martedì 31 gennaio 2017

Resoconto del 26° presidio NOmattatoio Roma

Nonostante fosse un giorno lavorativo c'è stata una partecipazione di circa venti persone. Venti persone venute appositamente per testimoniare, con i loro corpi e con i cartelli, l'orrore sistematico che è in atto a poche centinaia di metri dal luogo del presidio. 
Abbiamo visto passare due camion, entrambi a due piani, uno contenente pecore e l'altro mucche. Siamo riusciti a filmarne solo uno, quello delle mucche. Ci guardavano con quei loro grandi occhi dolci ed espressivi, segnati dalla paura. Ansimavano, il fiato corto, la bava alla bocca, in preda a panico e angoscia. 
Mi sono vergognata. Ci siamo tutti vergognati perché sappiamo che non possiamo fare altro che documentare questo loro breve passaggio verso la morte. Una morte iniqua, ingiusta, non necessaria. 
Mi sono posizionata con un cartello davanti al camion. Gli autisti hanno abbassato lo sguardo. Mi piace sperare che si siano vergognati anche loro.

Il primo passo di ogni lotta è quello di raccontare a tutti l'ingiustizia, mostrare ciò che subiscono le vittime, dimostrare che un'altra strada è possibile.
La nostra presenza in strada, costante, ogni mese, è questo che dice. 

Qui per guardare il video. 




mercoledì 25 gennaio 2017

Chi è il malato?

Sei vegana? 

Sì…

Io celiaca! (il tutto detto strizzando l’occhio, come a voler segnalare una sorta di complicità sul piano alimentare).

Ehmmm, si tratta di due condizioni completamente differenti. Tu hai un’allergia. Io non mangio gli animali per una questione di giustizia e rispetto e come presa di posizione contro il loro sfruttamento. E lo so che nei supermercati mettono i prodotti vegani insieme a quelli bio e senza glutine per celiaci, ma noi non siamo malati, è la società ad esserlo. 

lunedì 23 gennaio 2017

Dialoghi tra animali - settima parte




Ma ‘sti cazzi della salute, tanto dobbiamo tutti morire, io mangio quello che voglio. Un po’ di carne ogni tanto poi non fa male per niente. Mio nonno ha mangiato fiorentine fino a ottant’anni e non ha mai avuto un problema serio di salute. E poi questa fissazione con il cibo, niente glutine, tutto bio, solo vegetale, ma che stiamo diventando mammolette? 

No, no, siamo sempre i soliti sbruffoni di sempre che cercano di sentirsi forti prendendosela con i più deboli. 

Prego?

Seriamente? 

Seriamente.

Il cibo non c’entra niente. Il veganismo non è una questione di dieta. Il veganismo riguarda la questione animale. 
Lo so, lo so, tutto viene confuso perché oggi si parla della parte culinaria e perché improvvisamente è apparso questo nuovo termine nelle nostre vite e tutti si sono messi a fare aperitivi vegani, a vendere latte vegetale e via dicendo. Per cui sembra solo una delle tante tendenze dietetiche modaiole. Ti ricordi la dieta a punti della Weight Watchers che andava negli anni ’80? E poi la Dukan di qualche annetto fa? Ecco, ora c’è la dieta vegan, che, detta così, messa in mezzo alle tante proposte sugli scaffali dei supermercati e dei ristoranti, sembra appunto una maniera alternativa di mangiare seguita per lo più da chi vuole stare leggero, mangiare con pochi grassi o vuole essere di tendenza. 
Ma questa è solo la maniera in cui il mercato ha digerito e risputato il veganismo. Hai presente cosa è successo ai movimenti della controcultura del ’68? Alla fine, tranne la parentesi violenta delle Brigate Rosse, tutto si è risolto in un fatto di costume. Musica, moda, libri. Una maniera alternativa di vivere senza cambiare radicalmente la società. Sì, alcune cose sono cambiate. Le condizioni dei lavoratori e delle donne sono migliorate. Ma il problema dei diritti è che così come sono stati concessi si possono anche togliere. E infatti guarda adesso che fine ha fatto il mondo del lavoro. Negli anni novanta avresti potuto ritenere possibile che qualcuno proponesse a qualcun altro di lavorare per 4 euro all’ora (insomma, per l’equivalente di oggi di 4 euro)?

