venerdì 30 marzo 2018

Il mio rapporto con la religione

Da piccola chiesi al prete che mi insegnava catechismo come avesse fatto la terra a popolarsi, dal momento che dalla prima coppia creata, Adamo ed Eva, nacquero due maschi. "Si sono accoppiati con la madre?", chiesi, con una certa ingenuità, ma anche evidente senso critico accompagnato da un pizzico di sarcasmo.

Mi sono sforzata per un po' di "credere" per essere come le mie amichette che andavano a messa e qualche volta ci andavo anche io, ma non sono mai stata convinta dell'esistenza di Dio e della verità delle cosiddette sacre scritture, nemmeno da bambina.

Mia madre era credente, ma più che una fede bigotta, aveva una fede semplice e irrazionale/scaramantica, più vicina al pensiero magico, che non ai dogmi religiosi; confidava nella protezione dei santi, nella divina provvidenza che non abbandona mai, nella preghiera diretta e senza intermediari. Mio padre una volta mi disse che i preti gli sembravano dei "bacarozzi neri", per scherzo, e da quella volta anche io li ho sempre chiamati così. 
Memorabile quella volta che accesi la radio e capitò per sbaglio di sintonizzarsi su una stazione che stava mandando una messa in diretta e io, molto piccola, dissi: "papà, spegni, ci sono i bacarozzi neri che parlano".

Le feste religiose mi sembrano reliquie di un passato oscuro che ancora sopravvive.

giovedì 29 marzo 2018

Do you love me yet?


La maggior parte delle persone che mangia animali è convinta che le loro sofferenze non siano paragonabili alle nostre, che non soffrano la schiavitù e la prigionia come la soffriremmo noi, che non si rendano conto di quanto gli stia accadendo.

Eppure pochi direbbero che sia giusto far nascere un cane o un gatto per trasformarlo in polpetta, questo perché quasi tutti hanno avuto modo di conoscere questi animali, magari ci vivono insieme.

Maiali, mucche, vitelli, galline, polli, agnelli e pesci non sono diversi per capacità cognitive, relazionali e di esperienza del mondo. Non è giusto farli nascere e allevarli per trasformarli in prodotti, privarli di una vita libera e della possibilità di esprimere tutte le loro caratteristiche etologiche.

Possibile che sia così difficile da capire?

Diventare vegani non significa dover rinunciare a del cibo, significa semmai sostituire i prodotti della violenza sugli animali con alimenti che ci offre la natura.

Immagine di Sanora Matchett.

martedì 27 marzo 2018

Petit Paysan, ovvero uno spot del buon allevatore compassionevole


Suona la sveglia, Pierre apre gli occhi, si alza e si fa strada tra i corpi delle Mucche che ingombrano l’appartamento, poi va in cucina, dove si prepara il caffè sotto lo sguardo curioso degli Animali. Una scena di intimo calore domestico. 
Dissolvenza. La sveglia suona di nuovo, questa volta nella realtà e non in sogno, e inizia la giornata lavorativa di Pierre.
Nella prima scena c’è già tutto l’intento del primo lungometraggio di Hubert Charuel, figlio di allevatori. Le Mucche occupano totalmente la mente del protagonista, sono il suo lavoro, la sua vita, non c’è spazio per altro, né per gli amici, né per l’amore, né per lo svago e nemmeno per i genitori. 
Il titolo italiano aggiunge una frase all’originale, “un eroe singolare”. 
Ed è così che ci viene descritto questo giovane allevatore che non esita ad uccidere con le sue stesse mani due Mucche che hanno contratto la febbre emorragica – una con un colpo di accetta, chiedendole “scusa”, l’altra con un colpo di fucile – e poi a nasconderne i corpi per evitare che la sanità pubblica abbatta l’intera mandria. 
Rispetto alla dimensione onirica della scena d’apertura, il resto ha un taglio molto realistico; la macchina da presa segue Pierre nelle sue mansioni quotidiane: la mungitura meccanica delle Mucche, la nascita di un vitellino – che viene subito allontanato dalla madre e costretto a bere il suo primo latte da un secchio di plastica -, la foratura delle orecchie per attaccare le marche auricolari, il pranzo a casa dei genitori, le visite della sorella veterinaria. Apprendiamo che Pierre è il miglior allevatore della zona, primo per qualità del latte. Un primato che lo rende orgoglioso e che non vuole assolutamente perdere. 

