mercoledì 30 novembre 2016

Sfruttamento animale: una questione di rapporti di forza e di pregiudizi culturali


Un altro problema della questione animale è che non riusciamo a farci prendere sul serio. 
L'animalista viene ancora visto come l'esaltato estremista da un lato e il patosensibile affetto da troppo amore per gli animali dall'altro; e ancora: un perditempo, uno che anziché andare a lavorare o occuparsi di questione più serie si mette a fare banchetti e presidi per strada; un idealista ingenuo, uno che non accetta il mondo così com'è, non capisce che la vita stessa è violenza e vorrebbe vivere in un paradiso in cui tutti gli animali parlano tra loro come nei fumetti della Disney; un disadattato, uno che pensa che Woodstock non sia mai finito. E l'antispecista, invece? Non pervenuto. What's antispecista? Antiché? 
Come fare per farci prendere sul serio?
Certamente alcune baracconate non aiutano. L'altra sera stavo guardando dei video animalisti su youtube. Mi imbatto in un evento contro le pellicce in cui vedo tizi di mezza età, (ma fossero stati giovani sarebbe stata la stessa cosa) seminudi, in una piazza, in mezzo a fischi, urla, slogan triti e ritriti (sempre quelli da vent'anni: anì-mà-li lì-be-ri! anì-mà-li lì-be-ri! anì-mà-li lì-be-ri! e poi sàngue, sàngue, sùlle vòstre màni! sàngue, sàngue, sùlle vòstre màni! sàngue, sàngue, sùlle vòstre màni! e infine il sempiterno assàssìni! assàssìni! assàssìni!). Ma diosanto, un po' di originalità, ma fate un discorso, ma mettete insieme due frasi in cui spiegate per cosa state manifestando, ma perché rendersi ridicoli così?
Ecco, non c'è da stupirsi se poi le persone, imbarazzatissime, si voltino dall'altra parte e dicano "ah, i soliti animalisti". 
Questo tipo di attivismo qui non funziona. 

