venerdì 28 giugno 2019

Negazione e mistificazione

Due fattori che contribuiscono al mantenimento del dominio sugli animali sono la negazione e la mistificazione.
Il primo è un meccanismo psicologico, rafforzato dalla propaganda mediatica, che lavora per spingere le persone a negare, appunto, la realtà di alcune pratiche. Il fatto è che quello che facciamo agli animali è talmente terribile, orrorifico, aberrante, che molti addirittura stentano a crederci. 
Ci sono persone che non credono che i pulcini vengano tritati o gasati, che esista la vivisezione, che ancora ci siano i circhi con animali. Negare la realtà è un meccanismo di protezione, di autodifesa.
Moltissimi sono altresì convinti che gli animali al macello vengano uccisi con una pistolettata che li fa morire in un secondo, in modo indolore. Ora, io mi rifiuto di discutere sulle modalità di morte perché ad essere aberrante è il concetto stesso e non il modo, ma comunque sia, per corretta informazione, la pistola captiva li stordisce soltanto per pochi secondi, rendendogli difficile difendersi e scappare, ma al momento dell'uccisione - che avviene per sgozzamento - sono coscienti. Coscientissimi.

L'altro elemento, la mistificazione, è un meccanismo di propaganda messo in atto da sistema per distorcere, edulcorare, mentire sulla realtà. Avviene a tutti i livelli, ma principalmente attraverso il linguaggio, tramite l'uso di termini addirittura presi a prestito dalla controparte, ossia da chi lotta contro il sistema stesso. Così si parla di allevamenti etici, galline felici, benessere animale, latte rispettoso e via dicendo.

domenica 23 giugno 2019

L'abbraccio di due fratelli





Dalla pagina NOmattatoio.

Durante il presidio di sabato 22 giugno abbiamo incrociato questo piccolo camioncino diretto al mattatoio. 
Dentro c'erano due soli maiali, giovani, pulitissimi, con la coda intera, non tagliata. Da questi dettagli si capisce che non provenivano da un allevamento intensivo perché in questo tipo di allevamento gli individui stanno tutti ammassati in spazi ristretti e luridi che li porta a ferirsi tra di loro e persino a mettere in atto episodi di cannibalismo; questo è anche il motivo per cui gli viene tagliata la coda a pochissime ore dalla nascita, proprio per evitare che a causa dello stress possano staccarsela a morsi.

Uno dei due maiali stava con il muso appoggiato sul dorso dell'altro, come a sostenersi, a farsi coraggio. L'espressione è triste, rassegnata, densa di angoscia, ma non si sono lasciati nemmeno un attimo.

Non possiamo dire se sapessero già cosa li stesse aspettando, ma una cosa è certa: lo avrebbero scoperto a breve. Il mattatoio odora di sangue, di violenza, di morte. Nessun detersivo lava via quell'odore, e i maiali, come tanti animali, hanno un udito finissimo. Probabilmente uno dei due avrà assistito allo sgozzamento dell'altro.

Questo per dire che nessun tipo di allevamento, per quanto possa essere pulito, spazioso, curato, per quanto possa rispettare alcune norme (regole all'interno di un paradigma comunque specista e di oppressione e sfruttamento) può dirsi etico e rispettoso degli animali. 
Il fine di ogni allevamento è spedire individui al macello. Pochi mesi, giusto il tempo di raggiungere il peso richiesto dal mercato, e il camion viene a prenderli.

Dobbiamo stare attenti quando parliamo degli allevamenti. Concentrarci troppo sui maltrattamenti aggiuntivi, sulle sevizie, sulle modalità, sul mancato rispetto delle norme, dirige il messaggio fondamentale altrove, a discutere sulla quantità e qualità o meno di violenza; invece il nostro messaggio deve essere univoco, forte, compatto. Una sola voce: ogni allevamento è schiavitù, ogni allevamento è un'ingiustizia, ogni allevamento è un lungo corridoio della morte. Ogni allevamento è un contenitore della peggior forma di violenza, quella che priva della libertà e del diritto di essere soggetti della propria stessa vita.

Si abbracciavano, loro due, fino a che la morte violenta per mano del boia non li ha separati.