Hmmm, no, non credo, c’erano i sindacati e le leggi che garantivano il rispetto del minimo salariale.

E oggi invece succede, nessuno se ne stupisce e chi ha bisogno accetta.
E tutto ciò non è avvenuto dal giorno alla notte, altrimenti si sarebbe fatto casino, si sarebbe tutti scesi nelle piazze a protestare. Tutto ciò è successo con il sistema della rana bollita di cui parla Chomsky. In pratica il filosofo usa questa metafora per rappresentare la sottrazione graduale di tutta una serie di diritti che si danno per scontati fino ad arrivare al punto in cui ci troviamo fregati senza che abbiamo avuto il tempo di rendercene conto perché ci hanno abituato pian piano a tutta una nuova serie di cose. 

Sì, è vero. Abbiamo cominciato con i vari contratti a termine senza ferie e malattie e siamo arrivati nuovamente al licenziamento immotivato.

Prendi poi la questione femminile. Di fatto oggi nessuno oserebbe dichiararsi maschilista. A parole son tutti lì a dire che rispettano le donne. Ma nei fatti? Nei fatti il maschilismo è nel linguaggio, nel lavoro (come mai le segretarie sono sempre donne? Una mia amica si è trovata per due volte a collaborare con un gruppo di artisti per la realizzazione di un corto, unica donna in un gruppo di maschi e per due volte le hanno proposto il ruolo di segretaria di produzione. Perché? Perché è donna. Anche se artisticamente ha studiato come gli altri per diventare regista e anzi, ha anche già girato un documentario). 
Per non parlare della misoginia, del femminicidio e varie forme di violenza sulle donne che sono all’ordine del giorno, anche se a parole tutti sono antisessisti e antimaschilisti. Purtroppo non basta dichiararsi in un modo per diventarlo, bisogna invero lavorare sodo su se stessi per essere sicuri che non si pensi e non ci si comporti secondo pregiudizi culturali ed esercitando forme di discriminazione. Ultimamente ad esempio si è parlato molto dell’esistenza di gruppi chiusi su Facebook in cui gli iscritti, dopo aver postato foto di donne sottratte dai profili personali, incitano allo stupro virtuale, a commenti sessisti, a battute sessuali… ho letto cose che veramente mi hanno preoccupata perché non pensavo che ci fosse così tanto odio e ignoranza. Ecco, eppure quando si parla di questi argomenti quasi tutti ti dicono che il femminismo non ha più senso perché abbiamo raggiunto la parità dei diritti. 
E così è per la questione animale. Oggi nessuno che si ritiene una persona civile direbbe di essere a favore del maltrattamento animale, eppure tutti, nel proprio vivere quotidiano, mangiano animali e prodotti del loro sfruttamento, comprano cani nei negozi come fossero oggetti e si girano dall’altra parte se vedono un gatto investito agonizzante in mezzo alla strada e anzi, magari ci passano pure sopra per sfregio oppure evitano, ma solo perché gli si sporca la carrozzeria. 
Tutto questo avviene per due motivi: sicuramente quello principale è che siamo tutti vittime della cultura in cui siamo nati e cresciuti che ci ha trasmesso una certa idea degli altri animali e delle donne e fatto credere che fosse normale, naturale e necessario mangiare i primi e sessualizzare le seconde (ossia ridurle a meri oggetti sessuali o comunque considerarle adatte a svolgere e occupare solo determinati ruoli), ma c'è anche un discorso di potere e oppressione. Lo facciamo perché possiamo farlo - sostenuti dai numeri della maggioranza, dal finto valore della tradizione, dalla legge che garantisce sempre il mantenimento dei privilegi della classe o gruppo dominante e quindi dello status quo. 
L’errore, anzi, l'orrore nasce e prospera anche grazie al linguaggio, a partire dal linguaggio. L’errore/orrore è il politically correct, la neutralizzazione semantica, il linguaggio che plasma l’idea che abbiamo del mondo. 
Si pensa appunto che basti dichiararsi femministe per esserlo, che basti dichiararsi amante degli animali per esserlo, che basti dichiararsi pacifisti per invadere e depredare un paese senza sentirsi guerrafondai. 
Lo scollamento tra linguaggio e realtà è un problema. Così come tra virtuale e reale. Si pensa che i social siano una sorta di far west in cui poter scrivere impunemente di tutto senza assumersene la responsabilità. Mi viene in mente la bellissima serie Westworld, non so se l’hai vista, parla della creazione di un parco in cui umani molto ricchi possono fare qualsiasi cosa – cose come esprimere tutti i loro istinti più bassi – agli androidi che lo abitano. Sostenuti dal sollievo di non doversi assumersi responsabilità etiche perché, tanto, son soltanto androidi... 
Per questo ritengo che l’unica maniera per colmare il divario sia la concretezza dell’agire. I corpi. Dobbiamo tornare ad usare i corpi. I corpi sono l’unica risorsa che abbiamo per opporci alla fatuità del linguaggio e alla schizofrenia della dissociazione cognitiva che esso produce nel reale; un linguaggio che è sempre il linguaggio dell’oppressione.