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martedì 20 marzo 2018

Combattere il sessismo con lo specismo? Not in my name.


Usare la maschera di un maiale per combattere il sessismo e il maschilismo? È successo a New York in occasione di una sfilata organizzata dal movimento #MeToo.

Non mi sembra una buona idea quella di combattere una discriminazione e ideologia di potere nei confronti delle donne avallandone un'altra, cioè quella verso gli animali non umani.

Mi rendo conto che ci siano moltissimi pregiudizi sui maiali e gli animali in generale, ma non sarebbe arrivato il momento di metterli in discussione? I maiali non molestano, non stuprano, non sono maschilisti. Sono animali socievoli e affettuosi, intelligenti, capaci di empatia e solidarietà nei confronti dei propri simili.

Così come ogni luogo comune sulle donne ne rafforza la discriminazione, allo stesso modo ogni luogo comune sugli animali ne rafforza lo sfruttamento. 

lunedì 19 marzo 2018

La rivoluzione animalista


Ricollegandomi a due post fa, ogni battaglia ha una sua specificità in base a chi è che sta rivendicando diritti e libertà e in base alle modalità di oppressione, che hanno sì radice comune, ma si differenziano a seconda delle vittime; e questa specificità va rispettata. Per questo, riguardo l'animalismo, non dobbiamo avere paura di dire che è una battaglia specifica, senza dover stare a tirare in mezzo ogni volta argomenti che invece riguardano noi, come la salute, o lo sfruttamento sul lavoro. Un conto è parlare di intersezioni, un altro è rischiare di non parlare bene né di una questione, né di un'altra, anzi, visto l'antropocentrismo da cui fatichiamo ad affrancarci, il rischio è sempre quello di posizionare gli animali sempre sullo sfondo. Sento troppo spesso dire: "prima dobbiamo fare la rivoluzione, cambiare la società e poi pensiamo agli animali". Chi mette al primo posto i diritti umani, non è diverso dal carnista che ti dice "pensiamo prima ai bambini".
Chi lotta, attivamente intendo, cercando e studiando strategie, per combattere lo sfruttamento degli animali, la rivoluzione la sta già facendo.
E la rivoluzione animalista è la più radicale mai pensata nella storia perché non mette in discussione l'idea stessa soltanto di società, ma l'idea di umanità come la conosciamo, la nostra identità e il nostro posto nel mondo. 

Chi pensa che la questione animalista sia secondaria non ha capito la portata di questa rivoluzione di pensiero e culturale in senso ampio. Una rivoluzione che investirà tutto ciò che conosciamo: l'economia, la filosofia, l'arte, il linguaggio, la politica, la maniera di vedere, interpretare e capire la realtà. 

Dobbiamo essere orgogliosi di farne parte, di essere i promotori di questa rivoluzione che è solo agli albori e di cui, proprio per questo, ancora fatichiamo a scorgerne tutte le potenzialità e gli orizzonti. Non sapremo dove ci porterà questo cammino, ma chi di noi l'ha intrapreso sa che non si può tornare indietro. 

Dobbiamo metterci in testa una cosa, però: affinché questa rivoluzione diventi effettiva, non basta percorrerla sul piano personale, non basta più. Dobbiamo affiancarci, coalizzarci, trovare strategie comuni e provarle, anche quelle che magari ci piacciono meno. Dobbiamo smetterla di restare chiusi nella nostra personale stanzetta fatta di uno stile di vita vegano coerente e puro. Diventare vegani è necessario, ma non risolutivo. Lo sarebbe se oltre la metà della popolazione mondiale lo diventasse, ma finché saremo una minoranza irrisoria (di contro a sempre più persone che nascono e che adottano lo stile carnista occidentale) che si limita a fare propaganda sul veganismo, gli animali continueranno a esser fatti nascere per essere trasformati in prodotti quanto prima.