Dalla parte opposta, abbiamo gli antispecisti antifà, antisù e antigiù. Quelli che ogni volta che si parla della questione animale devono metterci in mezzo ogni altro tipo di lotta e ogni altro argomento indiretto, come se parlare degli animali e basta non fosse abbastanza nobile. E pure qui si va avanti con slogan del tipo "liberazione totale", "liberi tutti" e via dicendo. Roba che il tipo che non ha confidenza con un certo linguaggio politico ti dice "ma, esattamente, da cosa dovrei essere liberato io?". Perché non è vero che siamo tutti schiavi. Alcuni lo sono più di altri. E a chi lo è meno, fa comodo che le cose rimangano così. Il mantenimento dei privilegi fa comodo praticamente a tutti, tranne a chi non li ha, che però vorrebbe passare dall'altra parte e quando ci passa, schiaccia chi prima stava al posto suo e quando dico tutti intendo anche persone che non è che navighino nell'oro o abbiano chissà quali imperi, ma anche impiegatucci o operai che tutto sommato a fine mese ci arrivano e gli avanza pure la tredicesima per il televisore a 50 pollici. E questo discorso vale non solo nel microcontesto delle fasce sociali (se non vogliamo parlare più di classi), ma anche nel macro dell'occidente Vs il resto del mondo. E alla stragrande maggioranza delle persone le cose vanno bene così perché nessuno vuole rinunciare alla corrente (ci lamentiamo tutti delle guerre, però sia mai che rinunciassimo a quegli oggetti di uso quotidiano che vengono alimentati grazie al petrolio o che sono accessibili e acquistabili a prezzi modesti grazie allo sfruttamento di donne, uomini e bambini e a un massacro inimmaginabile - e lo è, inimmaginabile, poiché inquantificabile e sommamente crudele - degli animali). Si lamentano tutti del lavoro, delle poche ferie, del lunedì, dello stato, del governo, ma la verità è che non saprebbero immaginare una maniera diversa di vivere perché non saprebbero che farsene della libertà. 
Ecco, parliamo della libertà. Mai concetto è stato più distorto di questo. La libertà, una volta capito che dio non esiste e che non dobbiamo sottometterci al volere di nessuno, la si è incominciata a intendere come esercizio di potere. La libertà è la potenzialità di fare qualsiasi cosa. Puoi essere ciò che vuoi, puoi andare dove vuoi, puoi realizzare i tuoi sogni e essere felice in qualsiasi momento. Basta volerlo. Volere è Potere e via dicendo. Ecco perché anche il mangiare o meno gli animali viene inteso come una scelta personale. Io posso mangiarti, cioè ho questo potere, quindi sono libero di farlo.
Ora, il problema è che dicendo "liberazione totale" non si capisce bene che tipo di società vorremmo avere perché noi antispecisti non abbiamo un terreno comune condiviso e nemmeno tanto le idee chiare. C'è chi vorrebbe una società comunista con amministrazione collettiva dei beni e supervisione dello stato, chi lo stato non lo vorrebbe, chi pensa che, nel bene e nel male, pur con le sue distorsioni ed eccessi, tutto sommato il capitalismo e il liberismo economico siano meglio del comunismo o dell'anarchia. Poi ci sono i primitivisti, gli anarco-comunisti, i liberali anarchici e, boh, ognuno ha in mente il proprio ideale di società (io in questo momento ho le idee molto confuse, non ho difficoltà ad ammetterlo, perché sono sempre più convinta di una parte di natura irriducibile dell'homo sapiens votata alla sopraffazione e dominio).
Ora, quando si fanno questi discorsi, pur necessari, gli animali dove vanno a finire? L'unica cosa certa è che essi, in ogni istante, in ogni tipo di società, sono sempre stati ritenuti inferiori agli umani e sfruttati in ogni modo. Inutile negarlo: esiste un pregiudizio ontologico nei confronti degli altri animali. Da tempo immemore, ossia dall'inizio della storia dell'uomo, noi ci siamo visti, raccontati, trasmessi alle generazioni future, rappresentati - simbolicamente o meno - come altro dagli animali. E questa menzogna è talmente radicata in noi che non riusciamo a scacciarla dal nostro linguaggio e cultura nemmeno quando ci mettiamo d'impegno. Tutti noi, compresi noi antispecisti, riteniamo la vita dell'homo sapiens più piena di significato e valore rispetto a quella di un moscerino. 
Forse dovremmo fare un passo indietro. Ritrovare, come movimento, alcuni valori condivisi e non più negoziabili e da qui ripartire. Ce ne sono almeno due: azzerare l'antropocentrismo e la divisione ontologica tra noi e gli altri animali (in ogni ambito della nostra cultura, quindi agire su diversi fronti e cercare di fare breccia in ogni ambito); combattere lo sfruttamento istituzionalizzato, ossia ogni tipo di allevamento che riduce la vita degli altri animali a una risorsa in funzione degli interessi dell'umano, sia quelli di animali destinati a uso alimentare, sia quelli per l'abbigliamento (io non posso credere che ancora nel 2016 esistano persone che comprano le pellicce, ma tant'è; basta sfogliare una qualsiasi rivista di moda per vedere quanto siano diffuse) e poi la vivisezione, l'uso degli animali nell'intrattenimento, ossia circhi, zoo, delfinari ecc., il commercio di cani, gatti, conigli e altri animali cosiddetti "domestici". 
Ora, il problema è che per combattere queste strutture bisogna, da un lato far capire che la vita degli altri animali abbia un valore inerente - e quindi si ritorna al punto uno, cioè combattere l'antropocentrismo e azzerare la divisione ontologica  (perché inutile che facciamo vedere le sofferenze degli animali al macello se tanto le persone sono convinte che essi non si rendano conto, non abbiano coscienza,  non soffrano quanto noi e che quello dove si trovano sia, tutto sommato, il loro posto, in quanto esseri al nostro servizio in virtù di un ordine gerarchico apodittico, accettato e condiviso per definizione senza che vi sia bisogno di argomentarlo e dimostrarlo); bisogna poi, dall'altro lato, mettere in discussione anche l'economia della società nella sua globalità perché è ovvio che se tutta l'economia si regge sullo sfruttamento animale, bisognerà trovare un'alternativa valida che regga. 
Ma, prima di tutto, a me pare fondamentale mettere in discussione l'antropocentrismo e mostrare l'inconsistenza del pregiudizio ontologico sugli altri animali. Io penso che questo pregiudizio sia sempre esistito. Vero che l'uomo ha iniziato a sfruttarli perché ha capito che poteva farlo - poteva sottometterli, dominarli, schiavizzarli, legarli, bastonarli e questo suo esercizio di forza arbitrario è stato cruciale - ma ormai le cause e gli effetti si sono talmente intrecciati insieme da aver reso pregiudizio e forza un tutt'uno. Inestricabilmente connessi.
E se ci pensate bene, ogni forma di esclusione, discriminazione, ogni guerra, ogni genocidio hanno sempre avuto queste due componenti: forza e pregiudizio. La forza bruta (delle armi, quella fisica, quella del denaro, intellettuale ecc.) e il pregiudizio culturale come giustificazione. Ossia, tradotto in parole povere: schiavizzo l'altro perché posso farlo in quanto ho più forza di lui (posseggo un'arma, sono costituzionalmente più forte, intellettualmente più riconosciuto) e motivo la mia sopraffazione - giustificandola - dicendo che non devo sentirmi in colpa perché l'altro è più stupido, più cattivo, inutile e via dicendo. Che poi è il pensiero elementare e basilare di ogni tipo di violenza. L'abbattitore al mattatoio si ripete che il maiale è lercio e stupido, l'uomo che picchia la donna perché lei è troia e se lo merita, l'imprenditore che sfrutta il dipendente perché lui ha bisogno e non ha avuto le palle per mettersi in proprio (sfortuna, condizione di partenza diverse? Che importa? Il mondo è di chi se lo prende!), i nazisti che deportavano gli Ebrei perché erano solo "luridi topi di fogna" (e il topo di fogna era già assodato che fosse un rifiuto della vita per via della distinzione ontologica ecc..).

Dunque, riassumendo: bisogna agire sul piano culturale e su quello che regola i rapporti di forza. Finora abbiamo agito solo sul primo, tranne qualche azione d'eccezione che però non ha sostanzialmente modificato in maniera radicale il nostro rapporto con gli animali e con l'altro in generale. Ad esempio la grandiosa campagna contro Green Hill ha portato a casa un risultato enorme, ossia, la chiusura dell'allevamento, la liberazione di migliaia di individui e, sul piano giuridico, il divieto sul territorio italiano di allevare cani, gatti e primati destinati alla vivisezione: obiettivo che mette in difficoltà gli istituti e laboratori in cui si pratica costringendoli a farli arrivare dall'estero, con più spese, quindi, ma che di, fatto, non mette in discussione la pratica stessa. Almeno fino a quando a fronte di queste aumentate spese si controbatterà con i vari battage pubblicitari per la raccolta fondi a rimpinguare le casse della ricerca basata sulla sperimentazione animale. Vale a dire, quella di danneggiare chi sfrutta gli animali sul piano economico - quindi di fatto ribaltando i rapporti di forza - potrebbe essere una strategia che funziona. Ma è difficile attuarla perché chi viene colpito, che continua comunque ad avere più risorse di noi, reagisce avvalendosi del potere mediatico.  

