Posso affermare di avere un certo sesto senso per la scoperta di nuovi autori. Da poche righe, a volte dalla sola sinossi, capisco se è un romanzo che potrebbe valere la pena di leggere o meno.
Non mi sbaglio mai.
Questo racconta la storia di una ragazzina e della sua famiglia che negli anni novanta si trasferisce da Roma a Los Angeles.
Potrebbe essere una storia di formazione come tante altre, ma non lo è perché ha una sua astrattezza quasi metafisica.
Il romanzo parla della ferita del vivere, della sofferenza e dolore che sempre comporta e di come certi luoghi, certe realtà, inaspriscano e formino il carattere più di altri, o forse, soltanto, lo rivelino più di altri.
Particolarmente straziante è l'intermezzo che racconta della vacanza in un'isola piccolissima delle Eolie; qui il pianto delle creature è un sottofondo costante e l'impotenza della piccola protagonista di fronte a leggi ferree e immutabili, che pure aveva cercato di smuovere e cambiare, si fonde con quella dell'asina Angelina, costretta a piegarsi di fronte all'arroganza del potere maschile.
La città di Los Angeles è una forza che imprime direzione alle azioni e alla sorte dei personaggi, una presenza dalla natura bipolare, quella squallida o buia dei quartieri suburbani e quella rarefatta, quasi mistica, dei sentieri contigui al deserto, con la polvere rossa dorata e la luce che filtra attraverso le querce che a poco poco sfilacciano il "costume di gomma" - una sorta di corazza protettiva metaforica - che la protagonista si è cucita addosso.
"Cambiò posizione, tenendo un occhio vigile sulla casa sotto di noi. Io mi aggrappavo alle radici spezzettate che sporgevano dalla terra e tiravo indietro l'amaca verso la staccionata. Una brezza calda cominciò a soffiarmi sul collo e lungo le gambe, proveniva da molte direzioni contemporaneamente. Un respiro che mi accarezzava gli angoli degli occhi, rendeva i capelli elettrici. Ascoltavo i rumori del canyon e mi sembrava, per la prima volta, di avere accesso a quella magica sensazione losangelina che Max aveva tentato di spiegarci quando eravamo arrivati, quella luce inafferrabile e incoraggiante: il luminoso invisibile. In termini hollywoodiani era l'equivalente di un colpo di fortuna improvviso, qualcosa di divino che poteva guarirti all'istante dal dolore, dallo smog e dai rifiuti subiti. Ne ero talmente affamata che spalancai gli occhi, sperando di poterne estrarre l'essenza e conservarla dentro me, da qualche parte tra gli strati del mio costume di gomma. Spinsi l'amaca contro la staccionata, con ogni oscillazione esaminavo le particelle di quella luminosità e provavo ad accovacciarmi lì dentro. Annusavo l'aria pungente e guardavo il cielo azzurro. Ma appena cercavo di catturare quella sensazione, la luce si affievoliva. Gli oggetti tornavano dentro i loro contorni e il luminoso invisibile scompariva. "Se guardi troppo da vicino vola via" aveva detto Max. E aveva ragione."
La scrittura precisa e misurata e l'ampio respiro della narrazione sono una piacevole scoperta nel panorama italiano.
L'autrice sembra mostrare anche una certa sensibilità verso gli altri animali; sensibilità che emerge a tratti in alcune riflessioni, frasi - "Il pensiero di un vitello fatto a pezzi e cucinato in padella con la salvia e il burro mi fece subito star male e non appena cominciò a farmi effetto il Vicodin lasciai annegare quel pensiero e sprofondai di nuovo in acqua". e, in generale, nella consapevolezza di condividere la stessa vulnerabilità nell'esser vivi.
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