Solo i loro corpi. Forse è di questi corpi che non dovremmo mai smettere di parlare. Documentandoli, fotografandoli, mostrandone l’abuso e il dominio che subiscono.
Sì, mi direte che ancora una volta non li stiamo lasciando in pace, questi altri animali, che forse vorrebbero morire senza essere fotografati, guardati, ripresi con telecamere. Eppure i lager nazisti sono stati sconfitti anche mostrando quelle atroci immagini di animali umani privati della loro libertà e così le battaglie contro la schiavitù hanno avuto bisogno di documenti, di immagini. 
La storia si fa con i documenti.
Ecco, non smettiamo mai di documentare. A fronte di qualsiasi discorso, di qualsiasi scontro, anche quando andiamo in tv, per favore, andiamo con i video, con le immagini e imponiamo i nostri montaggi, i nostri commenti.  Le immagini contano più delle parole. E queste immagini devono rappresentare i loro corpi. Di cui i nostri sono solo al servizio, come mezzo.
Per abbattere ogni stereotipo verbale. Perché il primo passo di ogni tipo di lotta è sempre questo: raccontare a tutti quanto sta accadendo, far conoscere, denunciare, divulgare, mostrare, narrare. 

Continua. 

Immagine di Andrea Festa.

martedì 17 gennaio 2017

25 grammi di felicità di Massimo Vacchetta con Antonella Tomaselli


Le persone non cambiano, si rivelano.
(David Lynch - Inland Empire)


Non ricordo dove, ma devo averne intravisto da qualche parte la copertina ed essendo un libro che parla di animali - di ricci, per la precisione (ma non solo!) -, non poteva non catturare la mia attenzione. Poi giorni fa la recensione entusiasta dell'amico Giovanni e così non mi è rimasto che correre in libreria a prenderlo (peraltro giusto in tempo, ne era rimasta solo una copia).

"Quella riccetta spettinata è capitata tra i miei piedi che vagavano in cerca di una direzione tre anni fa. Era il momento giusto, perché penso che una strada la persegui e la consideri solo se sei pronto. Ninna ha attivato talmente tanti cambiamenti che mi sembra siano intercorsi dei secoli da quel mese di maggio a ora. Prima di tutto sono cambiato io. No, a pensarci bene non è proprio così: più che cambiato, mi sono ritrovato. Ho ritrovato quella parte di me che se ne stava lì repressa e ben nascosta. Che aspettava Ninna a farla esplodere".

Massimo Vacchetta è un veterinario che si occupa(va) di bovini (nomen omen? Vedremo...), per la precisione di far nascere i vitelli. Questa è un'informazione che viene data nella quarta di copertina e di cui si parla in maniera aneddotica in uno dei primi capitolo del libro. Quando parliamo di bovini inevitabilmente parliamo di animali che vengono al mondo per diventare prodotti da vendersi a pezzi sui banchi del supermercato e questa, per me che sono una lettrice attenta, ma anche un'attivista per i diritti animali, suonava come una nota stonata. Molto stonata. Talmente stonata che mi era venuta voglia di abbandonare la lettura. Però le prime pagine in cui si racconta dell'incontro con la piccola Ninna avevano anche rivelato una sensibilità fuori dall'ordinario e quindi mi son detta: chissà, andiamo avanti, magari più in là si chiariranno i miei dubbi su come si possano dedicare tante energie e cure per salvare alcune animaletti e continuare a svolgere un lavoro che ne manda al macello altri. 

