Nel privato mi confronto con alcuni uomini sinceramente interessati al femminismo. Non quelli del "not all men, bla bla bla", ma quelli che davvero si pongono in ascolto per capire. Mi chiedono il perché di questa rabbia che viene fuori. Ne sono spaventati, forse? Ovvio, nella misura in cui si è spaventati di qualcosa che non si conosce, non si comprende. Hanno paura magari di perdere amiche, sorelle, compagne. Magari ci hanno viste remissive e dolci e pazienti per tutta una vita e poi improvvisamente cambiamo.
Provo ad accennare il perché di questa rabbia, per quanto mi riguarda almeno.
Non è facile spiegare a chi non è donna dove nasce e perché. La condizione di oppressione si può spiegare nelle sue manifestazioni più evidenti, ma per quel che si prova nel profondo non basta l'empatia. Bisogna essere donne per capirla.
È molto difficile, ad esempio, farvi capire come ci sentiamo noi donne ogni giorno a essere considerate come oggetti sessuali e va da sé che quando attorno a te vedi l'immagine di te stessa, in quanto donna, oggettificata e moltiplicata all'infinito - e realizzi che questo è proprio ciò che sancisce la tua inferiorità - finisci per sentirti svilita in ogni momento.
Esattamente come l'animale fatto a pezzi nella vaschetta di polistirolo sparisce come individuo e diventa prodotto, cioè un referente assente, così la donna che compare nelle pubblicità, nei media, sui manifesti giganti nelle strade, nell'arte, nella fotografia, ovunque - e realmente, fisicamente usata come oggetto nel sistema prostituente e industria del porno - , non è più un individuo, ma un oggetto funzionale allo sguardo e desiderio maschile. Ed è questo che sancisce la sua inferiorità, giacché non si può essere soggetti se si è oggetti.
O si è individui o si è oggetti. Non si può essere entrambi.
L'oggettificazione a volte può essere sottile, può perfino passare per adorazione. Quando ci dite che siamo creature superiori e che la femminilità è qualcosa cui non si può rinunciare, ci state ancora riducendo a oggetto, a qualcosa che la cultura patriarcale, maschile, ha definito per noi, comunque in alterità al maschio. Quando ci parlate del femminile, come se fosse una serie di attributi naturali, ci state offendendo. Non esiste il femminile, non esiste roba da femmine, libri da femmine, interessi da femmine: proprie questi sono i limiti della nostra libertà e realizzazione in quanto individui, ciò che ha compresso e imbrigliato le nostre potenzialità e plasmato le nostre identità. Di questa profonda oppressione (tutta la cultura è maschile) noi portiamo i segni perché è ciò che ci ha definito come donne e in quanto donne. E abbiamo interiorizzato così nel profondo questi limiti che li abbiamo fatti nostri. Esattamente come il cane che conosciamo oggi è il frutto di secoli di domesticazione che hanno represso e modificato la sua natura più profonda, allo stesso modo il nostro essere individui come voi, solo con un sesso diverso, è stato represso nel profondo e ci sono stati appiccicati addosso ruoli e caratteristiche che attraverso l'educazione e di generazione e in generazione ci hanno definito come alterità femminile. La socializzazione differenziata non ha permesso lo sviluppo pieno delle nostre totali potenzialità di individui e fatichiamo enormemente per riappropriarcene. E questo è il motivo vero per cui moltissime donne stesse non comprendono il femminismo e, anzi, lo avversano profondamente, facendole diventare maschiliste. Gli resistono. Così come il paziente resiste nel voler sciogliere i blocchi profondi della sua psiche o così come il malato spesso resiste alla guarigione perché è ciò in cui si è identificato per tutta la vita, ciò che magari lo ha reso diverso rispetto agli altri. Molte sorelle hanno creduto talmente tanto nel vestitino da femmine che gli è stato cucito addosso che non vogliono più toglierselo (esattamente come le donne islamiche non vogliono rinunciare al velo, esso è diventato parte integrante della loro identità). E specularmente accade lo stesso agli uomini: compressi entro determinati ruoli che hanno definito la loro mascolinità, hanno paura di rinunciarci poiché ciò significherebbe destrutturare parte della loro identità e lavorare per costruirne una nuova. E lo stesso accade a proposito della nostra specie la cui umanità è stata definita in opposizione all'animalità.
