lunedì 19 dicembre 2016

Dialoghi tra animali - terza parte


Eppure c’è chi davanti alla colpa altrui, 
o alla propria, volge le spalle, 
così da non vederla e non sentirsene toccato: 
così hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni hitleriani, 
nell’illusione che il non vedere fosse un non sapere, 
e che il non sapere li alleviasse 
dalla loro quota di complicità o di connivenza.
(Primo Levi)


Ma l’uomo ha iniziato a mangiare gli animali, cacciandoli, semplicemente perché aveva fame. Non siamo anche noi animali tra gli animali?

Oh sì, e viveva anche nelle caverne e faceva la danza della pioggia. Ma secondo te è normale giustificare un qualcosa solo perché lo facevano i nostri antenati? E poi gli allevamenti non sono la caccia. Così come c’è un’enorme differenza tra la predazione in natura e l’allevamento nella nostra organizzazione sociale. La prima è una necessità per quelle specie che sono carnivore. Il secondo è un prodotto storico-culturale. Noi non siamo carnivori, non moriamo se non mangiamo carne, siamo carnisti, ossia mangiamo carne per tradizione e abitudine culturale e perché sin da quando nasciamo ci fanno credere che sia normale e naturale farlo.
Per un animale carnivoro cacciare e mangiare una preda è una necessità vitale esattamente come respirare. Non lo è altrettanto l’hamburger per noi. Abbiamo sempre creduto che lo fosse perché ce lo hanno dato da mangiare sin da quando siamo bambini, accompagnato da una sequela di luoghi comuni che ormai la scienza della nutrizione ha completamente smentito. “La carne fa bene”, “il latte fortifica le ossa”, “il pesce contiene fosforo per la memoria”, “solo la carne ha le proteine nobili” e via dicendo. E la gente ci crede perché la cultura funziona così. Le informazioni vengono trasmesse da generazione in generazione, da famiglia in famiglia, da madre a figlio. Con l’ampio e preponderante supporto della televisione, dei media che fanno disinformazione e dell’ignoranza stratosferica in cui siamo immersi oggi. Sai una cosa? Sì, lo so, sto di nuovo divagando, ma una cosa voglio dirtela. Oggi pensiamo tutti di essere svegli e preparati solo perché abbiamo accesso a una mole di informazioni continua e questo ci autorizza tutti a parlare. Un tempo invece chi non aveva studiato, chi non si era fatto il culo così sui libri o anche con l’esperienza del lavoro, stava zitto ad ascoltare e non sentiva l’esigenza di dare continuamente la propria opinione. L’informazione non è conoscenza. Dire che è necessario mangiare carne, a dispetto della testimonianza vivente di quei vegani che non la mangiano da venti anni, solo perché lo si è letto nel giornaletto di gossip mentre si stava dal parrucchiere o perché ce l’ha sempre detto mamma, nonna e la maestra all’asilo, non è proprio la stessa cosa dell’essere davvero preparati su un argomento. Io quando ho deciso di diventare vegana non mi sono affidata al caso, cribbio, ho letto e studiato e chiesto consiglio a medici e nutrizionisti preparati. Non sto dicendo che serva una laurea per decidere di smettere di essere complici di tutte quelle orrende cose che vengono fatte agli animali, ma sicuramente qualcosina bisogna saperla. Ad esempio non sapevo nemmeno cosa fosse la B12 (per inciso, nemmeno il resto del mondo lo sapeva prima che si cominciasse a parlare di veganismo). 
Quindi chi la fa da padrona è la disinformazione, l’ignoranza e ci sono precisi interessi economici e di potere per lasciare che le cose rimangano così. Per lasciare che le persone continuino a dire che ci servano le proteine della carne e che il latte faccia bene. Andiamo. Il latte di una mucca. E perché no quello di un’elefantessa? Solo perché allevare bovini è sempre stato più semplice. Non certo perché noi, specie umana, avremmo davvero avuto bisogno del latte di un altro mammifero che pesa tonnellate più di noi e che contiene nutrienti e ormoni della crescita per far crescere un vitello in pochi mesi. 