Come ho detto poche righe sopra, poiché la rivoluzione animalista investe ogni campo della nostra cultura, quello che serve, che forse potrebbe servire, è che si portino avanti più battaglie contestualmente che investano, nell'ordine, diversi settori: quello economico/politico, con strategie specifiche per affossare l'industria della carne, del latte, delle uova; filosofico, con filosofi che si diano da fare in ambito accademico per promuovere e insegnare una filosofia antispecista; quello artistico, con registi che realizzino film che contengano un messaggio antispecista, scrittori che scrivano storie antispeciste, pittori e fotografi che realizzino opere che abbiano come soggetti gli animali in un'accezione antispecista e via dicendo; linguistico, promuovendo una neo-lingua, intesa in un'accezione positiva, ossia che abolisca le espressioni frutto di pregiudizi sugli animali - espressioni che, ogni volta che vengono pronunciate, rafforzano quegli stessi pregiudizi; medico-nutrizionista, con specialisti preparati che facciano informazione sul veganismo; scientifico, con scienziati, etologi, biologici che ci parlino della ricchezza del mondo degli animali e delle loro capacità diverse senza più usare parametri antropocentrici e che mettano in discussione il dogmatismo della sperimentazione animale. 
Insomma, a ciascuno il suo, come si suol dire, l'importante è la preparazione, la serietà, ossia che ognuno si dedichi a ciò che sa fare e conosce meglio. 
E che, tutti insieme, ci si unisca e si scenda in piazza in occasioni particolari, che sia un corteo, un presidio contro una multinazionale che sfrutta animali o altre iniziative, per mostrare che siamo tanti e compatti. Che lo si trovi il tempo. Che lo si crei, lo si inventi, quello che vi pare, tenendo sempre bene a mente che se su quei camion che vanno al macello ci fossimo noi o i nostri figli sospenderemmo ogni altra attività per trovare il modo di liberarli; ora, ovvio che viviamo esistenze faticose, che dobbiamo lavorare, sbrigare il quotidiano e ritagliarci anche qualcosa per il nostro piacere personale, non si sta chiedendo l'abnegazione totale, ma penso che possiamo e dobbiamo fare di più, inteso nel senso di specializzarci meglio ognuno nei vari settori, senza disperdere capacità e tempo, altrimenti è come se pedalassimo in salita con una marcia sbagliata, andando avanti per un po', ma trovandoci presto sfiancati e senza più ossigeno nei polmoni: che è esattamente quello che è successo al movimento fino ad adesso. Ci si sfinisce per qualche anno e poi ci si stanca e si lascia andare, dopodiché subentrano nuovi attivisti che ricominciano da capo facendo gli stessi errori. 
Credo che sia importante che ognuno di noi si guardi dentro e si chieda: cosa so fare meglio io? Che contributo potrei dare alla causa? Sono un artista? Allora forse potrei convogliare lì, nel mio lavoro o passione, l'impegno per gli animali. Sono un medico, un filosofo, un impiegato, un operaio? Allora dovrò cercare di cambiare le cose all'interno di questi settori. 

Non disperdiamo le energie, focalizziamoci su quello che sappiamo fare meglio e adoperiamoci per la causa. Tenendo a mente che siamo agli albori di una rivoluzione, ma sta a noi adesso trovare e indicare una via, prima che questa scintilla venga soffocata. 


domenica 18 marzo 2018

Ma il re è nudo!



Ha suscitato molto scalpore questa foto pubblicata sul profilo instagram di uno degli chef dell'Hotel Monaco Sport in cui, lo stesso, insieme a un suo collega, deride il corpo di un agnellino scuoiato e ironizza su chi, specialmente in questo periodo pre-pasquale, sensibilizza a non mangiarlo. 

Sulla pagina FB dell'hotel c'è stato un profluvio di commenti indignati, anche da parte di tanti carnisti, tanto che i gestori dell'albergo sono stati costretti a scusarsi e a scrivere che prenderanno provvedimenti contro il personale, i due chef, rei di così tanta insensibilità nei confronti del povero cucciolo.

