Bellissimo film sulle ragazze nigeriane che vengono avviate alla prostituzione in Europa, o meglio, costrette a prostituirsi per ripagare il debito contratto con chi le ha fatte arrivare nel continente.
Al di là delle considerazioni ovvie, mi è piaciuto perché racconta bene la complessità del sistema patriarcale e perché riesce a essere un manifesto contro la prostituzione senza risultare ideologico.
Nella terra d'origine, in Nigeria, le donne sono già considerate persone inferiori, oggetti sessuali, o comunque al servizio degli uomini. Le famiglie stesse le mandano in Europa a "lavorare nella strade" così che possano poi inviare soldi a casa. Donne sacrificabili per gli interessi della comunità e delle famiglie d'origine. Prima di partire devono fare un "giuramento", cioè, andare da una sorta di stregone, che loro chiamano "juju", che in un certo senso è colui che garantisce che alla fine estingueranno il debito perché se non lo faranno le loro famiglie saranno colpite dalla disgrazia. Qui è profondo il legame tra superstizione e collusione con gli interessi economici e lo sfruttamento delle donne. Ovviamente il fine è guadagnare sullo sfruttamento dei loro corpi, ma la superstizione è ciò che le intimidisce, che le costringe a obbedire a questo sistema dal quale non possono sottrarsi poiché interiorizzato nel profondo.
L'adesione a un sistema si sorregge sempre anche su un certo timore reverenziale verso le tradizioni o qualcosa che si considera assoluto, immodificabile, metafisico. Il senso di colpa per non aver rispettato i patti le distruggerebbe.
Una volta arrivate in Europa devono restituire i soldi alle "maman", che sono il loro tramite, ossia donne più mature che hanno già estinto il proprio debito e che ora lavorano come intermediarie e si arricchiscono sulla pelle delle nuove arrivate, scegliendole e comprandole come se si fosse al mercato o spesso vendendole ad altre di altri paesi europei. Le maman obbligano le ragazze a lavorare per loro dietro ricatto di rimandarle indietro o di far male alle loro famiglie (ovviamente queste ragazze non hanno documenti, hanno paura di denunciare perché sanno che gli stati non gli garantirebbero il permesso di soggiorno, verrebbero rispedite indietro e una volta tornate sarebbero ripudiate dalla comunità per non aver tenuto fede al giuramento o colpevolizzate per le malattie dei loro cari o altro tipo di disgrazie), ma anche persuadendole che sia per il loro bene, per renderle ricche, insistendo sul fatto che una volta estinto il loro debito saranno libere. Anche le "maman" sono state donne prostituite in precedenza, ma una volta libere e dopo essere state tanti anni in prostituzione non vedono alternative percorribili se non continuare a restare nel sistema, seppure diventando esse stesse pappone. Non si tratta, banalmente, di donne sfruttatrici quanto gli uomini, pure se lo sono nei fatti, ma di vittime di una sistema arcaico patriarcale che non riescono a liberarsi dai condizionamenti profondi della cultura d'origine.
Aggiungiamoci il trauma delle violenze sessuali, lo svilimento totale del sé, l'impossibilità di pensare una via d'uscita.
Il titolo, Joy, è il nome della protagonista, vittima del business della prostituzione, ma ormai prossima all'estinzione del debito; le viene affidata una ragazza molto giovane, appena arrivata in Austria e a cui lei dovrà spiegare come funzionano le cose. Il film ci immerge nella violenza del sistema prostituente senza mostrarla direttamente. La mdp indugia sulle macchine lussuose dei clienti che scrutano la "merce" esposta sui marciapiedi gelidi della periferia austriaca, costruisce la tensione e il panico del salire in macchina di sconosciuti e del trovarsi in balia di uomini che potrebbero fare qualsiasi cosa. Come dice Rachel Moran, chi pensa che prostituirsi abbia a che fare con l'autodeterminazione e col sesso, evidentemente non si rende conto di quanto invece implichi la resa totale del proprio corpo, e quindi dell'incolumità dello stesso, che diventa, letteralmente, un pezzo di carne nelle mani di sconosciuti.
La regista, Sudabeh Mortezai, è bravissima nel riuscire a comunicarci questo perenne senso di pericolo, di trauma ripetuto, giorno dopo giorno, cliente dopo cliente.
Quasi tutte le donne in prostituzione, a prescindere che siano vittime di tratta o meno, che scelgano consapevolmente o meno, provano questo senso imminente continuo di pericolo e per tenerlo a bada iniziano a far uso di alcool e di droghe, fatto che poi le porta a dover prostituirsi ulteriormente per pagarsi queste sostanze, entrando così in un circolo senza fine.
Dice sempre la Moran, fino a che non entri nel sistema non è possibile immaginare cosa significhi veramente, né immaginare che quanto più la propria autostima e il senso del sé vengono distrutti - fatto che avviene spesso già dopo il primo cliente - tanto più ci si convince di non meritarsi altro e di non avere altre possibilità; difatti si parla di "sopravvissute al sistema" perché è un sistema che distrugge, che annichilisce, che consuma ora dopo ora e che lega a sé le vittime, come in una coazione a ripetere.
Questo è il patriarcato: un sistema che tanto più svilisce le donne, quanto più le convince a credere che vendersi, mercificarsi (spesso illudendosi che si tratti di una riappropriazione dei simboli maschilisti) sia l'unica strada percorribile per riscattarsi, anche se di fatto è come pensare di liberarsi dalla sabbie mobili restandone invece sempre più invischiate.