Mi stai dicendo che c’è un complotto per farci credere questa cosa e tutto ciò solo per rimpinguare le tasche degli allevatori? Un po’ difficile a crederci. Queste sono proprio quelle cose che fanno apparire voi vegani come cultori di una setta. 

Aspetta. Dammi tempo. Stai traendo conclusioni affrettate. Non ho detto che ci sia un complotto. Ma che esiste un mondo sommerso volutamente tenuto nascosto. O meglio, è un po’ come la lettera del famoso racconto di Edgar Allan Poe. Gli allevamenti e i mattatoi sono in realtà ovunque, in certe regioni più che in altre, ma nessuno ci fa caso perché visti da fuori sembrano strutture anonime, capannoni uguali a tanti altri. Li vedi magari percorrendo le autostrade, da lontano, e pensi che siano aziende, fabbriche; non ti viene da pensare che lì dentro ci siano migliaia di corpi ammassati e prigionieri. Corpi la cui esistenza è stata programmata sin dalla nascita e che non vedranno mai la luce del sole. Hai mai visto maiali liberi in natura, per caso? Mai. Scrofe in gabbie di gestazione, cuccioli appena nati e già traumatizzati dall’asportazione dei denti e dal taglio dei testicoli senza anestesia, cuccioli all’ingrasso per poi venire prelevati a pochi mesi e condotti al mattatoio. E a tutto questo non pensi perché non lo vedi. E se non ci pensi, è come se non esistesse. Poi, quando si parla invece del “prodotto finito”, la violenza ormai è stata epurata, cancellata, rimossa. E non solo, tutto viene modificato e illuminato per apparire bellissimo. Non senza una dose di bugie. Questo è vero. Ci raccontano un sacco di bugie, oltre a non rendere possibile la conoscenza di questa realtà sommersa.
Ma andiamo per ordine. Ti parlerò della dissociazione cognitiva, delle menzogne della pubblicità e del profitto. E del potere di chi detiene i media o ha i soldi per controllarli. Cominciamo con un piccolo esempio: oggi sembra che in tv si parli spesso di veganismo. In realtà non è vero. Non si parla di veganismo - che già sarebbe qualcosa, anche se all’inizio ti ho detto che in sé non significa niente, ossia che è solo una conseguenza, o la punta di un iceberg se preferisci, di una questione molto più grossa –, lo si spettacolarizza soltanto. Se ne prendono gli aspetti più esteriori e irrilevanti – al netto delle motivazioni profonde –, si crea, come dire, uno stereotipo e poi lo si butta nella mischia del circo mediatico in pasto a soubrette e opinionisti che recitano un copione già scritto per creare la rissa e alzare gli ascolti. E gli animali in tutto questo dove sono? Dov’è che si parla di sfruttamento animale, di gabbie di contenzione e tir diretti al mattatoio? Dov’è che si parla di pulcini tritati vivi e di aragoste bollite vive?

Beh, ovvio che non se ne parli e che non mostrino certe immagini, altrimenti le persone si rovinerebbero il pranzo e poi non sarebbero appropriate per i bambini…

Ecco, hai toccato un punto. I bambini. Non sarebbe appropriato mostrargli cosa accade dentro un mattatoio, però dargli quel che ne esce fatto a pezzi invece va bene. Non è appropriato dirgli la verità perché, poverini, ne resterebbero traumatizzati, però è considerato educativo raccontargli che le mucche vivono felici e ci danno spontaneamente il loro latte o che il Capitano Findus è un eroe del mare che confeziona tanti bastoncini succulenti. Ecco, la dissociazione cognitiva di cui parlavo poc’anzi si forma proprio così, a questa età. Sai quanto sottotesto si porta con sé il cibo? Il cibo è famiglia, affetto, legami, relazioni, socialità, convivialità, tradizione, ricordi. Ricordi. I ricordi della nonna che ci dava pane e salame e della mamma che ci cuoceva la fettina. E come potremmo mai associare qualcosa di negativo a tutto ciò? Come potremmo mai pensare che ci fosse qualcosa di sbagliato in tutto ciò? I bambini guardano le storie di Peppa Pig e si divertono e poi la mamma li porta al McDonald’s per il compleanno, con tutti quei menu colorati e i giochi e come potrebbero mai pensare che i loro genitori siano complici di un sistema di sfruttamento e violenza e li stiano educando a diventarlo anch’essi?