Come cambiare quindi i rapporti di forza in maniera decisiva? È qui che dobbiamo lavorare, è su questo punto che dobbiamo riflettere. Cosa abbiamo in mano? Come fare per ribaltare le forze in gioco se chi le possiede ovviamente non concederà nulla e reagire a ogni nostro successo con sempre maggiore veemenza? E cos'è il potere oggi? Quello economico-finanziario, quello delle armi, quello della comunicazione? 
Rifiutiamo quello delle armi, forse possiamo ambire a quello economico e della comunicazione, che son strettamente legati. L'anima del commercio è la pubblicità, quindi la comunicazione. Ma cosa comunicare esattamente? E come? Basterà dirlo che gli altri animali sono intelligenti e che non meritano di essere calpestati? Non basta. Bisognerà intervenire a fondo sulle coscienze e sull'immaginario collettivo per abbattere ciò che è radicato? Per farlo ci vuole una prassi che rimodelli a fondo la nostra visione del mondo e dello stare al mondo. Ma intanto gli animali continuano a essere massacrati al ritmo di 5.000 al secondo e solo chi non si è mai rispecchiato nello sguardo del maiale appeso a testa in giù (non è retorica, è verità) può dire che possiamo aspettare e che ci vuole pazienza. Un discorso, anche questo, molto, molto antropocentrico. E se ci fosse tuo figlio appeso a quel gancio? E se ci fossero i tuoi genitori sui quei camion della morte? Diresti che bisogna aspettare? Son tutti pazienti, col culo degli altri.

Penso che danneggiare economicamente le strutture che sfruttano gli animali sia tutto sommato una strada percorribile. Come? Facendogli una cattiva pubblicità. Danneggiandone l'immagine. 
Che poi non sarebbe nient'altro che mostrarne il vero volto. 
E per far questo dobbiamo "conquistare" (ritagliarci pù spazi possibili, non inquinati dalla propaganda e dalla disinformazione di cui parlavo nell'articolo precedente) i mezzi di comunicazione perché i social forse non bastano. Anche se è vero che l'aumento esponenziale dei vegani è avvenuto negli ultimi cinque anni -  e considerando sempre quanto sia stato distorto il concetto di veganismo - non possiamo però dire quanto e in che misura abbiano realmente inciso i social. A me pare che i media ufficiali come tv e giornali mainstream siano ancora determinanti e che i social non facciano che rimpallarsene i contenuti, magari commentandoli in maniera critica, ma sempre comunque contenuti prima codificati e diffusi dai canali mediatici ufficiali al servizio del sistema di potere. 
Dobbiamo assolutamente ritagliarci spazi non inquinati dalla disinformazione. O fare in modo che essa appaia in maniera talmente palese da essere messa a nudo e così neutralizzata. E parlare alla collettività. A tutti. In maniera semplice, ma senza banalizzare la questione animale.

lunedì 28 novembre 2016

Massacro animale, censura, rimozione e stupore della singolarità

Noi siamo testimoni viventi di quello
 che voi cercate disperatamente di dimenticare” 
(The Leftovers – 8° episodio – 1° stagione)

(Foto di Jo-Anne McArthur scattata durante un presidio di Toronto Pig Save)

Parlavamo di censura, nel post precedente. 
Dicevo, nei commenti, che siamo abituati ad attribuire al termine un significato ben preciso, quale quello di proibire la pubblicazione di un libro, film, cancellare una scena, vietare che un personaggio compaia in tv e via dicendo. 
In realtà ci sono tantissime altre forme di censura, anche se meno evidenti.
La disinformazione voluta è un chiaro esempio di censura. Prendiamo l'argomento del veganismo. Apparentemente sembra che se ne parli molto, il termine compare in articoli dedicati, in programmi televisivi, in convegni, alla radio ecc.. Quindi non si ha proprio l'impressione che sia oggetto di censura o che non gli si dia spazio o non ci sia dibattito intorno ad esso. 
Ma c'è.
C'è perché se ne parla solo riducendolo a una dieta e confondendo le persone introducendo altre questioni irrilevanti. Inoltre lo si spettacolarizza ricercando l'audience. Si invitano a parlare personaggi poco preparati, li si spinge a fare affermazioni equivoche o che possono dare adito a fraintendimenti - quasi sempre estrapolando frasi e parole da un discorso molto più ampio - e li si mette a confronto con altri personaggi che dicono sciocchezze. Così il livello della discussione si abbassa e non è possibile fare un discorso minimamente serio o interessante. 
Se qualcuno riesce a dire qualcosa, subito il conduttore passa la parola ad altri o manda la pubblicità. Oppure, a fronte di un video fatto bene, si fanno passare titoli in sovraimpressione volutamente ingannevoli o mirati a focalizzare l'attenzione su altro.
Tutto questo equivale a censurare in modo bieco e subdolo le informazioni corrette sul veganismo e sulla lotta per la liberazione animale. 
Degli animali non si parla proprio, o, se se ne parla, subito interviene il rafforzo positivo sugli allevamenti a terra o la battutina dell'ospite o conduttore mirata ad elogiare il buon sapore del San Daniele. 
Un altro modo con cui si censura il veganismo è mettendo in evidenza solo alcuni episodi da cui chiunque prenderebbe le distanze: quello del tipo che dice che sputerebbe dentro il panino degli onnivori, quell'altro di tizio che augura la morte a caio, quello ancora della tipa che dice che si può guarire dal cancro bevendo acqua e limone e che è vegana per convinzioni personali che nulla c'entrano con la questione animale.
In pratica il veganismo viene associato a questioni secondarie e del tutto irrilevanti che non hanno niente a che vedere con il discorso dello sfruttamento degli animali, la critica all'antropocentrismo e la messa in discussione dello specismo (per esempio avete mai sentito parlare di antispecismo in tv? Mai! Eppure il veganismo non è altro che la conseguenza dell'essere antispecisti e quindi per un corretta informazione dovrebbe essere fondamentale dire almeno che cos'è e cosa significhi). 
Il pubblico che legge o guarda il tal programma, così volutamente disinformato, penserà che il vegano sia un frikkettone tutto yoga, peace & love che ama gli animali, è complottista, rifiuta la medicina ufficiale e si faccia lavaggi dello stomaco con acqua e limone. Per dirne una. 
Si è creato così nell'immaginario collettivo lo stereotipo del vegano cui corrisponde una serie di attributi e comportamenti che ne mina la credibilità. 
La maniera migliore per non prendere in considerazione ciò che qualcuno sta dicendo è farlo passare per pazzo, ingenuo, esaltato o poco credibile.
In realtà il veganismo è solo la messa in pratica individuale del rifiuto di voler continuare a prender parte al sistema che sfrutta e massacra sistematicamente individui senzienti appartenenti ad altre specie, ossia una presa di distanza dalle leggi e meccanismi sociali che giustificano la violenza sull'altro da noi solo perché diverso. E per rifiutare questo massacro non serve amarli, ma basta riconoscere che siano esseri viventi (non difficile, direi) e che sia sbagliato arrecargli danni e dolore trattandoli invece come fossero oggetti inanimati o facendogli cose che se venissero fatte a un animale umano sarebbero ritenute orribili.
La questione è molto semplice. Se uccidere qualcuno per trarne profitto è una forma di violenza, allora questa violenza non necessaria va rifiutata; e non regolata o moderata.
Non si può pensare che sia ammissibile violentare con moderazione. Fa ridere una cosa del genere. 
Ecco, i media censurano questo tipo di informazione e così anziché parlare di chi sono gli animali, come sono costretti a vivere e come vengono massacrati, si preferisce scherzare sul tipo che beve acqua e limone e che accidentalmente è pure vegano. 
Questa è censura.

