(Immagine presa dal web)
Vi voglio raccontare qualcosa sulla corsa: di come sono arrivata a correre per un’ora e mezza di fila, a un buon ritmo, senza stramazzare al suolo e anzi, sentendo di poter fare anche di più, volendo.
Ma, soprattutto, vi voglio raccontare di cosa sia in realtà la corsa, del perché in tutto il mondo ci siano migliaia di persone che non rinunciano a uscire nemmeno con la pioggia, il freddo o il caldo che toglie il respiro.
Non dirò certo cose nuove, ci sono tantissimi libri sul tema, alcuni anche di scrittori famosi come quello di Murakami (L’arte di correre) in cui fa un’analogia tra l’impegno nello scrivere e nel correre. Due attività apparentemente distanti, ma che in realtà hanno diversi punti in comuni.
Il fatto è che la corsa come metafora del vivere non è un discorso nuovo, così come la scalata in montagna, il trekking o altri sport: ci sono discipline che richiedono impegno, costanza e volontà più di altre (ma non solo, non sono infatti esenti da aspetti più tecnici) quello che però forse non è abbastanza chiaro è il perché alcune discipline si prestino a diventare altro e cosa si può imparare da esse.
Ho iniziato a correre la scorsa estate. L’ultima volta lo avevo fatto nel 1999. Caspita, un sacco di anni prima, quando ero più giovane e abituata a fare sport con regolarità.
Comunque non ho iniziato proprio da zero in quanto da circa un annetto avevo preso a camminare con regolarità, anche per due ore. Durante l’inverno mi ero aiutata con il tapis- roulant (magnetico e non elettrico), mettendolo leggermente in salita e cercando di aumentare gradualmente la resistenza. Poi a un certo punto ho sentito che camminare non era più abbastanza, come se il mio corpo fremesse per sollevare i piedi da terra. Non è una sensazione facile da spiegare, ma so essere abbastanza comune in chi cammina con regolarità. Sul tappeto magnetico però correre è molto difficile (e anche dannoso per la schiena), per cui, dopo averci provato qualche volta, con risultati buoni dal punto di vista dell’allenamento, ma frustranti per la mente e per il corpo, alla fine mi sono decisa ad uscire.
Era giugno. Faceva già molto caldo. La prima volta ho corso per circa 40 minuti. Il fiato ce l’avevo, le gambe… quella prima volta pure, ma già verso la fine avevo iniziato a sentire i muscoli contratti.
Il giorno dopo – ma direi già dalla fine della sessione stessa – non camminavo dai dolori. Acido lattico, muscoli rigidi. Decisamente avevo esagerato, come prima volta. Il giorno dopo però, con testardaggine – e anche molta improvvisazione sul tema – sono uscita di nuovo. E così quello dopo ancora. Dopo quattro o cinque giorni ho scoperto l’esistenza di muscoli mai avvertiti prima. La cosa strana è che ogni volta c’era un dolore nuovo. Ho avuto una contrattura al femorale posteriore per dieci giorni e ci ho corso sopra. Poi contratture in svariati altri punti, ma io, imperterrita, ho ignorato il dolore e sono andata avanti. O meglio, ho resistito al dolore. Allo sconforto di sentire il mio corpo come se fosse scollegato dalla mia mente (ricordatevi questo punto). Io volevo correre, lo sognavo anche di notte (la cosa curiosa? Sono anni che sogno di correre. Letteralmente), la mia mente si predisponeva a farlo, ma il mio corpo non la seguiva, non riusciva a stargli dietro. Dev’essere così che a un certo punto ci si accorge di invecchiare. Quando vuoi fare cose, ma non ci riesci più. Ma dev’essere anche così che si scoprono le potenzialità della volontà, del desiderio, della spinta a volersi superare. Volontà e desideri che spingono il tuo corpo al limite e che nel farlo, passo dopo passo, lo modificano, lo sollecitano, lo ri-svegliano, fino a fartene riappropriare.
Non sto dicendo che non ho sentito più il peso dei miei anni, ma che spesso questi sono limiti, in parte, superabili. Con tanta pazienza, tenacia, testardaggine. E, nel mio caso, un pizzico di irresponsabilità.
Ora, dovete sapere che nelle mie prime settimane di allenamento ho fatto quanto di più sbagliato si possa fare nella corsa: correre sul dolore intendo. Specialmente se si è principianti. Senza alternare giorni di riposo a quelli di uscita (in gergo si chiamano carico e scarico: eh sì, poi a un certo punto mi sono messa a studiare cercando informazioni in rete e non solo). Mi è andata bene che non mi sono fatta male veramente. Il rischio di infortuni in questi casi è alto.
