Disturba chiamare le cose con il loro vero nome: "pezzi di animali morti" anziché "carne", "i pesci", anziché il più generico "pesce".
Disturba e imbarazza persino noi attivisti perché temiamo il giudizio sociale, l'accusa di estremismo, l'esclusione dal gruppo di appartenenza.
Eppure son proprie le parole a distanziare più o meno dalla realtà o, al contrario, a renderla visibile, oltre il tendaggio pesante della sua mistificazione.
A me, per dire, dà fastidio "carne". Che vuol dire "carne"?
Non esprime individualità, né vita, né morte. Solo un termine asettico per indicare un prodotto di un certo tipo.
Ma del resto gli animali uccisi non sono mai stati individui. Sono stati messi al mondo, concepiti già e solo per diventare prodotti.
Ciò che costituisce un'aberrazione massima, per i più è normalità. Come si può scalfire questa normalità, renderla imbarazzante, ingombrante, fastidiosa? Con gli atti, con le testimonianze, e anche con le parole.
A noi è richiesto uno sforzo immane, continuo: quello di non perdere mai di vista le vittime per cui stiamo combattendo, di prestare massima attenzione ai termini, ai modi di dire, ai pregiudizi, al nostro agire.
Non possiamo sbagliare perché non si tratta di un gioco, ma della vita di migliaia di individui.
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