Un'altra forma di censura riguardo la questione animale (di cui, non mi stancherò mai di ripeterlo, il veganismo è solo una conseguenza) è quella che tutti noi, inconsapevolmente, mettiamo in atto ogni minuto della nostra vita. Tutti noi, anche noi vegani e attivisti.
Noi tutti sappiamo cosa avviene dentro i mattatoi, lo sappiamo vagamente. Molti di noi hanno visto video tratti da investigazioni. Ma se davvero ci concentrassimo su questo, non vivremmo più. L'orrore finirebbe per paralizzarci e così non possiamo fare altro che dimenticarcene. 
Questo meccanismo l'ho sperimentato io stessa durante i presidi NOmattatoio al momento del passaggio dei camion che trasportano gli animali. Ora, sappiamo che vengono uccisi e fatti a pezzi circa 5.000 animali al secondo, in tutto il mondo (e solo per fini alimentari; dal conteggio sono esclusi i pesci, che nemmeno sono considerati individui, ma vengono calcolati a peso), eppure nessuno di noi ha veramente contezza di cosa significhi questo.
Invece avvicinarsi ai tir e vedere questi individui, uno ad uno, nella loro esclusiva e irriducibile singolarità, fa tutto un altro effetto. Cioè, lì veramente si capisce che sono esseri viventi, ognuno diverso dall'altro, non solo fisicamente, ma anche nel carattere. C'è chi ha lo sguardo vitreo dal terrore, chi si avvicina in cerca del conforto di una carezza, chi tenta disperatamente di scappare dal camion, scalcia e morde le sbarre con i denti, chi, rassegnato, giace a terra senza più nemmeno la forza di muoversi, chi fugge spaventato e via dicendo. La cosa più disturbante è vedere i loro occhi. Ti guardano. E capisci che lì dentro c'è tutto un mondo. Un mondo che noi stupriamo, cancelliamo al ritmo di 5000 esecuzioni al secondo. Poi, e anche di questa cosa si ha poca contezza, tu vedi questi individui con cui hai brevemente interagito e poco dopo li ri-vedi uscire fatti a pezzi (quindi ormai irriconoscibili e privati di ogni riferimento alla loro precedente identità), dentro confezioni di polistirolo, belli impacchettati e pronti per andare a riempire gli scaffali dei supermercati. E vi giuro che sembra una cosa surreale. Tu guardi e ti dici "non è possibile"; non è possibile che quell'essere dallo sguardo gentile che prima mi ha leccato la mano, ora sia un pezzo di carne che tra qualche ora verrà distrattamente acquistato e poi digerito. 
Cancelliamo mondi, cancelliamo vite, cancelliamo respiri. 
E lo facciamo perché non vediamo i corpi da cui provenivano. Corpi come i nostri, con sangue, tendini, ossa, cervello, muscoli. E animati da una vita interiore, anche se diversa dalle nostre. 

Tutto questo la tv non ve lo mostrerà mai. E voi continuerete a comprare pezzi di carne incellophanati senza sapere quello che state facendo, di quale massacro vi state rendendo complici. 

Il veganismo è solo la manifestazione sul piano individuale dell'assunzione di responsabilità che deriva dal riconoscimento di quanto sia ingiusto lo sfruttamento e il massacro di altre specie. È il tentativo di far fronte a questa dimenticanza, a questa rimozione di un orrore collettivo cui tutti abbiamo preso o prendiamo parte senza esserne pienamente consapevoli.
Pensavamo di esserlo, ma non lo eravamo nella misura in cui non ci siamo mai abbastanza a lungo soffermati su cosa significhi stare appeso a un gancio a testa in giù sommersi da sangue, escrementi e urla di terrore. 