Vergogniamoci, come specie! Ma la vergogna non basta. Dobbiamo lottare e scendere in strada perché non hanno che noi. 

mercoledì 5 giugno 2019

When They see us


Vi consiglio vivamente questa miniserie tratta da una vicenda realmente accaduta. Vi farà piangere di rabbia e di commozione.

Siamo nel 1989 e una donna viene aggredita a Central Park mentre faceva jogging: picchiata e stuprata fino a essere ridotta in fin di vita, viene lasciata ai margini di un viale e trovata da altri joggers poche ore dopo, la sera stessa.
La polizia accorre sul posto e prende cinque adolescenti di Harlem del tutto estranei alla vicenda. Li trascina in tribunale, li sottopone a un interrogatorio pressante e violento per oltre 42 ore, da soli, senza un avvocato e senza i genitori, senza farli dormire, né mangiare (praticamente usando il metodo della tortura per costringerli a confessare qualcosa che non hanno fatto). Li intimidisce, li mette gli uni contro gli altri, li minaccia, li spaventa, infine gli elargisce la promessa di lasciarli tornare a casa se rilasceranno delle dichiarazioni. Lo fanno. Per ignoranza, per ingenuità, alcuni anche seguendo il consiglio di un genitore altrettanto ingenuo e perché comunque sono innocenti e non ancora abbastanza smaliziati da sapere come funzionano le cose a questo mondo, specialmente se sei nero e una commissaria di polizia insieme a una procuratrice arrivista e razzista hanno deciso che sei colpevole a prescindere.
Questa confessione estorta, montata in un video che evidenzia tante incongruenze, rilevate anche durante gli interrogatori di altri poliziotti presenti, sarà l'unica prova che lo stato di NY ha contro di loro. Nessuna traccia del loro DNA viene ritrovato addosso alla donna, né sangue, né altro. Ciononostante è sufficiente per condannarli. Perdono dai sei a oltre dieci anni della loro vita fino a che il vero stupratore non confessa, scagionandoli così da ogni accusa.

Il fatto è noto come "I cinque di Central Park" e divenne famoso poiché fu un caso emblematico di condanna di innocenti a sfondo razzista.

La serie racconta lo svolgimento dell'interrogatorio, il processo, gli anni trascorsi in carcere e infine la loro scarcerazione, seguendo i cinque ragazzi singolarmente. Perfettamente riuscita nell'obiettivo di andare oltre la mera narrazione dei fatti, riesce a far riflettere sulle implicazioni esistenziali e socio-politiche degli stessi.

This is America. Quella di Trump (allora non era ancora Presidente, ma già tuonava alla caccia al nero), quella razzista, quella che tortura cinque ragazzini pur di assicurarsi un colpevole.

La trovate su Netflix.

domenica 2 giugno 2019

Joy di Sudabeh Mortezai


Bellissimo film sulle ragazze nigeriane che vengono avviate alla prostituzione in Europa, o meglio, costrette a prostituirsi per ripagare il debito contratto con chi le ha fatte arrivare nel continente.

Al di là delle considerazioni ovvie, mi è piaciuto perché racconta bene la complessità del sistema patriarcale e perché riesce a essere un manifesto contro la prostituzione senza risultare ideologico. 
Nella terra d'origine, in Nigeria, le donne sono già considerate persone inferiori, oggetti sessuali, o comunque al servizio degli uomini. Le famiglie stesse le mandano in Europa a "lavorare nella strade" così che possano poi inviare soldi a casa. Donne sacrificabili per gli interessi della comunità e delle famiglie d'origine. Prima di partire devono fare un "giuramento", cioè, andare da una sorta di stregone, che loro chiamano "juju", che in un certo senso è colui che garantisce che alla fine estingueranno il debito perché se non lo faranno le loro famiglie saranno colpite dalla disgrazia. Qui è profondo il legame tra superstizione e collusione con gli interessi economici e lo sfruttamento delle donne. Ovviamente il fine è guadagnare sullo sfruttamento dei loro corpi, ma la superstizione è ciò che le intimidisce, che le costringe a obbedire a questo sistema dal quale non possono sottrarsi poiché interiorizzato nel profondo. 
L'adesione a un sistema si sorregge sempre anche su un certo timore reverenziale verso le tradizioni o qualcosa che si considera assoluto, immodificabile, metafisico. Il senso di colpa per non aver rispettato i patti le distruggerebbe.