Non mi sbagliavo. Il brano che ho riportato sopra ne è la conferma. Io non so con certezza se Massimo Vacchetta abbia del tutto abbandondato il suo lavoro con gli allevamenti, ma penso proprio di sì perché poi, quasi alla fine del libro, dice che dedica ogni momento del suo tempo ed energia ad occuparsi del Centro di Recupero Ricci La Ninna (la realizzazione del suo sogno nato dopo l'incontro con la riccetta) e poi per ben due volte parla di cibo vegano, lasciando intendere che abbia fatto questa scelta consapevole di rispetto per gli animali. 
Ora, sia chiaro, un libro e una bella storia si possono gustare e possono restar tali anche senza che si condividano le scelte dell'autore, però in questo caso non parliamo di un libro di finzione, ma di una storia vera che appunto parla di animali, di rispetto della loro individualità, di empatia, di amore, del loro essere creature indifese quasi sempre esposte alla crudeltà o indifferenza (nel migliore dei casi) della nostra specie e quindi il fatto che nello stesso testo l'autore parlasse di allevamenti e bovini risultava proprio come evidente dissociazione cognitiva. Da qui il mio fastidio iniziale nel proseguire. 
Ma veniamo alla storia di Ninna, del Centro di Recupero e degli altri ospiti di cui si racconta in 25 grammi di felicità.
Il libro è stato scritto da Antonella Tomaselli, man mano che Massimo Vacchetta si confidava e le raccontava tutti i suoi dubbi, le sue paure, le difficoltà, ma anche i momenti di immensa soddisfazione dal giorno dell'incontro con Ninna, questa piccola riccetta che pesava solo 25 grammi e che dietro le sue cure scrupolose è riuscita a sopravvivere. 
Nelle pagine di 25 grammi di felicità si narra dell'attaccamento e l'affetto per Ninna e degli altri riccetti che la seguiranno - così come della difficoltà nel compiere la scelta dolorosa, ma necessaria, di rimetterla in natura - ed è pieno di aneddoti toccanti e a volte strazianti - come quello di Salvo, che non ce l'ha fatta, o della piccola Carolina e sua madre - ma soprattutto è la testimonianza di un cambiamento, o forse, per usare le parole dello stesso Massimo, dovremmo dire di un ritrovamento. 
"Le persone non cambiano, si rivelano", fa dire il regista David Lynch alla protagonista del suo film Inland Empire, e infatti Massimo si mette a nudo senza filtri e senza remore, ammettendo di aver fatto l'abitudine, nel tempo, al dolore degli animali e di sentirsi in crisi esistenziale. Una di quelle crisi che arrivano quando si avverte di essersi allontanati da sé stessi, di aver fatto delle scelte che non corrispondono in pieno al nostro io più profondo. Così che rimettersi in gioco, scombinare le carte, più che a un cambiamento, equivale a un ricongiungimento con quella parte di sé da cui ci eravamo allontanati. In fondo chi sceglie la professione di veterinario lo fa - o almeno così dovrebbe essere - perché ama gli animali e vorrebbe aiutarli, ma il percorso di formazione che si intraprende per svolgere questa professione è pur sempre il frutto di una società specista e antropocentrica in cui gli animali vengono suddivisi in animali d'affezione e animali da reddito e in cui più che al loro benessere si pensa all'igiene e al mantenere al sicuro gli umani da eventuali malattie. Chi si occupa di diritti animali conosce bene le tante contraddizioni celate dietro l'etichetta "benessere animale" per quanto riguarda quegli individui costretti a nascere per diventare bistecche - anche detti, banalmente, animali da reddito (la solita banalità del male che incontriamo tanto volte nel corso della nostra esistenza e che ha contraddistinto la storia della nostra specie, tra guerre e genocidi) -, contraddizioni implicite in un sistema giuridico che da una parte ne riconosce la senzienza e la capacità di soffrire, gioire, provare emozioni e dall'altra continua a considerari res, cose, risorse rinnovabili. Prodotti. 
Io penso che Massimo si fosse perso in questa selva oscura di contraddizioni, ma che la sua sensibilità fosse rimasta sempre lì, sotto alla pelle, a bollire come materia incandescente che, per quanto raffreddata in superficie da uno scudo di protezione che le sue scelte lavorative lo avevano costretto a indossare, prima o poi sarebbe nuovamente esplosa. E così è stato, infatti. L'incontro con Ninna è stato fatale. Ninna è stata un po' come una guida, una specie di Beatrice che ha riportato Massimo/Dante al di fuori della selva oscura della sua profonda crisi esistenziale. A riveder le stelle, o meglio, a saper di nuovo rivedere l'incommensurabile bellezza dell'unicità e singolarità di ogni individuo, anche il più piccolo, che abita con noi il pianeta terra. 
"Del resto cos'è un riccio rispetto al mondo? Un puntino molto molto piccolo? 
Be', se cambiamo il punto di vista, ugualmente potrei chiedere: cos'è il mondo in confronto alla nostra galassia? Un puntino molto, molto piccolo...
E la nostra galassia, rispetto all'universo osservabile? Un puntino molto molto piccolo...
Dunque è solo la nostra prospettiva che, avviluppata nelle realtà limitate che ci appartengono, rende tutto più o meno rilevante?"