Diventare antispecisti e vegani significa ritrovare lo stupore del riconoscimento dell'altro da noi. Della sua irripetibile singolarità. Questo è il vero motivo per cui si diventa vegani. Chi lo fa per motivi di salute non ha capito cosa ci sia veramente in gioco: il rispetto per l'altro, la lotta di giustizia sociale. Chi lo fa per salute lo fa per se stesso. L'altro nemmeno lo vede. Continua a restare nell'oblio, nella censura, nella rimozione. Che invece è ciò che l'antispecismo combatte e con cui deve fare i conti.
L'antispecismo soltanto porta alla sola forma di veganismo che davvero abbia un significato e che è quella della scoperta e riconoscimento dell'altro, del ritrovamento della memoria dell'orrore quotidiano. Se non c'è questa apertura, se non lo si fa per l'altro, allora tutto resterà com'è, nonostante i cappuccini e cornetti vegani reperibili ormai ovunque. 

domenica 27 novembre 2016

Censura

Oggi a Roma c'è stata una grossa manifestazione nazionale per il NO e contro il governo Renzi cui hanno aderito vari movimenti sociali di sinistra, tra cui NoTav, NoTriv, gruppi studenteschi, centri sociali, comitati per l'acqua e beni comuni, comitati per il diritto alla casa e singoli cittadini.
Il Corriere della Sera non menziona proprio l'iniziativa, mentre Repubblica gli dedica un piccolo trafiletto, parlando solo di presunti lanci di uova contro la banca d'Italia e del ritrovamento di spranghe. La diretta video si sentiva malissimo e ha ripreso solo piccole parti del corteo. In compenso il faccione di Renzi troneggia ovunque. 

Se questa non è censura, ditemi voi cos'è. 





Convinzioni


- Guarda, io sono un carnivoro convinto.

- Davvero? E allora che ci fai ancora qui? Ma corri, sbrigati, torna nella Savana! 

giovedì 24 novembre 2016

Cani come appendici della propria virilità

Come interpretare il comportamento di un uomo, età sulla cinquantina, che si avvicina, petto in fuori, col suo cane molossoide mentre sto dando da mangiare ai gatti della colonia e lo istiga a ringhiargli contro facendoli scappare, il tutto ridendo e guardandomi con aria sorniona, in cerca di complicità e approvazione, come a dire: " hai visto quant'è figo il mio cane!"? 

La mia risposta non deve essergli piaciuta molto, visto che, dopo i gatti, il prossimo a darsela a gambe levate è stato lui, con cane al seguito (che, porello, non c'entra niente). 

mercoledì 23 novembre 2016

Una favola di Natale di Bonifacio Vincenzi per aiutare cani e gatti abbandonati

Vi giro questo comunicato stampa. Mi sembra una bella e lodevole iniziativa.


"È la magica atmosfera del Natale  a caratterizzare il terzo episodio della fortunata serie che vede protagonisti una gatta e un cane davvero simpaticissimi. L’autore è Bonifacio Vincenzi, un nome noto nell’ambiente letterario.
Un’indimenticabile notte di Natale  si intitola questo terzo episodio di Zoira e Max (Ag  Book Publishing Editrice). Le illustrazioni sono di Germana Di Rago.

Max è un cane sensibile che fa dell’umiltà la sua dote migliore; Zoira è una gatta viziatella dagli atteggiamenti aristocratici. Nonostante le differenze caratteriali e i continui bisticci, i due sono veri e grandi amici. Quando Strauss, angelo custode un po’ picchiatello e pasticcione, viene incaricato da Babbo Natale di coinvolgere Max nella consegna di un regalo molto speciale a Romeo, un bambino che ama i cani, lui non può fare a meno di trascinare anche Zoira nell’avventura. La magica atmosfera del Natale fa da sfondo a un viaggio in un mondo in cui i protagonisti sono gli animali, capaci di far riflettere con le loro azioni bambini e adulti su temi importanti della vita.

Grazie alla Casa Editrice AG Book Publishing,  chi acquisterà il libro illustrato per bambini "Zoira&Max: Un'indimenticabile notte di Natale",  contribuirà ad aiutare l'Associazione “Mi Fido” per la realizzazione dell'Oasi Arcobaleno per i cani e i gatti bisognosi.
L’ Associazione Mi Fido è una onlus di volontariato animalista fondata a Roma il 4 aprile 2005. Iscritta nel Registro Regionale delle Organizzazioni di Volontariato della Regione Lazio – Sezione Ambiente con il numero 580, è anche iscritta nell’Anagrafe Unica delle Onlus dal 2005. Per contatti, sede legale in via Nicolò Odero 19 - 00154 Roma (associazionemifido@gmail.com); telefono cellulare 331 6005643 .

Le copie di questa favola moderna possono essere ritirate a 10 euro nei tavoli informativi oppure prenotate inviando una mail a associazionemifido@gmail.com Il libro puo' anche essere acquistato a 12 euro con consegna a domicilio attraverso il sito della casa editrice a questo link http://www.agbookpublishing.com/…/bonifacio-vincenzi-zoira-…
Così augurate un Bellissimo Natale a tanti bambini con un occhio attento alla solidarietà .

AG BOOK PUBLISHING

P.S.: cani e gatti non si comprano. Si adottano dai rifugi e strutture apposite. 

domenica 20 novembre 2016

Maschio, bianco, etero di John Niven


Come sottotitolo avrebbero dovuto scriverci: ovvero, come prendere un cliché e trasformarlo comunque in un bel libro.