Anche io ho scritto un commento mostrando la mia indignazione. 
Un sentimento, questo dell'indignazione, che mi ha costretta a riflettere, a interrogarmi. 
Perché questa immagine infastidisce così tanto? Posso capire che infastidisca i vegani/animalisti/antispecisti, ma, i cosiddetti onnivori, che pure l'agnello se lo mangiano (e se non lui, altri individui di altre specie), cos'hanno da criticare?

La prima cosa che mi viene in mente è che la derisione di un cucciolo ucciso e scuoiato è un atto estremo, sì, inqualificabile, sì, ma, purtuttavia, non è la cosa peggiore che abbia dovuto subire quel cucciolo.
La cosa peggiore che ha dovuto subire quel cucciolo è stata l'esser stato fatto nascere apposta per esser trasformato in prodotto, l'esser stato separato dalla madre a pochi giorni e poi condotto al macello.

Ora, lo capisco che mangiare carne sia considerato normale e che sia difficile ricondurre la bistecca nel piatto all'animale vivo che è stato, alla sofferenza che ha subito nell'esser stato considerato merce e non un individuo, mentre trovarsi di fronte a un corpicino intero scuoiato e per di più riderci sopra è un altro paio di maniche, eppure, forse, chi dice di rispettare gli animali e poi li mangia, non è che si sta semplicemente illudendo di essere diverso dai quei due?

Certo, la derisione è un di più, ma, ripeto, assumendo il punto di vista dell'agnellino, qual è il danno peggiore che ha subito?

La foto è indubbiamente oscena, ma lo è perché ci sta dicendo qualcosa di noi, perché mette a nudo una verità scomoda, che i più non vogliono sentire.

Un'altra riflessione che mi viene da fare è questa: non è forse vero che tutti quelli che mangiano l'agnello (o qualsiasi altro animale) alla fine si comportano esattamente come i due nella foto? 
Non ridono anche loro, forse, quando ce l'hanno nel piatto, magari insieme agli amici, alzando i calici per un brindisi, chiacchierando di cose più o meno facete? Certo, non ridono di lui, ma ridono NONOSTANTE LUI, nonostante quel pezzo di carne nel piatto che un tempo era appartenuto a un individuo. 
L'unica differenza è i due cuochi sono perfettamente consapevoli di chi hanno davanti, anche se quel CHI, quell'individuo che è stato, per loro vale meno di niente, mentre i carnisti, ossia chi mangia animali, non lo vedono nemmeno più.

E, francamente, non so chi sia peggio.

Gli anni al contrario di Nadia Terranova


Gli anni al contrario di Nadia Terranova è uno di quei libri da cui non riesci a staccarti fino a che non sei arrivato alla fine. 
Sorprende per la scrittura delicata e forte al tempo stesso; capace di far precipitare gli eventi con poche frasi senza risultare automatica; così come di restituire uno stato d'animo con due parole.

Ambientato in Sicilia in quel periodo a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, sullo sfondo degli anni di piombo, ci racconta di Aurora e Giovanni, di come si sono trovati e poi persi e del loro sforzo, soprattutto, di trovare se stessi.

La narrazione degli eventi personali che riguardano Aurora e Giovanni è perfettamente bilanciata con quella degli eventi storici che li coinvolgono in prima persona. 
Ci sono periodi in cui sembra impossibile non essere toccati dalla Storia che irrompe nel privato e lo plasma, segnandone il destino. 
Giovanni avrebbe voluto essere un eroe, ma finisce per diventare un tossico; Aurora, che ha un talento per non accorgersi delle cose, gli vive accanto, in un silenzio fatto di complicità e connivenza.
Più che di un fallimento di una coppia, è la storia di un fallimento di un'epoca, con i suoi ideali, fino ad arrivare agli anni ottanta, alla loro apparente leggerezza, preludio della fine.