25 grammi di felicità è anche la storia della realizzazione di un sogno. E la dimostrazione che nulla, o quasi, è impossibile quando a muovere le nostre scelte è l'amore e la compassione, ossia la capacità di mettersi in sintonia con chi abbiamo davanti, di vederlo, di diventare l'altro, di sentire - o, ancora, "ritrovare" sé stessi - nell'altro. Così Massimo ha dato vita a un Centro di Recupero Ricci che ha lo scopo di curare e rimettere in salute i tanti riccetti trovati feriti o troppo piccoli che le persone gli portano e di rimetterli in libertà una volta guariti o cresciuti. I ricci sono animali selvatici e possono essere felici e in grado di esprimere le loro caratteristiche etologiche solo se liberi in natura. Ci sono poi degli individui purtroppo disabili che rimangono ospiti del centro perché in natura non sopravviverebbero. 
25 grammi di felicità è anche un testo che sensibilizza le persone e le aiuta a capire meglio questi animaletti così poco conosciuti e insieme una prima guida pratica di soccorso in caso di ritrovamento di un individuo ferito. Dove portarli, cosa fare, capire se prenderli o meno. Ad esempio io non sapevo dell'importanza del loro peso prima del letargo: se si trova un riccetto piccolo in autunno bisogna pesarlo perché in caso di peso inferiore ai 650 grammi non riuscirà a sopravvivere al letargo e quindi bisogna portarlo in un centro di recupero. È importante altresì capire cosa e come dargli da mangiare in caso di necessità di prime cure, riconoscere se è disidratato, se presenta sintomi allarmanti. A tutti noi può capitare di trovare un riccio che ha bisogno di cure in mezzo alla strada o nel nostro giardino e così come ci fermeremmo o soccorerremo un essere umano in difficoltà, dovremmo fare con lui. 25 grammi di felicità infatti sensibilizza anche su questo tema così tanto discusso: molti pensano che non si debba intervenire in natura perché "è la natura e bisogna accettarla". Salvo poi sterminare intere specie o distruggere foreste per profitto e divertimento. 
La natura è bella, ma anche piena di sofferenza. Purtroppo la predazione è necessità per alcune specie e non possiamo farci nulla, ma se un animale selvatico viene investito da un auto o è orfano e ha bisogno di cure, abbiamo il dovere morale di intervenire così come interverremmo per una persona o per un cane o un gatto. 
Interveniamo continuamente per fini distruttivi, che almeno una volta tanto lo si faccia per fini compassionevoli, ossia riconoscendo noi stessi e la paura che proveremmo se fossimo al suo posto, nell'altro ferito o smarrito. 
25 grammi di felicità merita di essere letto perché, oltre al fatto che è una lettura molto scorrevole, toccante e divertente, ci dice tantissime altre cose su noi, sugli altri animali e ci fa riflettere su come siamo e su come potremmo essere. Solo cambiando prospettiva. Solo mettendoci al posto di un piccolo riccetto, così come di qualsiasi altra creatura che ha tutto il diritto di vivere in pace su questo pianeta. 
Infine vorrei esortare a visitare la pagina FB del Centro Recupero Ricci La Ninna e ovviamente a sostenerlo. 