Il femminismo è doloroso, è un percorso faticoso perché significa rinunciare a parte della nostra identità così come si è costituita nei secoli.
Quindi, prendendo coscienza graduale di ciò, la nostra rabbia, più che giustificata, si manifesta. È una rabbia atavica che nasce da secoli di oppressione, naturalizzazione di un'oppressione in realtà materiale e politica, da presa per i fondelli riguardo un'apparente parità. Ma quale parità se ancora appunto siamo oggetti e non soggetti? Ci avete reso oggetti, ci avete mutilato, bruciato sui roghi, costrette a casa, proibito di studiare e quando l'abbiamo fatto ci avete fatto credere che certe branche del sapere non sono per noi, non ci saremmo portate e ci avete indirizzato ancora una volta verso ruoli subalterni. E ci arrabbiamo ancora di più quando voi vorreste definire i termini della nostra liberazione e ci dite come il femminismo dovrebbe o non dovrebbe essere. Potete accompagnarci, ascoltarci, sostenerci, ma non siamo disposte a lasciare ancora una volta nelle vostre mani i ruoli che contano per poi accontentarci delle briciole o di concessioni che però non cambiano di una virgola la nostra condizione di oppresse.
La nostra condizione qui in occidente è ovviamente meno evidente nella sua oppressione perché apparentemente siamo libere. Ma, come spiegavo sopra, l'oggettificazione che subiamo continuamente è un modo molto sottile di sancire ancora una volta la nostra inferiorità e di opprimerci. La maniera in cui il patriarcato continua a opprimerci ancora qui in occidente è attraverso il choice feminism, ossia facendoci credere che oggettivarci, lasciarci usare, tornare ai condizionamenti di una volta come stare a casa, fare e dedicarsi ai figli per realizzarsi, dedicarci alla cura come propensione naturale che avremmo e persino prostituirsi possa essere una libera scelta (molti uomini va da sé che difendano la prostituzione perché ne traggono benefici, illudendosi che sia davvero una libera scelta. Ma, a parte che lo è per pochissime, comunque la presunta libertà finisce nel momento in cui ci si oggettifica poiché appunto si perde automaticamente il proprio status di soggetto che negozia. Di questo parla molto approfonditamente Rachel Moran nel suo libro Stupro a pagamento! Ne ho accennato qui. Libertà e oggettificazione sessuale non collimano. Sono termini autoescludentisi a vicenda). Facendoci credere che continuare a indossare il vestitino della femminilità sia bello, gratificante, sia ciò che vogliamo realmente anche noi. Il modo migliore per schiavizzare qualcuno è fargli credere che non lo sia, che abbia scelto (esattamente come ci illudiamo di essere liberi perché possiamo scegliere tra tanti oggetti disponibili nei centri commerciali. Ma di questo bisognerebbe scrivere un post a parte).
Chi si oggettifica consapevolmente, o meglio, illudendosi di poterne negoziare i termini, non capisce fino in fondo cosa significhi rendersi oggetto e abdicare alla propria individualità. Costoro si illudono di poter scindere la loro personalità: oggetti per lavoro o in qualsiasi altra sfera della propria vita e poi riconosciute come soggetti quando lo decidono loro. Non è così che funziona, quando si viene oggettificate, tutto il resto è compresso in quella riduzione. E nel momento in cui diventi oggetto, non è che puoi dire all'altro fin dove può considerarti tale. Lo sei e basta.
Immaginate la mucca che viene sfruttata come se fosse una macchina per dare il latte. Essa rimane macchina, sempre, anche se in apparenza qualcuno le dà il nome e le dice che prova affetto per lei. Quel qualcuno, nell'usarla, ribadisce comunque a tutti i livelli la sua inferiorità, anche perché i termini del contratto d'uso non sono negoziabili da lei, ma solo da chi la sfrutta.
Così è per le donne. Non si può essere soggetti ed oggetti allo stesso tempo. E oggettificarsi, rendersi oggetto, sancisce la nostra inferiorità.
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