Le parole sono importanti, il linguaggio definisce i confini del nostro immaginario e cognizione del reale e per questo il sistema che si regge sullo sfruttamento e uccisione degli altri animali distorce, neutralizza, edulcora, mistifica continuamente la terribile realtà che questi individui subiscono. Perché così facendo è come se l'orrore non esistesse. Se un qualcosa non viene nominato, non esiste. O esiste in modo meno feroce, meno violento, naturalizzato, normalizzato.
Almeno noi, cerchiamo di chiamare le cose per quello che sono: non un generico "carne", ma corpi di animali morti ammazzati, non "prodotti caseari", ma latte rubato a mucche schiavizzate, non "allevamenti", ma lager legalizzati e aberranti dove si fa nascere la vita per trasformarla in oggetti di consumo, non "test scientifici", ma esperimenti sugli animali e vivisezione, non "bioparco", ma prigioni, non "abbattimento selettivo", ma uccisione mirata di individui, non un generico "pesce", ma animali marini, non "spettacoli in cui si esibiscono animali", ma spettacoli in cui gli animali vengono violentemente costretti a fare cose contro la loro volontà, non "aziende di trasformazione della carne", ma mattatoi, macelli, luoghi di sterminio e così chiunque sfrutti gli animali è uno schiavista e chiunque li uccida è un assassino.
E che dire di quella massa di brave persone che partecipano indifferentemente di questo sistema?
Semplice, esse sono complici. Semplicemente complici.
Non dobbiamo temere di dire la verità, ma semmai di non riuscire a raccontarla mai abbastanza.
Nessun commento:
Posta un commento