto.
Non lo stavano facendo ingenuamente, ossia per gioco, per divertirsi a farli volare via come a volte fanno i bambini più piccoli, ridendo, ma con un certo sadismo e cattiveria.
Ovviamente l'ho fermato e redarguito dicendogli che queste cose non si fanno, che gli animali vanno lasciati in pace perché hanno tutto il diritto di vivere e di stare al parco, esattamente come lui.
Mi ha guardata con aria di sfida, dicendomi: "Perché no? Mi davano fastidio!".
Gli ho risposto che, a fino a prova contraria, era lui che stava dando fastidio a loro, e non il contrario.
A quel punto è corso via, insieme ai suoi amichetti.
Avrei voluto continuare a parlarci, serenamente, farlo arrivare a comprendere perché aveva sbagliato, ma non è stato possibile.

La cosa che mi ha lasciata perplessa è stata l'incredibile tono di sfida con cui mi ha risposto, lo sguardo fermo, deciso, per niente intimorito o in imbarazzo; e poi ovviamente il fatto che stesse appunto prendendo a calci degli animali indifesi. I piccioni, fortunatamente, sono volati via, ma se ce ne fosse stato uno ferito che non avesse saputo volare? E se non fossero stati piccioni, ma altri animali?

Perché un ragazzino di undici/dodici anni compie dei gesti intenzionalmente violenti? Come sono percepiti i piccioni nella nostra società? I genitori cosa dicono? Cosa c'era dietro quel "mi danno fastidio"? E, se anziché una donna come me, fosse stato un uomo a fermarlo e redarguirlo, avrebbe reagito diversamente? Mi avrebbe guardato con gli stessi occhi di sfida e risposto male?
Perché nessun altro degli adulti presenti ha detto niente?

Specismo, maschilismo, indifferenza. Quante cose grandi per stare dentro a un bambino di undici anni. Concetti ed ideologie che vengono interiorizzati e fatti propri senza rendersene conto. Appresi per imitazione, trasmessi culturalmente.

L'antispecismo è proprio di questo che deve occuparsi, ossia di cambiare radicalmente il nostro rapporto con gli altri animali. Non soltanto dello sfruttamento industriale, che è soltanto un effetto di questo insano rapporto di dominio.

venerdì 12 giugno 2020

Persone normali che fanno cose orribili

La retorica del macellaio che sarebbe una persona normale che si trova a uccidere gli animali poiché costretto dalle circostanze, è, per l'appunto, retorica specista che ancora minimizza gli interessi degli altri animali.
Certamente è una persona normale, ma una persona normale che fa cose orribili, esattamente come erano persone normali i nazisti che uccidevano gli Ebrei nei lager, o che li deportavano o denunciavano alla polizia. Persone normali che fanno cose orribili. Ed è proprio questa la famosa banalità del male di cui parla la Arendt, una banalità che non va giustificata, minimizzata, scusata, pena il suo rafforzamento di una sua ulteriore normalizzazione.
L'antispecismo non è un'idea di salvezza e gentilezza verso tutti, ma una battaglia di liberazione degli altri animali dall'oppressione che subiscono nella nostra società per mano della nostra specie. Ci sono diversi gradi di responsabilità condivisa, e questi gradi vanno saputi riconoscere e distinguere; così come bisogna ben distinguere gli attori in gioco. Gli altri animali sono le vittime assolute; i consumatori sono i mandanti, talvolta consapevoli, altre semplicemente indifferenti; i macellai, allevatori, vivisettori ecc. sono gli esecutori materiali.

Parlare di antispecismo significa mettere al centro del discorso gli altri animali, riconoscerli come categoria di viventi oppressa e lottare per la loro liberazione. Introdurre altre soggettività, che saranno pure oppresse in altri campi, ma che nei confronti degli altri animali sono comunque oppressori, significa minimizzare la specifica forma di oppressione che va sotto il nome di specismo; significa finanche negarla o occultarla per dare spazio e voce ad altri.

Deresponsabilizzare significa accettare, normalizzare, minimizzare.

venerdì 5 giugno 2020

Stessa mano


La mano di chi ha offerto all'elefantessa incinta un ananas pieno di esplosivi facendole esplodere bocca e stomaco e portandola a un'orribile morte è la stessa di chi stabilisce una differenza tra la nostra specie e le altre, legittimando allevamenti, sfruttamento, una diversa considerazione morale.
La linea che separa l'apparente sadismo di un gesto dalla normalizzazione dei mattatoi è davvero sottile.

Qui il fatto: https://bit.ly/30bJQuj

mercoledì 3 giugno 2020

Come animali

L'espressione "come animali" per definire un comportamento violento e orribile è veramente stupida e priva di senso.

Innanzitutto vorrei chiedere a chi ne fa uso: "quali animali, per l'esattezza?Ti riferisci, che so, al polpo, alla formica, alla gallina, al coniglietto? O a chi?".