lunedì 12 marzo 2018

Noi vegani


Sì, "noi vegani" (come ci chiamano i non vegani) siamo spesso tristi e arrabbiati. E no, non ci facciamo due risate quando parliamo degli animali che vanno al macello.
Sì, a volte, dopo l'ennesima obiezione che tira in ballo le piante che soffrono o la catena alimentare, capita che rispondiamo male. E no, non sempre possiamo accogliere con un sorriso da Buddha la stupidità altrui.
Sì, a volte, di fronte a tanta indifferenza e leggerezza nel difendere la violenza sugli animali, capita che perdiamo le staffe. E no, non si tratta di aggressività, ma di reazione. A proposito, anche se a volte perdiamo le staffe sui social, la nostra presunta violenza verbale non sarà mai nulla rispetto a quella reale praticata sugli animali.
Sì, capita che facciamo una smorfia quando dopo aver descritto per filo e per segno la realtà di allevamenti e mattatoi ci sentiamo rispondere che mangiare animali o meno è una scelta persona e dovremmo rispettarle entrambe. E no, non si tratta di ostentazione di moralità superiore, è che non tutte le scelte si equivalgono, non tutte hanno egual valore e peso morale.

Il fatto è che non si tratta di una questione personale, non stiamo difendendo l'appartenenza a un gruppo, il gusto dell'insalata, il latte di soia o schierandoci "noi contro voi" come se stessimo allo stadio.

Stiamo cercando di far capire alle persone che gli animali sono individui senzienti che vengono imprigionati, schiavizzati, maltrattati e uccisi in numeri da far spavento senza alcuna vera necessità e che questa è un'ingiustizia tremenda nei confronti della quale non possiamo restare indifferenti.

Non siamo estremisti, ma converrete con noi che nei confronti della violenza non si può che fare una scelta radicale: rifiutarla o tollerarla. 
Se pensate che uccidere e sfruttare maiali, vitelli, mucche, galline, polli, pesci, agnelli sia ingiusto, allora sforzatevi di allineare il vostro comportamento al vostro sentire. O, quanto meno, di comprendere chi l'ha fatto, senza etichettarlo o denigrarlo sperando così di tenere a distanza anche la gravità della questione.

venerdì 9 marzo 2018

Fame di Roxane Gay


Libro coraggioso e ben scritto.
La storia di un corpo, ovvero l'autobiografia di una donna che prova a sezionare, strato dopo strato, gli innumerevoli chili di grasso che la ricoprono per scoprire e raccontare la sua verità.

"Questo libro è una confessione. Ecco le parti più brutte, deboli e scoperte di me. Ecco la mia verità. Ecco una storia del mio corpo, perché spesso le storie dei corpi come il mio vengono ignorate, liquidate in due parole o derise. La gente vede corpi come il mio e fa le sue deduzioni. Crede di conoscere il perché del mio corpo. Non lo conosce. Questa non è la storia di un trionfo, ma è una storia che merita di essere raccontata e merita di essere sentita.
Questo è un libro sul mio corpo, sulla mia fame e, in ultimo, sullo scomparire e perdersi e voler essere visti e capiti, volerlo con tutte le proprie forze. È un libro sull'imparare, anche lentamente, a concedersi di essere visti e capiti.".

Roxane Gay ha 12 quando viene stuprata da un branco. Un branco di cui faceva parte anche il ragazzo di cui si credeva innamorata. A dodici anni ha scoperto tutta la violenza e l'umiliazione che si può infliggere a un corpo usato come fosse un oggetto. Ha scoperto cose che, alla sua età, nemmeno sapeva fosse possibile fare su di un corpo.
Da allora, dopo quel momento, incapace di raccontare il tutto ai suoi genitori e convinta che in qualche modo si fosse meritata tutto quello schifo, tutta quella violenza, inizia una battaglia contro il suo corpo. Trova conforto nel cibo. Il cibo non fa domande, non giudica, offre una gratificazione immediata ed è la chiave per continuare a vivere senza essere visti. Può sembrare un paradosso che un corpo grasso risulti invisibile, eppure è questo che accade ai grassi di tutto il mondo. Il grasso che li ricopre rende invisibile ciò che c'è sotto. Magari si pensa di sapere chi c'è, i motivi per cui mangia fino a scoppiare, ma è solo una falsa verità fatta di pregiudizi e luoghi comuni.

Raccontando la storia del suo corpo, Roxane, attivista femminista, scrive anche un saggio accorato sull'ipocrisia della nostra società.