Antefatto: Qualche volta ammetto di comprare libri anche perché attirata dalla copertina, o dal titolo (gli editori lo sanno e mettono apposta copertine e titoli accattivanti; mi è successo con Non lasciarmi di Ishiguro, ad esempio. Chissà, forse dovrebbero indire un concorso per la migliore copertina o il miglior titolo). 
Ovviamente poi leggo la sinossi sulla quarta di copertina e se mi convince è fatta. 
Non so cosa mi abbia colpita di Maschio, bianco, etero, forse il titolo, che mi ha fatto venire in mente storie di dominio e colonialismo, oppure la foto di questo tipo dentro una vasca da bagno, ricoperto di schiuma e che sembra spassarsela un mondo. L'espressione di "chi se ne frega" e via dicendo. O forse la sinossi che ricordava vagamente qualcosa. Nemmeno tanto vagamente, a dire il vero. Sembra la storia di Hank Moody, il protagonista della serie tv Californication, ho pensato non appena l'ho letta. Magari è il romanzo da cui è tratta la sceneggiatura, ho detto tra me e me. Ma no, la serie è uscita molti anni prima, quindi boh, chissà, prendiamolo. 
Dunque, la prima parte è effettivamente una mezza truffa. La storia sembra copiata di sana pianta da Californication, così come i personaggi principali e una parte consistente della drammaturgia. Mi domando come mai nessuno gli abbia fatto causa. 
E mi è sembrato anche tronfio, pieno di sé, denso di citazioni per far vedere che l'autore ha letto un sacco di libri. Poi però nella seconda parte cambia qualcosa, o meglio, viene fuori il talento di John Niven. 
Il punto è che anche qui non dice nulla di originale, parla dei morti e della morte e cita Joyce e Saul Bellow e anche la fine è un omaggio a Joyce (la furbata di aver pensato a un protagonista irlandese, eh, manco a farlo apposta), ma riesce comunque a infonderci qualcosa di personale e nell'insieme è un bell'affresco sulla vita di un debosciato che pensa che tutto gli sia dovuto per il solo fatto che abbia talento, ma che poi, a un passo dall'abisso, ribalta la propria scala di valori. C'è un deus ex machina abbastanza improbabile, ma che funziona. 
Sembra che l'autore dica: sì, c'è poco di originale in questa storia, ma il talento non sta proprio nel dire le stesse cose di sempre riuscendo a renderle ancora una volta interessanti?
Mi viene in mente quella frase detta non so da chi: tra una copia fatta bene e un originale fatto male, meglio la prima. 
Insomma, se vi è piaciuta Californication potete buttarci un occhio. Se non l'avete vista, meglio ancora. 

venerdì 18 novembre 2016

Dialoghi tra animali


- E così sei vegana?

- Mah, guarda, non mi piace molto definirmi così, preferisco dire che non mangio gli animali e i prodotti del loro sfruttamento. Perché gli animali sono individui come noi. Diversi da noi, ma anche come noi nel senso della capacità di sentire, voler stare al mondo, correre, ricercare il piacere e sfuggire il dolore, avere relazioni, tanto per dirne qualcuna.

- Sì, ma insomma sei vegana. Quello che non mi piace di voi vegani è che pretendete di dire agli altri cosa devono o non devono mettersi nel piatto. E per di più giudicate, anche. 

- Capisco quello che intendi. Ma la vedi così solo perché tu hai una visione limitata della questione. La limiti a quello che ti metti nel piatto. E mi rendo conto che purtroppo è anche la maniera in cui si fa informazione che conduce a questa visione limitata. Il motivo per cui non mi piace essere definita vegana è proprio questo. A me non interessa parlare di come sono io, di cosa fanno o dicono i vegani. Il veganismo, in sé, è una banalità. Ma allo stesso tempo, per quello che c’è dietro, apre a un sacco di questioni. Nel senso che è solo, banalmente, una conseguenza dell’aver preso atto di una questione molto più grande. Immensa, macroscopica. E questa è la questione animale. Ossia riguarda la maniera in cui noi trattiamo gli altri animali. Mette in discussione ciò che abbiamo sempre creduto: vale a dire che gli animali esistano per essere sfruttati e mangiati da noi, anziché come individui unicamente soggetti della loro stessa vita, quali dovrebbero essere.
Quindi, tornando all’obiezione che mi poni, nel momento in cui tu la smetti di pensare a quello che hai nel piatto, ma apri gli occhi e inizi a vedere cosa c’è dietro, ti si spalanca un altro mondo e capisci quant’è grossa la questione. Insomma, non stiamo parlando di pizza e fichi, capisci, ma di giustizia. Sì, giustizia sociale.

- Mi sembra esagerato. Con tutti i problemi che ci sono nel mondo. Capisco che sia sbagliato maltrattare gli animali, ma non è il problema cardine delle nostre società.

- Ed è qui che ti sbagli. Innanzitutto, se una cosa è sbagliata, lo è anche se è solo una delle tante ingiustizie del mondo. Secondo poi, la maniera in cui trattiamo gli altri animali sta alla base di tutta una serie di valori e considerazioni che ne discendono. Ma se anche non fosse così, a me pare che massacrare circa cinquemila individui ogni secondo per trasformarli in bistecche senza che ce ne sia alcun bisogno, non sia proprio un evento trascurabile. 

- Sicura che non ce ne sia bisogno?

- Ecco, qui entriamo in gioco noi vegani. Una  volta tanto a ragione. Siamo la prova vivente che si può vivere benissimo facendo a meno di salami e mascarpone. E non solo in occidente, dove il cibo abbonda, ma anche nel resto del mondo. In fondo l’India ha sempre avuto una percentuale elevatissima di vegetariani e in molte terre africane si coltivano già cereali come il riso o legumi come la soia che potrebbero sfamare interi popoli, se non venissero dati agli animali negli allevamenti. Quindi, questa della necessità di mangiare carne per fame o per motivi di salute è una menzogna, o meglio, un falso luogo comune duro a morire. 

- OK. Ma non tutti sono interessati agli animali. Perché a me dovrebbe interessare del destino di una mucca?