Anzi, proprio liscia non è andata.
Dopo circa due settimane di allenamento quotidiano in quelle condizioni di muscoli contratti e doloretti sparsi qua e là, ho iniziato a sentire qualcosa che non andava alle caviglie. Dolori strani, come di tendini e legamenti infiammati, ma, come sopra, ho continuato a correrci sopra. Finché una mattina mi sono alzata, ho messo i piedi giù dal letto e ho realizzato che il dolore era aumentato a tal punto da non permettermi nemmeno di camminare decentemente. Figuriamoci correre. È a questo punto che ho iniziato a documentarmi per capire cosa mi fosse successo. La prima cosa di cui ho dovuto prendere atto è che avevo esagerato. Non si comincia a correre così. Che poi è il tipico errore che fanno tutti i principianti e anche uno dei motivi principali per cui molti mollano e si convincono che la corsa non faccia per loro.
Ho dovuto fermarmi, con il morale sprofondato. Per una decina di giorni circa.
Nel frattempo, fastidiosissime e indisponenti vocine non facevano che sussurrarmi: sei troppo vecchia per correre! Hey, ma cosa ti credevi, mica hai più vent’anni! Amica mia, dammi retta, lascia perdere, non è cosa per te! No, ma dico, sei diventata matta? Già la vita è abbastanza dura e vai pure a cercarti guai? Sai cosa significa vero infortunarti, rischiare interventi, fisioterapia, stampelle, gessi, barelle?!
Insomma, nella mia prolifica mente si susseguivano scene di ogni tipo. Complici anche tanti racconti di infortuni trovati su forum a tema (dove peraltro ognuno dice la sua e spesso tutto è il contrario di tutto. Ma questo lo impari a dopo: a capire che ogni esperienza è personale, così come il corpo, la resistenza alla fatica, i recuperi e tutto).
Insomma, mi immaginavo sulla sedia a rotelle per il resto della vita. In alternativa: stroncata da un attacco di cuore improvviso.
Io, che avevo voluto sfidare il tempo e lanciare il mio corpo in un’impresa esagerata - insomma, manco avessi voluto correre la maratona di New York! - ma ancora una volta la mia mente stava andando per conto suo (lei sì che potrebbe correre anche le supermaratone!). Io, affetta da una hybris esagerata, punita dagli Dei della corsa e rimessa al posto suo.
Lo confesso. In quei dieci giorni ho pensato seriamente di mollare. Inoltre, sembravo ossessionata. Non pensavo ad altro. Cosa faccio? Continuo o non continuo? Un attimo la cosa mi sembrava fattibile, quello dopo, il doloretto che si faceva sentire mi scoraggiava di nuovo.
Però. Tra le tante vocine maligne e dispettose ce n’era anche un’altra che, pian pianino, discretamente, senza cercare di sovrastare troppo le altre, non aveva smesso un attimo di dirmi: cosa, vuoi mollare? Per così poco?
Sii razionale. Analizziamo quanto successo con lucidità. Lo sai bene cosa è successo: hai voluto strafare. Ma questo non significa che tu non possa riprovarci – con cautela, questa volta, senza esagerare con gli allenamenti – e poi anche le scarpe… non sono quelle giuste (per inciso: non esiste una scarpa giusta e una sbagliata in assoluto: ogni piede ha la sua e la troverà… strada facendo. Come la scarpetta di Cenerentola)! Ma insomma, vuoi mollare così e non provare mai più quella sensazione inebriante di quando, proprio una delle ultime volte, dopo aver rotto il fiato, trovato l’andatura giusta e il fisico ha inizia a produrre le endorfine, hai finalmente visto gli elefanti rosa? Elefanti rosa, insomma, si fa per dire, però il sentire cambia, la percezione si modifica e ti sembra che le cose attorno siano, come? Più belle? Diverse. Più vive. O forse sei semplicemente tu. Ad esser più vivo.
Insomma, tentenna di qua e tentenna di là, alla fine ci ho riprovato. Con un altro paio di scarpe. Dopo aver letto migliaia di recensioni su internet. Per poi scoprire quanto detto sopra, ossia che ogni piede deve trovare il suo tipo di scarpa adatto in base al tipo di appoggio, punti deboli del corpo, tipo di terreno e di allenamento, obiettivi ecc..
