Ieri sono andata a ritirare le ceneri di mio padre. Me le hanno consegnate dentro un'urna, un barattolino nero con una targhetta appiccicata su un lato recante nome, data di nascita e morte di papà. Poi mi hanno consegnato una sacchetta di velluto per infilarci il tutto.
Con questo sacchettino mi sono incamminata verso la macchina, parcheggiata poco distante dagli uffici amministrativi del cimitero, sotto la pioggia, ombrello in una mano, urna con le ceneri nell'altra.
Descritta così sembra il racconto di una situazione surreale. E lo è stata, infatti.
Ciò che mi ha turbata e distrutta psicologicamente è l'aspetto della dissociazione cognitiva che in quel momento mi si è spalancata davanti come un abisso: faccio fatica a ricondurre la persona viva che è stata mio padre - la sua camminata, per esempio, la sua voce, il suo sguardo - al mucchietto di resti che tengo sotto al braccio e che appoggio sul sedile della macchina, quasi fosse una borsa, un pacchetto, un oggetto.
Amabili resti, dice Alice Sebold in un suo bellissimo romanzo. Ma pur sempre resti.
Mio padre era un individuo, con i suoi pensieri, una sua esistenza, ha vissuto e mi ha messa al mondo e mi ha trasmesso delle cose. Ora è un mucchietto di cenere raccolto dentro un'urna. La persona che fine ha fatto? Faccio fatica a collegare le due cose: l'immagine che ho nella mia memoria, il ricordo di lui e quello che ora sta dentro un'urnetta.
Una dissociazione cognitiva in piena regola. Ho riflettuto un po' su questo. E per associazione non ho potuto non pensare al tipo di dissociazione cognitiva che riguarda il modo che le persone hanno di pensare agli altri animali; o meglio, che si sperimenta nel momento in cui i loro resti, trasformati in prodotti, appaiono davanti ai loro occhi sotto forma di prodotti alimentari o di cibo cucinato.
In questo caso si verifica esattamente il contrario: si conoscono bene i resti, non si fa fatica ad accettarne la realtà, ma si fa fatica a ricollegarli all'individuo vivo cui sono appartenuti. Perché non lo si è mai incontrato, mai conosciuto e perché c'è anche tantissima ignoranza sugli altri animali. Non sappiamo chi sono perché non li vediamo mai e se li vediamo sappiamo relazionarci a loro nella sola maniera che ci hanno insegnato, attraverso una relazione di dominio.
Anche quel pezzo di mortadella sul banco frigo potrebbe essere visto come un amabile resto, anziché come un prodotto da consumare e digerire. Ma per farlo serve di riconoscere l'individuo a cui è appartenuto e averlo saputo, se non proprio amare, almeno considerare nel suo valore intrinseco.
È tutta una questione di sguardi, di prospettive, di pensieri e di incontri, ossia di esperienze. Quelle esperienze che agli animali sono negate di default, quegli sguardi e incontri che ci sono preclusi.
Consumare i corpi degli animali impoverisce anche la nostra realtà e percezione che abbiamo del mondo.
Mio padre non è solo quei resti perché nella mia memoria continua a persistere quale la persona che è stata, esperienza straniante a parte della dissociazione momentanea che ho provato; ma anche gli altri animali non sono solo quel cibo che comprate al supermercato, anche se nella mente avete pochi riferimenti da richiamare alla memoria.
L'antispecismo, scrivevo l'altro ieri in un post su Facebook, è il punto di vista degli invisibili, ma è anche, soprattutto, la ricomposizione di una frattura, il riempimento di un abisso, quello che ci si spalanca davanti nel momento in cui neghiamo il corpo, la vita, le esperienze degli altri animali.
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