Lo specismo comincia dal linguaggio: nell'atto stesso di riunire una moltitudine di specie e individui diversi in un unico termine cui associare una valenza negativa risiede il fondamento costitutivo della violenza, la radice che annienta il valore della diversità.

lunedì 25 maggio 2020

Dimmi che mascherina indossi e ti dirò chi sei

Indossare la mascherina anche quando non c'è bisogno, tipo quando si va in bici o in motorino o in auto da soli, o quando si cammina, sempre da soli, in un parco o in una strada poco frequentata, è diventata una norma non scritta (difatti non c'è mai stato l'obbligo di indossarla all'aperto) cui tutti si stanno via via adeguando. Dev'essere così che un'azione, un comportamento, un gesto diventano normali, e perfino trendy, quando semplicemente "li fanno tutti", anche se assurdi, privi di senso, anche se, a volte, persino sbagliati. L'adesione a ciò che fanno gli altri, il sentirsi parte di una comunità, il conformismo, il non voler apparire diversi.
Poco importa poi che il gesto non abbia alcun senso (la maggior parte delle mascherine non è nemmeno minimamente efficace contro il virus, peraltro molte sono di stoffa, in materiali che non garantiscono nessuna protezione e aggiungo che sta nascendo tutto un business intorno ad esse, ormai sono in vendita ovunque, nei negozi di abbigliamento, accessori e simili, presto le vedremo in mano ai venditori ambulanti insieme agli accendini e collanine), quel che conta è il suo valore apotropaico, il significato sociale che gli si attribuisce, lo sbandierare la propria partecipazione a questo rito.
C'è chi la sceglie della fantasia che più preferisce, chi la abbina ai vestiti e al colore degli occhi, chi coglie l'occasione per lanciare uno slogan o il simbolo della squadra del cuore; una gara a chi ce l'ha più originale, e chissà, anche di ostentazione sociale perché tra un po' vedremo mascherine firmate Louis Vuitton o Chanel. Un po' come le magliette con le scritte, sono certa che presto vedremo mascherine con frasi simpatiche, divertenti, la nuova frontiera del selfie.

L'oggetto mascherina ormai sta vivendo una vita propria, slegato dall'uso originario (che appunto è necessario e obbligatorio solo in alcuni contesti quali luoghi chiusi o di eventuale assembramento), è appunto un simbolo, un feticcio o, semplicemente, una moda.

sabato 23 maggio 2020

La retorica dell'intensivo


Ormai sembra diventata un luogo comune, non si fa in tempo a menzionare lo sfruttamento degli altri animali che immediatamente l'interlocutore di turno ti preavvisa che lui è contrario alla modalità intensiva, ma di tutto, eh, si precipita a chiarire, anche della coltivazione dei vegetali e della soia, e quindi aggiunge, è anche per questo che non diventerà mai vegano perché gli estremismi non vanno mai bene. E spesso è proprio in questi termini che argomentano persino filosofi e intellettuali (o sedicenti tali).

Chiariamo due punti fondamentali: uno, è quello che ormai ripeto in ogni post e cioè che ciò che va messo in discussione e si deve combattere è lo specismo, ossia tutto quell'insieme di pratiche e di narrazioni simboliche a supportarle che opprimono, schiavizzano e uccidono gli altri animali e quindi non si fa differenza tra un modello o meno di allevamento, in quanto ogni tipo di allevamento considera e usa gli altri animali solamente in funzione del profitto e del prodotto che se ne può ottenere e non li rispetta in quanto individui. Essere riconosciuti come individui implica il riconoscimento di qualcuno in quanto soggetto della sua stessa vita e non in quanto oggetto di proprietà da usare per trarne profitto. Per questo motivo nessun tipo di allevamento può dirsi etico o giusto.

Il secondo punto (a cui una persona veramente informata potrebbe arrivare benissimo da sola) che comunque va chiarito - anche se non riguarda l'antispecismo, bensì l'ecologia e l'ambiente - è che le coltivazioni intensive di soia sono destinate a ingrassare proprio quegli animali che ci si ostina a voler continuare a considerare prodotti, quindi non sono coltivazioni ad uso e consumo delle persone vegane, (che comunque sono ancora una minoranza); se la popolazione intera diventasse vegana ci sarebbe molto, ma molto meno consumo di soia e vegetali perché ovviamente sfamare direttamente una persona umana comporta un quantitativo parecchio minore di assunzione di vegetali rispetto a quanto ne serve per ingrassare un bovino.
Inoltre non è affatto necessario mangiare soia se si diventa vegani, anzi, molte persone vegane ne sono allergiche o intolleranti e la escludono totalmente dalla loro alimentazione. L'equazione vegani=mangiatori di soia è falsa. La soia è un alimento antichissimo consumato in Oriente, non è certo una prerogativa dei vegani.

Non mi sembra comunque giusto mettere sullo stesso piano la coltivazione di un vegetale, nello specifico la soia, e gli allevamenti degli animali. La coltivazione di un vegetale infatti, al massimo può avere effetti impattanti sull'ambiente, ma non danneggia il vegetale stesso; non produce un danno a un essere senziente. Invece gli allevamenti, a prescindere dal loro impatto sull'ambiente, provocano danni diretti agli altri animali e questo è il motivo dirimente per cui dovremmo scegliere di non mangiarli.

Foto: Jo-Anne McArthur / We Animals