P.S.: il libro è corredato da splendide foto della Ninna e degli altri ospiti che sono stati curati da Massimo e che sono tutt'ora al centro poiché disabili.  

lunedì 16 gennaio 2017

Dialoghi tra animali - sesta parte



(Supermercato, in fila alla cassa)

Sei a dieta? Vedo che compri tutto questo cibo vegetale, 
burger di soia, latte di riso… ma non ne hai bisogno…

No, no, nessuna dieta, sai, è per gli animali…

Ah, ho capito. Lo dai da mangiare agli animali! 

Ecco, bravo, hai capito tutto! 
Se non altro hai menzionato gli animali.



Un cornetto vegano e un cappuccino di soia, per favore.

Subito! Se vuole abbiamo anche delle ciambelline al vino, fatte da noi, solo con farina, acqua, zucchero e vino. 

Ah sì, senza latte e senza uova quindi?

Esatto. Sa, è giusto che ognuno mangi come gli pare. C’è chi è allergico al latte, chi al glutine, chi vuole mangiare solo bio e noi cerchiamo di accontentarli un po’ tutti. Se vuole io le posso anche preparare qualcosa su richiesta. Qualcosa senza latte e uova, se è allergica.

Ah, no, la ringrazio, ma io non sono allergica, è che semplicemente non mangio animali e derivati perché sono contraria al loro sfruttamento. Non è una questione di salute. Che poi sia fattibile e, anzi, che da una dieta vegetale ci si guadagni anche in salute, è un aspetto secondario. 

Eh, sì, è giusto che ognuno mangi quello che vuole. Ognuno fa le sue scelte.

Giusto. 
Ho cambiato idea signora, niente cornetto e cappuccino. Invece, mi dà una fettina del suo braccio? Però mi raccomando, senza latte e glutine.

Cosa?

Mi ha detto che è giusto che ognuno mangi quello che vuole…

(Continua).

Immagine di Andrea Festa.

sabato 14 gennaio 2017

I miserabili


Ogni tanto penso a quanto debba essere triste e povera la vita di chi non si sa relazionare con gli altri animali. Di chi non riesce nemmeno a vederli, gli altri animali, se non attraverso le lenti offuscanti del pregiudizio e dello specismo.
La maggior parte delle persone che incontra un gatto, o un cane, dice: "toh, un gatto", oppure "toh, un cane". Pensa cioè di aver incontrato un rappresentante di quella specie e che uno valga l'altro poiché tutti hanno gli stessi identici comportamenti di specie e se poi qualcuno fa qualcosa di particolare allora si è subito pronti a bollarla con l'etichetta di "istinto".
Invece, al di là delle caratteristiche di specie condivise - che abbiamo anche noi, in quanto animali, giacché, al di là delle differenze, tutti noi homo sapiens in certi contesti ci comportiamo più o meno alla stessa maniera e di certo non possiamo fare cose che non sono contemplate nella nostra etologia - ogni animale è un individuo singolo dotato di un proprio carattere e dall'incontro con ciascuno ne deriva una particolare e unica relazione. 
Abitare il mondo convinti che gli altri esseri viventi siano solo parte indistinta della natura a fare da sfondo alle nostre gesta - le uniche che valgano! - è davvero miope. E tutto ciò mi mette una tristezza infinita, mi fa sentire scoraggiata e amareggiata.
Ci vantiamo di essere una specie superiore perché abbiamo sete di conoscenza e curiosità, eppure quando incontriamo gli altri animali li liquidiamo con sufficienza e persino disprezzo. 
Per non parlare di quello che facciamo agli animali che vengono definiti "da reddito". Oppressi, violentati, trasformati in prodotti alimentari o indumenti di vestiario.
Spazzare via il mondo interiore di miliardi di individui, riducendoli a oggetti, non è solo criminale, è proprio miserevole, ossia ci rende una specie ottusa, stupida, arida, cinica, miope. Siamo dei miserabili!
È più vasto l'orizzonte di un cucciolo di bovino che si affaccia al mondo - per quanto gli venga brutalmente limitato da una gabbia - che quello di un umano che in esso è capace di vedere solo "carne bianca". 


lunedì 9 gennaio 2017

Dialoghi tra animali - quinta parte



Hey, fratellino… sei ancora in gamba ad ammazzare!
 (A History of Violence – David Cronenberg)


Non ti offendi, vero, se ordino una bistecca?