- Anche qui, se mi fai questa obiezione è perché hai una visione limitata del problema. La questione del rispetto degli altri animali non riguarda solo chi ama gli animali, i cosiddetti animalisti, ma dovrebbe riguardare chiunque si fregi di essere una persona rispettosa e con un minimo di dignità. Come può una persona che si reputi un minimo altruista poter permettere che miliardi di individui subiscano ogni giorno violenze inenarrabili senza muovere un dito? Anzi, peggio, come può continuare a partecipare a questo sistema di violenza sistematica senza che mai la sua coscienza ne venga un minimo scalfita? 
Oggi sappiamo tantissime cose sui macelli e gli allevamenti. Sappiamo cosa accade al loro interno e nessuna persona adulta e smaliziata – ossia che abbia smesso di credere a Babbo Natale da un bel pezzo – può davvero pensare che gli animali siano trattati e uccisi con rispetto. Andiamo, è un meccanismo psicologico basilare: per uccidere qualcuno ti devi convincere che lo meriti, che valga meno di te e di me, che sia… poco più di un oggetto. E spesso per sminuire l’idea che si ha di questo qualcuno si ricorre a ogni genere di espediente come l’umiliazione, la privazione della sua etologia, la derisione, lo scherno. Le botte. Ma questa è follia. Gli animali sono creature che non ci hanno mai fatto nulla di male e che provano persino sentimenti di curiosità e affetto verso di noi. Perché mai dobbiamo usare così tanta violenza su di loro?

(Continua).

Immagine di Andrea Festa.



giovedì 10 novembre 2016

Andare o non andare?

Al cinema è uscito Pastorale americana, tratto dal capolavoro di Philip Roth ed esordio registico di Ewan McGregor (nei panni anche del protagonista, Levov lo svedese). 
Una parte di me è curiosa di vederlo, l'altra sa già che ne resterà delusa. 
Dalle recensioni che ho letto e trailer che ho visto mi sembra che la sceneggiatura si concentri sulla parabola di Merry, la figlia di Levov. Affidarsi a un elemento drammaturgico così scontato è stata sicuramente la soluzione più facile, ma anche quella che rischia di ridurre lo spessore narrativo.
Io ci avrei visto bene la ricerca di un'astrattezza maggiore, sul genere di Cinque pezzi facili o di America oggi. 
Ecco, lo avrei visto bene nelle mani di Altman o, meglio ancora, Kubrick. 
Tra i registi di oggi, forse Anderson.

mercoledì 9 novembre 2016

La migliore delle specie


Il video di un cucciolo di iguana terrorizzato che fugge inseguito dai serpenti ha ottenuto moltissimi commenti divertiti: "Wow, meglio di un film di James Bond!", "Entusiasmante!", "Adrenalina pura!", "L'inseguimento del secolo!" e via dicendo. 

Vorrei vedere se al posto dell'iguana ci fossero stati loro o magari i loro adorati figlioletti!

La natura è feroce. Non c'è nulla di epico e sublime nelle scene di predazione. Pura, terribile necessità. 
Che se ne esalti la violenza a me sembra che sia finalizzato a giustificare anche quella che la nostra specie pratica per profitto, non già per necessità.
Che tutto quello che sia naturale debba essere per forza anche bello e giusto è un mito decisamente da sfatare. 
Le malattie sono naturali, molte catastrofi sono naturali, la morte è naturale, la sofferenza è naturale. 
Tutto ciò è ineluttabile, ma non è certo bello. 
Ora, quando si tratta di proteggere noi stessi cerchiamo di far fronte in ogni modo possibile alla tragicità della natura. Ci curiamo, ci proteggiamo dagli eventi atmosferici, ci difendiamo; quando invece si tratta degli altri animali lo accettiamo come se le loro sofferenze fossero meno significative o, peggio, fondamentali per far girare il mondo come deve girare. 
Abbiamo distrutto mezzo pianeta - e quindi siamo intervenuti pesantemente sulla natura - per trarne profitto, ma se ci imbattiamo in un animale ferito per strada ancora passiamo oltre affermando: "eh, ma è la natura, dobbiamo lasciar fare". 
Il nostro giudizio sulla natura muta a seconda dei soggetti coinvolti. Quando le vittime siamo noi, allora è giusto intervenire; quando sono gli altri animali, allora tutto deve restare così com'è. Anzi, il nostro giudizio è talmente accecato da questo pregiudizio antropocentrico che arriviamo a definire divertente e meravigliosa la scena di un cucciolo che fugge terrorizzato. 
Non è che mi stupisce tutto ciò; mi stupisce l'incapacità di ammettere questa palese contraddizione. 
Non mi stupisce la brama di predominio, ma il candore con cui pretendiamo di non farla passare per tale e la pretesa arrogante di giustificare la violenza che noi stessi pratichiamo.
Facciamo cose atroci agli altri animali. Però non vogliamo sentircelo dire. Vogliamo che ci si dica che siamo giusti, saggi, intelligenti e sensibili. La migliore della specie. 
Non si tratta di essere misantropi. Solo obiettivi. 

E intanto in America ha vinto Trump. 

martedì 8 novembre 2016

Il mattatoio: lasciate ogni speranza, o voi che entrate.

Stanotte ho avuto un incubo: mi trovavo all'interno di un mattatoio. Giravo nei vari reparti e ovunque inciampavo in pezzi di animali morti. Il sangue filtrava dalle pareti e colava dal soffitto. A un certo punto mi imbatto in due tizi che tenevano un maiale per le zampe e lo passavano, ancora vivo, sotto a un macchinario che ne tagliava via le setole. Mi sono messa a urlare e mi sono svegliata con il respiro mozzato. 
Un incubo. Già. Eppure per gli animali è tutto vero.

