La domanda che dobbiamo porci per migliorare la nostra strategia è sostanzialmente una: questa cosa serve veramente alla causa della liberazione animale?
Se la risposta è sì, allora va bene.
Se è no, no sul breve termine, no sul lungo termine, allora quel che rimane, al netto di tutto, è solo egocentrismo o identitarismo vegano/animalista, e/o bisogno di sfogarsi.
Scrivo questa riflessione sulla scia dell'indignazione sviluppatasi sui social, e non solo, in seguito alla pubblicazione di un autoscatto di due donne che lavorano in un punto vendita del Carrefour mentre dileggiano un povero agnellino scuoiato e pronto per essere venduto un tanto al kg.
Un'immagine certamente orribile, simile a quella che qualche mese fa ha pubblicato anche Cruciani.
Premetto che anche io ho provato dolore nel vederla, ma il mio dolore non è dovuto tanto al dileggio in sé - come ho già scritto nel post precedente, funzionale a chi agisce la violenza e a chi svolge certi lavori - ma al fatto che quell'agnellino sia stato ucciso per essere mangiato.
Lo stesso orrore, né di più e né di meno, lo provo quando passo davanti ai banchi del supermercato e vedo tutti quei corpi di animali fatti a pezzi. Anzi, l'idea che qualcuno li abbia disossati, assembrati e confezionati in maniera asettica, come se anziché corpi stesse maneggiando merci, se vogliamo, mi disturba ancora di più. Ma il punto qui non sono io o miei sentimenti, quel che provo o non provo, il punto è che viviamo in una società che legittima la schiavitù degli animali e istituzionalizza la violenza. È questo che deve indignarci, non il modo in cui questa violenza viene agita, se insieme al dileggio o con asettico distacco.
Vero che si sono scandalizzati anche molti onnivori, ma non perché provano empatia per gli animali uccisi per essere mangiati - se così fosse non li mangerebbero -, ma perché quell'immagine mette a nudo la loro ipocrisia.
A tutti quelli che mangiano gli animali piace illudersi di essere comunque rispettosi di quegli stessi animali. Vittime di una dissociazione cognitiva che da una parte glieli fa mangiare senza accusare il minimo senso di colpa (o, se ce l'hanno, è presto rimosso) mentre dall'altra li fa indignare se qualcuno prende quello stesso corpicino - che pure loro stessi hanno guarnito con rosmarino e infilato nel forno - e ci scatta una foto oltraggiosa. Domandiamoci però quale sia il vero oltraggio, oltre l'apparenza.
Tornando all'incipit di questo mio scritto: ha senso chiedere il licenziamento di quelle due donne?
Serve davvero agli animali, cioè a inceppare in qualche modo il meccanismo della violenza legalizzata che avviene al riparo da occhi indiscreti in luoghi quali mattatoi, laboratori per la vivisezione, allevamenti ecc.? O serve a noi vegani perché così ci siamo sfogati un po' contro due poveracce (poveracce di spirito, cioè due persone stupide, miserevoli).
Io penso che il licenziamento sia una misura welfarista e porti vantaggio solo all'azienda Carrefour che così potrebbe vantarsi di "trattare con rispetto" gli animali (che vende un tanto al kg.!). Una misura del tutto ipocrita che sposta e ridimensiona il nocciolo della questione.
Non solo: offriremmo ai detrattori della causa animale un bel motivo per ribadire i loro pregiudizi (o la loro malafede), ossia che noi animalisti saremmo più interessati alle sorti degli animali non umani e che saremmo anti-umani. Specialmente in tempi di crisi del lavoro come questi.
Cosa cambierebbe se quelle due donne perdessero il lavoro? Sarebbe un vantaggio per gli animali che comunque continueranno a essere venduti e uccisi in quel supermercato?
La misura non proverebbe nemmeno un cambiamento in corso di mutata sensibilità perché, come ho spiegato sopra, se quello stesso corpicino fosse stato esposto sul bancone nessuno dei carnisti avrebbe trovato da ridire.
Dobbiamo smetterla di sentirci offesi e urtati noi vegani. I soggetti in gioco in questa battaglia, in questa guerra, non siamo noi, ma gli animali non umani. Il meccanismo è lo stesso di quando ci domandano se ci offende che qualcuno a tavola con noi mangi carne. Offende noi? Siamo noi le vittime in quel piatto? Sono nostri quei corpi fatti a pezzi?
Certo, si offendono le nostre idee, ma le nostre idee devono o non devono essere al servizio degli animali che tanto ci auto-compiacciamo di difendere?
L'unico offeso, in questa vicenda, è stato l'agnellino. Ma l'agnellino è stato offeso nel momento in cui è stato fatto nascere per diventare merce. Il dileggio è lì, in questa idea, in questa pratica, nello specismo.
È questa società tutta che ci offende e ci prende continuamente per il culo trattandoci come consumatori pronti a bersi qualsiasi cazzata welfarista e ipocrita; è questa società tutta che ci offende perché il sistema in cui viviamo è totalmente privo di un fine etico ed è tutto volto alla mercificazione del vivente - in vari gradi - per ottenere il profitto.
Chiedere il licenziamento di quelle due donne è ipocrita, è uno sviare l'attenzione dalla vera posta in gioco. Si tratterebbe di una richiesta welfarista, cioè la stessa di chi chiede che gli animali siano trattati meglio senza metterne in discussione lo sfruttamento e l'uccisione.
Ringrazio la mia amica Francesca Giannone per gli spunti e per lo scambio su questa vicenda. Giustamente ha detto: "a volte sembra che si perda di vista il fine della nostra battaglia".
Ecco, lottiamo per fare in modo che non si vendano più pezzi di animali morti al supermercato, anzi, per fare in modo che non esistano più i supermercati, e non per far licenziare due mentecatte che hanno solo messo a nudo la violenza istituzionalizzata e legittimata di cui l'intera nostra società è intrisa.