A me? No, tranquillo. Non è che offendi me. Mi dispiace semmai che tu non ti renda conto che oltre a me e te ci sia un altro - il vero! - soggetto cui dovresti render conto. 

Sì, certo, ho capito cosa vuoi dire, ma… ormai è morto. Se non lo mangiassi io, lo mangerebbe qualcun altro.  

Già. Il fatto che sia morto rafforza la dissociazione cognitiva.

Vale a dire?

Lo rende un referente assente. La bistecca che ti arriverà tra poco è un pezzo di un animale morto. Ma al tempo stesso non lo è più perché è stata “lavorata” e “trasformata” in cibo. In un certo senso sei autorizzato a non vedere l’individuo che una volta è stato perché mi rendo conto che il contesto gastronomico entro cui è stato situato non facilita le cose. 

A me piace mangiare la carne, penso che non ci sia nulla di male nel mangiarla e non mi sento stronzo per questo. La pensiamo diversamente. Punto. Possiamo rispettarci a vicenda?

Guarda, sei tu che mi hai chiesto se mi sarei offesa per la bistecca. E comunque non ci capiamo perché mentre tu continui a parlare di carne e bistecche, io provo a parlare di animali. Siamo su due piani concettuali completamente diversi. Il tuo ha a che fare con il cibo, il mio con termini quali rispetto, giustizia, individui, animali, etologia ecc..

Sì, io ti ho chiesto se non ti saresti offesa perché so che sei vegana e non volevo mancarti di rispetto, ma non volevo intavolare una discussione sugli animali.

La discussione è implicita nella tua domanda. A meno che tu non preferisca che io risponda in maniera ipocrita. Perché vedi, il mio essere vegana non è una condizione che subisco, per cui non manchi di rispetto a me, ma all’animale che è morto per ottenere quella bistecca.

Io non la vedo così. Gli animali si sono sempre mangiati, fa parte della catena alimentare. Non sono d’accordo sugli allevamenti intensivi, è vero che lì dentro gli animali vivono vite terribili e questo non è giusto, il maltrattamento è sbagliato, però se tutti noi mangiassimo meno carne e solo acquistata nei piccoli allevamenti, la situazione sarebbe migliore, no?