Ma tutto ciò è normale. La vita è violenza e noi proteggiamo i bambini dalla violenza.

Tutto ciò è normale perché rappresenta la normalità. Ma la parola normalità, accidenti, è terribilmente sopravvalutata. L’abbiamo connotata di una valenza positiva quando in realtà significa soltanto esecuzione da parte di una maggioranza di una norma stabilita tanto tempo fa da qualcuno, in circostanze storiche e sociali del tutto diverse e che poi si è protratta nel tempo perché comunque ha portato vantaggi alla classe dominante. Ma è una normalità sbagliata perché condanna all’inferno in terra altri individui. Una normalità che fa orrore perché fa credere che l’esistenza degli allevamenti e mattatoi sia una cosa giusta e necessaria, mentre invece non lo è affatto. Così come crediamo che il progresso sia sempre positivo e spesso lo è, ma solo per una parte del mondo e solo per la specie umana. Per gli animali il medioevo non è mai finito. Del nostro progresso tecnologico nessuno di loro ha mai davvero beneficiato, anzi, esso ha accresciuto solo le loro torture. Pensiamo a quello che accade nei laboratori di vivisezione, ad esempio. O a come negli allevamenti sia tutto automatizzato così che essi vivano esistenze del tutto artificiali finalizzate a spremere il massimo delle loro carni. E non appena questo massimo non è più tale, zac, al mattatoio. Gli allevamenti sono strutture di dominio totale della vita per mezzo della tecnologia; lo dice la parola stessa: zootecnia.
La vita, o meglio la natura, contiene in sé una certa dose di violenza, è vero. Ma un conto è quella necessaria del leone che sbrana la prede altrimenti morirebbe, un altro è quella intenzionale del dominio di altre specie solo per trarne profitto. Una violenza che si ripete sistematicamente, ossia messa a regime e che funziona come una catena di montaggio all’incontrario. Da un corpo vivo ne escono pezzettini. Puliti, limati e impacchettati. E ogni persona che lavora a questa catena ha un suo preciso compito e solo quello. Pochi vedono l’animale vivo che scalcia e grida di terrore (perché sente l’odore del sangue dei suoi fratelli e le loro urla), solo l’abbattitore, che nei grossi mattatoi è un po’ come una figura mitologica. Ed è pieno di testimonianze dei lavoratori nei macelli – sfruttati anch’essi fino all’osso – che dichiarano di star male, di dover bere per dimenticare, di non riuscire, letteralmente, a dormire per via degli incubi. Chi uccide, uccide. Puoi chiamarla come ti pare, esecuzione, abbattimento, ma è sempre un cuore che fermi e sempre alla fine è con le mani sporche di sangue che ti ritrovi. Peraltro si costringono poche persone a fare questo lavoro sporco così che il resto della collettività possa mangiarsi la sua fettina – confezionata asetticamente – senza aver visto niente. Ti sembra giusto? Non è la stessa cosa dei bambini obbligati a estrarre diamanti che poi finiranno incastonati sugli anelli di chi può permettersi di acquistarli senza essersi sporcate le mani? 
Alla fin fine è tutta una questione di privilegi. Questa è la radice dell'ingiustizia, di ogni ingiustizia: sfruttare e sterminare qualcuno per il privilegio e il capriccio di qualcun altro. 
Perché prendersela con gli altri animali? Non ci hanno fatto niente eppure da secoli li schiavizziamo, torturiamo, massacriamo. 

Continua.

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