Una cosa mi ha colpito in particolare, ossia la discrepanza tra ciò che pretendiamo di definire come giusto e corretto e il sentirsi comunque a disagio in un corpo che non corrisponde ai canoni della società. 
Parlo a nome di noi donne tutte che intellettualmente e consapevolmente rifiutiamo di essere imbrigliate in assurdi canoni estetici e sappiamo che siamo altro dal nostro girovita o grandezza delle cosce, ma nonostante ciò non basta saperlo per farci accettare serenamente il nostro corpo e per avere un buon rapporto con esso, al di là della taglia che indossiamo. 
La discrepanza tra il sapere a livello intellettuale e il sentire a livello emotivo.

E questa è una problematica, cioè, un sentire, intimo e personale, che molto ha a che vedere con il posto che noi donne da sempre ci cerchiamo nel mondo. 
Ci insegnano a essere gentili, aggraziate, silenziose, moderate, a occupare, letteralmente, poco spazio. 
Ingrassare o dimagrire, avere una fame insaziabile, o al contrario, sopprimere la fame, va oltre questo bisogno atavico del mangiare, è una risposta alla cultura dominante, al biopotere, al patriarcato e al mito dell'efficienza e del controllo da parte della società, dei genitori, degli amici, dei parenti, di chiunque pensi che esista un modo giusto di essere e uno sbagliato.

Leggendo la storia del corpo di Roxane vengono in mente tante riflessioni, riflessioni come questa sopra, però mi sembrerebbe di farle un torto ad azzardare altre letture perché il libro è in primo luogo la sua storia e credo che meriti di essere letta e ascoltata per quella che è, senza intellettualizzarla troppo e senza personalizzarla; ognuna di noi si riconoscerà in qualche frase, in qualche suo pensiero, anche quelli in cui racconta la violenza che ha subito (chi di noi non ha mai subito molestie sessuali, per quanto lievi? Ma chi può dire quanto una molestia sia lieve o profonda se non la diretta interessata?), ma Fame è innanzitutto la storia del corpo di Roxane, un corpo che finalmente trova il coraggio di venire allo scoperto e di mostrarsi per quel che è. Con vergogna. Lo fa con tanta vergogna. E quasi ci sentiamo in imbarazzo con lei. Con lei, non per lei. E questo, credo, non le dispiacerebbe sentirlo. Che siamo con lei. Che la vediamo, la sentiamo, la capiamo. Finalmente smettendo di giudicarla, di giudicare il suo corpo. Che è il suo corpo. Né giusto e né sbagliato, ma vero, esistente. E quando dico né giusto e né sbagliato non sto facendo l'ipocrita apologia del "grasso" o mimando uno di quegli stupidi slogan che affermano che "grasso è bello". No, sto solo dicendo che bisogna sospendere ogni giudizio e fermarsi a sentire cosa ha da dire.

E se fosse narcisismo patologico?


Quando chiediamo alle persone di riflettere sullo sfruttamento degli animali, in realtà gli stiamo chiedendo molto di più. 
Gli chiediamo di mettere in discussione tutto un sistema di valori su cui hanno fondato le loro esistenze e che hanno appreso culturalmente, nonché, fondamentalmente, il concetto stesso di umanità; concetto, quest'ultimo, che si è costruito proprio in opposizione all'animalità, ossia definendosi arbitrariamente in positivo rispetto a un polo negativo (una somma di pregiudizi che peraltro non tiene conto dell'immensa diversità del mondo animale, di cui, beninteso, facciamo parte anche noi).

Quando diciamo alle persone che non dovrebbero mangiare la carne gli stiamo chiedendo molto di più: gli stiamo chiedendo di rimuovere tutta la sfera dell'affettività, simbolica e concreta, che ha determinato la loro crescita e di riconoscere che le persone che più amavano gli hanno mentito, raccontato una menzogna.

Non si tratta soltanto di prender coscienza della sofferenza e senzienza degli altri animali, ma di ripercorrere a ritroso tutto il percorso, individuale e storico-culturale, che ha definito quel che siamo. Significa smascherare la nostra storia, di singoli e dell'umanità nel suo complesso, alla luce di una nuova sconvolgente verità e di capire che la nostra presunta moralità, superiorità, razionalità, intelligenza sono in realtà una menzogna.