Le mie le ho trovate, ma non quella volta lì quando ho deciso di riprovarci. Quella dopo ancora.
Eh sì, perché in tutti questi mesi, l’incidente delle caviglie doloranti, non è stato l’unico ostacolo che ho dovuto superare.
Intanto, sempre loro, le caviglie, mi si sono infiammate un’altra volta ancora. Poi ho avuto una leggera tendinite. E sempre per la storia di non riuscire a mediare tra la voglia mentale di fare e quella del mio corpo di stargli dietro. Mi sono fermata e ho ricominciato almeno altre tre o quattro volte.
Ero ancora disconnessa.
Poi a metà settembre son partita per Londra. Scarpe in valigia e ricerca su internet dei parchi o percorsi vicino all’albergo. Ma, per un motivo o l’altro – soprattutto la sensazione di non avere ancora le caviglie a posto – non ho mai corso. Camminato molto, sì. Corso, solo con la mente. Oh, con la mente mi son fatta tutti i parchi di Londra. Un po’ invidiando quelli che correvano davvero. Ma solo un po’. Mi sono comunque sentita una di loro.
Perché non si corre solo sul terreno, ma ci si prepara anche con il pensiero. Anche stando fermi. E a volte stare fermi è la cosa migliore che si possa fare.
I primi di ottobre, tornata a Roma, ho ripreso a uscire.
E questa volta ho sentito che c’era qualcosa di nuovo e di diverso.
Avete presente quelle immagini che si chiamano stereogrammi? Le fissi per minuti interi senza vedere nulla e poi all’improvviso ci sei dentro.
Ecco.
Io adesso c’ero dentro. Finora ci ero solo passata vicino. Avevo, per così dire, preso le misure. Fatto la mia gavetta da brava principiante, commettendo molti errori, ma anche imparando molto.
La cosa più bella di tutte è sentirsi di nuovo connessi con il corpo e capire che non c’è cosa più falsa della separazione tra corpo e mente.
Quando sono separati, ossia li percepiamo tali, è perché non stiamo bene.
E poi da lì in poi sono successe un sacco di altre cose.
Il discorso degli stereogrammi di cui sopra, si è verificato pure riguardo la storia dell’azione che segue il pensiero o viceversa.
Essendo una persona incline alla speculazione… ma che vuol dire, poi? Scusate, è una frase fatta e ora vi spiego perché. Ricominciamo. Essendo una persona che pensava che ci fossero persone più inclini alla speculazione e altre più inclini all'azione, a un certo punto ho fatto una scoperta.
Dell’acqua calda, direte voi. Eh beh, forse sì, ma era nuova per me.
Ho scoperto che così come non esiste separazione tra corpo e mente, non esiste nemmeno quella tra pensiero e azione.
Correre mi ha insegnato a resistere. Ad affrontare le salite senza temerle, passo dopo passo, col fiato spesso corto, ma che migliora di volta in volta.
Mi ha fatto capire che quando il mio corpo manda un segnale, devo ascoltarlo. A fermarmi senza sentirmi frustrata. E restare in ascolto. A sentirmi.
Mi ha fatto capire che i consigli di chi ha più esperienza bisogna seguirli e che possiamo ispirarci, prendere esempio, fare da esempio, anche, ma che, alla fine, ognuno rimane col proprio percorso ed è gettando un occhio a questo, voltandosi indietro e osservando la strada fatta, che si può imparare di più; mi ha fatto capire che, battuta dopo battuta, le orme lasciate dal mio piede sul terreno sono diverse da quelle di ogni altro.
Non si corre contro gli altri. Né contro sé stessi. Si corre con sé stessi.
Chi va piano va sano e va lontano, dice il proverbio.
E ci si va, lontani, ci si va, mettendo in conto stop vari, ma anche qualche accelerata quando serve.
“Forza, non mollare!”, mi ha detto un giorno un vecchietto. Uno di quelli che incrocio sempre al parco, a prendere il sole con i suoi cani.
“Non mollo!”, gli ho risposto. E in quel momento, senza volerlo, mi sono scese delle lacrime. Perché era un momento difficile, nella mia vita. Difficile e pesante. Ma ce la stavo facendo. Uscita dopo uscita. Passo dopo passo. Salita dopo salita.
E poi a un certo punto ho realizzato che finalmente stavo volando. I piedi che battono il terreno e ci si sente leggeri, leggeri, leggeri come se, appunto, ci potesse alzare in volo da un momento all’altro. Proprio come avevo sempre sentito nei miei sogni.