Una volta arrivate in Europa devono restituire i soldi alle "maman", che sono il loro tramite, ossia donne più mature che hanno già estinto il proprio debito e che ora lavorano come intermediarie e si arricchiscono sulla pelle delle nuove arrivate, scegliendole e comprandole come se si fosse al mercato o spesso vendendole ad altre di altri paesi europei. Le maman obbligano le ragazze a lavorare per loro dietro ricatto di rimandarle indietro o di far male alle loro famiglie (ovviamente queste ragazze non hanno documenti, hanno paura di denunciare perché sanno che gli stati non gli garantirebbero il permesso di soggiorno, verrebbero rispedite indietro e una volta tornate sarebbero ripudiate dalla comunità per non aver tenuto fede al giuramento o colpevolizzate per le malattie dei loro cari o altro tipo di disgrazie), ma anche persuadendole che sia per il loro bene, per renderle ricche, insistendo sul fatto che una volta estinto il loro debito saranno libere. Anche le "maman" sono state donne prostituite in precedenza, ma una volta libere e dopo essere state tanti anni in prostituzione non vedono alternative percorribili se non continuare a restare nel sistema, seppure diventando esse stesse pappone. Non si tratta, banalmente, di donne sfruttatrici quanto gli uomini, pure se lo sono nei fatti, ma di vittime di una sistema arcaico patriarcale che non riescono a liberarsi dai condizionamenti profondi della cultura d'origine.

Aggiungiamoci il trauma delle violenze sessuali, lo svilimento totale del sé, l'impossibilità di pensare una via d'uscita.

Il titolo, Joy, è il nome della protagonista, vittima del business della prostituzione, ma ormai prossima all'estinzione del debito; le viene affidata una ragazza molto giovane, appena arrivata in Austria e a cui lei dovrà spiegare come funzionano le cose. Il film ci immerge nella violenza del sistema prostituente senza mostrarla direttamente. La mdp indugia sulle macchine lussuose dei clienti che scrutano la "merce" esposta sui marciapiedi gelidi della periferia austriaca, costruisce la tensione e il panico del salire in macchina di sconosciuti e del trovarsi in balia di uomini che potrebbero fare qualsiasi cosa. Come dice Rachel Moran, chi pensa che prostituirsi abbia a che fare con l'autodeterminazione e col sesso, evidentemente non si rende conto di quanto invece implichi la resa totale del proprio corpo, e quindi dell'incolumità dello stesso, che diventa, letteralmente, un pezzo di carne nelle mani di sconosciuti. 
La regista, Sudabeh Mortezai, è bravissima nel riuscire a comunicarci questo perenne senso di pericolo, di trauma ripetuto, giorno dopo giorno, cliente dopo cliente. 
Quasi tutte le donne in prostituzione, a prescindere che siano vittime di tratta o meno, che scelgano consapevolmente o meno, provano questo senso imminente continuo di pericolo e per tenerlo a bada iniziano a far uso di alcool e di droghe, fatto che poi le porta a dover prostituirsi ulteriormente per pagarsi queste sostanze, entrando così in un circolo senza fine.
Dice sempre la Moran, fino a che non entri nel sistema non è possibile immaginare cosa significhi veramente, né immaginare che quanto più la propria autostima e il senso del sé vengono distrutti - fatto che avviene spesso già dopo il primo cliente - tanto più ci si convince di non meritarsi altro e di non avere altre possibilità; difatti si parla di "sopravvissute al sistema" perché è un sistema che distrugge, che annichilisce, che consuma ora dopo ora e che lega a sé le vittime, come in una coazione a ripetere.

Questo è il patriarcato: un sistema che tanto più svilisce le donne, quanto più le convince a credere che vendersi, mercificarsi (spesso illudendosi che si tratti di una riappropriazione dei simboli maschilisti) sia l'unica strada percorribile per riscattarsi, anche se di fatto è come pensare di liberarsi dalla sabbie mobili restandone invece sempre più invischiate.