Migliaia di animali, anzi miliardi, per essere precisi 1200 al secondo, vengono uccisi nei mattatoi per essere poi venduti nei supermercati, acquistati un tanto al kg e mangiati.
I consumatori comprano ignari, nessuno si appassiona alle loro storie, nessuno sa chi era quell’individuo che ora giace fatto a pezzi nelle vaschette di polistirolo del supermercato, nessuno sa il suo nome perché un nome non l’ha mai avuto, solo un numero identificativo sulla targhetta e poi un codice a barre attribuito alle varie parti del suo corpo dopo che è stato smembrato.
E poi ogni tanto accade che il racconto di una singola esistenza esca, per così dire, allo scoperto: dall’anonimato degli allevamenti e mattatoi agli onori della cronaca, magari perché fuggita da un allevamento o “graziata” dall’allevatore per aver compiuto qualche gesto “straordinario”; il mondo intero si commuove e chiede che la sua vita venga risparmiata.
La storia di Okja racconta un caso come questo.
Se fosse così sarebbe un film buonista. Una favola a lieto fine, magari come Babe maialino coraggioso. Invece la storia di Okja si spinge oltre e la sua parabola - per quanto leggera e scanzonata -, diventa un racconto critico sullo sfruttamento degli animali e la sua forza sta proprio nel riuscire a veicolare tantissimi messaggi senza risultare ideologica o pedante.
A un pubblico poco avvezzo al cinema coreano forse potrà sembrare fin troppo didascalico perché abbiamo a che fare con una poetica e un’estetica distante dai canoni del linguaggio hollywoodiano. Il punto di forza della narrazione è puramente visivo ed è da ricercarsi più nella delicatezza di alcune scene che non a livello di articolazione della sceneggiatura. È l’attenzione per i particolari a fare la differenza: ad esempio la differenza tra quello che avviene subito dopo il prologo, quando Okja e Mija sono nel laghetto sulle montagne e quello che avviene invece nella scena finale: prima Mija si porta appresso un retino per pesci, dopo un cestino per raccogliere le castagne. Qualcosa è avvenuto nel frattempo, Okja e il nonno sono cambiati. In un film americano di cassetta sarebbe stato enunciato attraverso un dialogo o una scena esplicita, qui invece la narrazione è affidata a pochi elementi.
I dialoghi sono scarni, eppure Okja è un film dichiaratamente animalista, sulla liberazione animale, sulle tante menzogne raccontate dall’industria della carne e dei derivati e sull’ignoranza del consumatore che alla fine comprerà comunque quello che il mercato gli propinerà, purché sia a basso costo. Ed è nell’apparente semplicità con cui si fa capire il funzionamento del mercato nella sua spasmodica ricerca del minor investimento per il massimo profitto (e negli spudorati meccanismi pubblicitari che fanno leva sulle emozioni dei consumatori) che sta il suo maggior punto di forza.
Si parla esplicitamente degli ALF (Animal Liberation Front) con immagini di repertorio degli anni ottanta/novanta. Se ne parla in maniera ironica - e anche un po’ farsesca, ma tutto il film è così -, senza mitizzazione alcuna (oggi sicuramente la storia del movimento è andata avanti, ma alcuni aneddoti del manifesto dell’epoca sono veri), mostrandoli per quello che sono: persone che non mirano soltanto a salvare gli animali, ma che hanno come obiettivo quello di raccontare a tutti la verità - oltre le menzogne della carne felice e degli allevamenti compassionevoli - e di fare il possibile - in maniera non violenta (concetto che viene ribadito più volte) - per mettere in crisi l’economia basata sullo sfruttamento e mercificazione degli animali.
Non c’è un lieto fine perché fino a che continueranno a esistere i mattatoi non ci potrà essere un lieto fine. Quello che accade è un falso lieto fine. Però c’è una speranza. La speranza che sempre più persone, conoscendo davvero quando accade dentro allevamenti e mattatoi possano rendersi conto dell’immensa ingiustizia di condannare altri individui senzienti a un orrore senza fine.
Una nota positiva di cui dovremmo rallegrarci: su Instagram, Mercy For Animals ha postato una grafica di come le ricerche su google per "going vegan" e "how to go vegan" si siano impennate dopo l'uscita del film.
Okja non sarà un saggio sull’antispecismo, ma sicuramente riuscirà a raggiungere migliaia di ragazzini e adolescenti che si appassioneranno alla storia del simpatico maiale e, soprattutto, al destino di tutti i suoi simili che non sono stati salvati.
La commozione è assicurata, ci scappa pure qualche risata, ma il film non assolve nessuno e qui sta la sua serietà e sincerità.
Okja, scritto e diretto da Bong Joon-ho, lo trovate su Netflix.
4 commenti:
Bellissima e chiarissima rece, Rita. Complimenti! Hai colto dettagli che io ho perso (il retino delle castagne?), un modo tutto orientale, dle dire senza dire. Per sottrazione. Che sensibilità notarlo!
Sì, son sicuro che Okja sarà visto da milioni di ragazzini, è il film prototipo - secondo me - del film efficace per raccontare nuovi messaggi, quelli che ci stanno tanto a cuore
Grazie Giovanni, anche la tua recensione è molto bella.
Sì, il particolare delle castagne è molto significativo, così come, sempre nell'ultima scena, nonno e nipotina seduti al tavolo da cui si intravede il piatto di vegetali e non più la zuppa di pesce come nella prima scena.
Se tutti fossero cannibali come me, lo sfruttamento degli animali sarebbe sicuramente ridotto. ahahah :D
Cavolate a parte, gran film. Nonostante il tocco orientale del regista, non l'ho trovato poi così distante da Hollywood, o se non altro dalla miglior Hollywood.
Un po' di sano cannibalismo, in effetti, ci vorrebbe per ridurre la popolazione mondiale. :-D
Sì, bel film comunque, lieta che ti sia piaciuto, io sono un po' di parte. ;-)
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