Usando una categoria della psicologia si potrebbe affermare che l'umanità soffre del disturbo narcisistico di personalità. Abbiamo bisogno di distruggere e mortificare chi si relaziona con noi per affermare e definire la nostra individualità di cui abbiamo un'idea di distorta megalomania. 
Non siamo in grado di riconoscere il maiale (o la mucca, il pulcino, il polpo) come nostro pari e di dialogarci e relazionarci con lui in modo sano ed equilibrato perché altrimenti il concetto di umanità verrebbe svuotato poco a poco di tutti quegli attributi che sono connotati positivamente solo poiché e finché esiste un polo negativo da contrapporgli. 
Se riconoscessimo di non esser speciali, o meglio, che lo siamo a nostro modo così come lo è ogni altra specie, perderemmo quell'opposizione negativa a partire dalla quale ci siamo innalzati sopra a tutta la natura e scopriremmo così di esser nudi: animali tra gli animali. Né di più, né di meno del maiale che sta andando al macello e che ci chiede soltanto di esser visto, capito, riconosciuto. Una vertigine immensa si spalancherebbe di fronte ai nostri occhi. 
È così difficile guardarsi allo specchio e vederci l'altro. O guardare l'altro, tutto ciò che denigriamo di lui, e scoprirci noi stessi.

Ma è uno sforzo che dobbiamo fare perché solo la verità rende liberi. Liberi da gabbie mentali e culturali, liberi di guarire, di realizzarci al meglio delle nostre possibilità. Possiamo essere migliori di come siamo. 
Mi rendo conto che ammettere di essere artefici di una gran massa di sofferenza ci farebbe vergognare immensamente e la vergogna forse è il peggiore dei sentimenti, quello più ruvido, più difficile da affrontare, ma anche, al tempo stesso, il più costruttivo. È solo dalla vergogna per ciò che siamo diventati e per gli effetti delle nostre azioni che possiamo metterci in discussione. 
Quindi, la prossima volta che ne avremo l'occasione, sforziamoci di non sviare lo sguardo dal maiale (o da qualsiasi altro animale) che sta andando al macello. 

Il suo sguardo ci ferisce, ci annienta, ci fa vergognare immensamente, mette a nudo ciò che siamo realmente. Ma è da qui, dal suo sguardo annientato, che possiamo ripartire.

domenica 4 marzo 2018

Come ti demonizzo il veganismo

La disinformazione mediatica porta a credere che il veganismo non sia adatto ai bambini. 
La capziosità nella narrazione che demonizza il veganismo funziona in questo modo: quando un bambino vegano finisce in ospedale, per qualsiasi motivo non inerente la sua alimentazione, sui titoli di giornale viene comunque menzionato come "il bambino vegano" (il titolo direziona l'interpretazione del lettore, specialmente nel lettore frettoloso e disattento e in particolare in quello che scorre le notizie fermandosi al solo titolo); se invece il bambino è onnivoro allora la precisazione non è necessaria. Non si menziona cioè il suo tipo di alimentazione. Avete forse mai letto "bambino onnivoro finisce in ospedale"? 
Si mette in atto cioè un preciso processo di criminalizzazione di una categoria, esattamente come avviene per gli immigrati.

Altra cosa: se un bambino vegano si ammala poiché magari i genitori sono stati poco attenti a introdurre nella sua alimentazione tutte le vitamine necessarie o sono stati incapaci di seguire un giusto ed equilibrato piano alimentare, allora anche in questo caso si demonizza il veganismo; se invece un bambino onnivoro si ammala di diabete o altre patologie legate a un'assunzione squilibrata o in eccesso o carente dei nutrienti necessari, non si demonizza la dieta onnivora nella sua totalità, ma si incolpano i cibi industriali o qualche precisa sostanza particolarmente dannosa.

C'è da dire che nessuna di queste tecniche funziona con chi ha veramente a cuore il rispetto e la giustizia verso gli altri animali e si informa per conto proprio tramite fonti corrette.