Migliore per chi, innanzitutto? Non certo per chi viene comunque fatto nascere per diventare bistecca. Inoltre, visto che lo hai menzionato tu, sfatiamo per una volta il mito dell’allevamento estensivo del piccolo allevatore dietro casa. Prima cosa, dal riferimento continuo al piccolo allevatore biologico che tratta bene gli animali e gli dà solo cibo biologico se ne dovrebbe dedurre che al mondo ci siano più allevamenti di questo tipo che automobili e sappiamo invece che non è così. Andiamo, tu stasera qui hai ordinato una bistecca. Che ne sai dove è stata acquistata e da quale allevamento provenga? E quando ordini qualsiasi piatto contenente uova, latte, carne o pesce, anche in minima quantità, non puoi certo avere la certezza che le uova siano da galline a terra o che il latte sia del contadino che munge la sua unica mucca trattata con amore e rispetto (beninteso, dopo averla ingravidata a forza e averle ucciso il vitellino e che comunque verrà spedita al mattatoio senza tanti complimenti una volta che la produzione di latte calerà). Quindi dite tutti un sacco di stronzate. Vi rifugiate dietro questa frase dell’allevamento estensivo senza nemmeno sapere cosa sia e la tirate fuori in automatico per riflesso condizionato.  
Comunque, in sintesi, gli allevamenti estensivi sono ancora più dannosi all’ecosistema perché sottraggono ancora più terreni, acqua e risorse (terreni, acqua e risorse che invece potrebbero usate per soddisfare direttamente richieste di cibo per paesi poveri), ma soprattutto perché mentono in merito al rispetto degli animali. Fanno appello a questa etichetta vuota, “benessere animale”, che in realtà è solo un’espressione rassicurante dietro la quale nascondere le solite nefandezze di sempre, visto che gli animali vengono comunque sfruttati e mandati al mattatoio, come tutti gli altri; ora, ascoltami bene, se si riconosce che almeno hanno vissuto quei pochi mesi in condizioni migliori rispetto ai loro fratelli dentro i capannoni intensivi, allora significa che si è disposti a riconoscerli come individui che meritino almeno un po’ di rispetto; dal momento che tu stesso dici che i maltrattamenti sono sbagliati, vuol dire che sei disposto a riconoscere il danno inferto a questi animali. Ma il danno non consiste solo nella dose di maggiore o minore crudeltà, quanto nel loro essere comunque e sempre assoggettati al dominio della nostra specie. Come se anziché far cessare direttamente la schiavitù avessimo concesso a intere famiglie di vivere apparentemente libere, per poi però, dopo un tot di tempo, andare a prelevarle dalle loro abitazioni e trascinarle nuovamente nei campi a raccogliere il cotone a suon di frustate. E in cosa sarebbe consistito il rispetto del loro “benessere”? Nell’avergli concesso qualche mese di apparente libertà? Nell’aver riconosciuto che essi siano in grado di provare emozioni e di avere un’esperienza del mondo non certo minore dei loro padroni?
Insomma, le cose sono due: o sei disposto a riconoscere che maltrattare gli altri animali è sbagliato – così come tutti crediamo sia sbagliato prendere a calci un cane per strada – e dunque lo è altrettanto allevarli per ucciderli; o accetti che siano considerati e trattati come oggetti, ma allora dovresti essere disposto ad accettare anche la violenza dei capannoni-lager e dei mattatoi. Non può esistere allevamento senza mattatoio. E viceversa. Non può esistere una violenza accettabile e una condannabile. Né si possono stabilire limiti ad essa. Gli allevamenti, tutti, e i mattatoi sono contenitori di violenza e una volta che si è dentro, si salvi chi può. O meglio, non si salva nessuno perché la violenza è come un virus che contagia tutti coloro che ne vengono a contatto, vittime e aguzzini. E quand’è che comincia la violenza? Molto prima che sia palesemente visibile, molto prima che il sangue inizi a sgorgare. Inizia nel momento in cui qualcuno pensa che sia lecito abusare o anche solo controllare il corpo di qualcun altro. E noi degli altri animali controlliamo tutto, persino i loro accoppiamenti. Gli abbiamo tolto anche il piacere dell’accoppiamento. 
La catena alimentare non c’entra niente perché non stiamo parlando di predazione, ma di oppressione e dominio. E l’oppressione e il dominio si esercitano con la violenza. Siamo una specie che ha fatto della violenza il suo carattere… dominante, in ogni senso.
Quindi non chiedere a me se la bistecca sul tuo piatto mi offende. Chiedi piuttosto a te stesso quanto sei disposto ad accettare la conseguenza delle tue azioni e di quelle che chiami scelte: fin quanto sei disposto a gettare un occhio nello sprofondo del tuo lato oscuro senza distogliere lo sguardo. 
E se lo accetti, allora fregatene anche del fatto che mi offenda o meno. Io mi rifiuto di avere più considerazione del maiale che sta andando a morire. In base a cosa dovrei avere più considerazione? Perché so contare fino a dieci e perché cammino in posizione eretta? Non si può essere “compassionevoli” e “rispettosi” a metà. In base al numero di zampe o del colore della pelle. O lo si è, o non lo si è. 

La tua etica che vuol essere per forza inclusiva del rispetto di ogni essere vivente è una tua scelta. Non la mia. E comunque allora non dovresti andare in macchina o camminare perché chissà quanti insetti calpesti.

Un conto sono gli effetti intenzionali del nostro vivere, un altro quelli involontari o accidentali. 
E per quanto sia impossibile vivere senza avere alcun impatto sugli abitanti del pianeta, per lo meno si dovrebbe saper riconoscere il danno diretto. Andando in auto rischio anche di investire i pedoni, ma questo non mi autorizza di certo a sparare e sfruttare le persone. 

(Continua). 

Immagine di Andrea Festa.