Di recente Eloise Cotronei ha raccolto la testimonianza di un ex macellaio, ora vegano. Pubblicata sulla pagina FB di NOmattatoio, la ripropongo a seguire:


"Arrivavo all'alba, accompagnato da mio padre: ricordo i rumori assordanti, il fetore, le urla, i lamenti, l'incapacità di poter trovare un riparo, anche solo per un momento, per distaccarmi da quello che vedevo accadere davanti ai miei occhi.
Figlio di un macellaio, avevo 8 anni quando entrai per la prima volta in un mattatoio.
Di questo luogo rimane impresso nella mia mente il protrarsi della violenza senza limite inflitta con qualsiasi mezzo a delle creature terrorizzate.
Ho visto maiali arrivare sfiniti dopo viaggi estenuanti sui camion, immersi nei loro escrementi, e ricoperti di piaghe infette e pus in tante parti del corpo.
Gli animali venivano scaricati in piccoli box prima di essere letteralmente afferrati e spinti con qualsiasi mezzo e oggetto contundente per procedere alla macellazione. I maiali, già visibilmente stremati e nervosi, avvertendo l'odore nauseante del sangue misto a feci, si mordevano tra di loro e, sempre nei box di attesa, venivano afferrati violentemente dagli operatori con un attrezzo chiamato "torcinaso" che, a forma di cappio, stringe la circonferenza del naso del povero maiale a tal punto da far scoppiare le cartilagini. 
I maiali e tutti gli altri animali venivano trascinati in qualsiasi modo, l'importante per i macellai era arrivare alla fase successiva: l'uccisione e lo squartamento.
Ho visto scrofe gravide che venivano letteralmente squarciate nella pancia con i feti che fuoriuscivano immersi nel liquido amniotico, budella e sangue, contorcersi e soffocare nel loro sangue appese a una zampa.
Se un animale presentava una frattura, la preoccupazione per i macellai era l'impossibilità di vendita di quel "pezzo" "difettoso".
L'interno di un mattatoio è scioccante dall'inizio alla fine, gli animali vedono i loro compagni che vengono massacrati. 
Non scorderò mai le urla strazianti quando venivano sventrati, ricordo il rumore degli intestini che precipitavano fuori dal corpo mentre gli animali si dimenavano appesi a testa in giù.
Non ho visto niente di più atroce e terribile in vita mia! 
Ora che sono diventato vegano e attivista, non passa un giorno e una notte in cui non si presenti il ricordo vivido di quegli anni.
Ho visto mucche gravide che subivano la stessa atroce sorte delle scrofe: ancora coscienti, appese da una zampa, venivano sventrate e dopo la fuoriuscita del piccolo vitellino già formato, ho assistito alla brutale pratica di squartamento del piccolo mentre il cuore ancora batteva.
Al mattatoio di Quartu Sant'Elena (CA) i maiali venivano presi a sprangate in testa, sul muso; ho visto l'accanimento di operai su quelle povere creature, fino a che non fossero riusciti a spaccare il cranio dalla botte inflitte, ho visto fuori uscire il cervello da animali con la testa fracassata.
Ho visto persone scaricare ogni tipo di violenza sugli animali che dovevano essere uccisi.
L'elemento più importante era la velocità, la considerazione degli animali non esiste, non esiste nessun tipo di limite alla violenza.
Gli agnelli venivano legati dalle zampe e su un tavolo venivano sgozzati uno dopo l'altro.
Mio padre, quando avevo 12 anni, ha sgozzato un agnellino davanti a me e ancora rivivo quello schock.
Mi sono opposto a tutto questo e spero che questa mia testimonianza possa essere d'aiuto per diffondere la verità.
Abito ancora vicino al mattatoio e ogni volta che vedo passare i camion di animali, mi domando come abbia potuto non comprendere prima che tutto questo debba essere fermato.
Ora questa è la mia missione: far sapere cosa si nasconde all'interno di questi luoghi e combattere lo sfruttamento animale, è una questione di giustizia."

Grazie ad Angelo Badas per averci rilasciato questa importante testimonianza.


Alla fine dell'intervista, Angelo ha voluto concludere dicendo: "Non mi devi ringraziare, questa è la mia causa, è la nostra causa, tutto questo lo faccio per loro, per gli animali".

lunedì 7 novembre 2016

Pensare con la pancia

Tanta, troppa gente ancora è convinta che sia necessario mangiare gli altri animali per vivere. 
Opinionisti in tv, anonimi del web, persone istruite e meno istruite, nutrizionisti improvvisati che fino al giorno prima non sapevano distinguere un cereale da un legume, conduttrici che esaltano il sapore del San Daniele, tutti concordi nel sostenere l'altissimo valore nutritivo nonché indispensabile della fettina. 
Mai sazi, nemmeno della loro ignoranza. 


sabato 5 novembre 2016

Numeri o individui? Una riflessione sul riduzionismo.



Ne avevo già parlato in un altro post, ma mi preme l'urgenza di ribadire alcuni concetti.
Il riduzionismo può essere considerato accettabile solo nell'ambito di un percorso individuale, inteso quindi come incoraggiamento per arrivare a eliminare il consumo di ogni tipo di animale e derivato. 
Non può invece essere sdoganato come messaggio da inviare alla collettività, sostanzialmente per due ragioni: parlare di ridurre la carne implica il permanere della condizione e considerazione degli altri animali come cibo e non aiuta il processo di ri-educazione della nostra percezione a vederli quali gli individui senzienti che di fatto sono. Parlare di ridurre la carne significa parlare ancora di animali come cibo, quindi significa di fatto restare dentro il paradigma del carnismo e ostacolare la comprensione del fenomeno quale ideologia indotta culturalmente. 
Secondariamente, la promozione del riduzionismo creerebbe di fatto una frattura nel movimento per la liberazione animale, facendo percepire chi promuove il veganismo - quindi chi invita ad abbandonare ogni tipo di consumo di prodotti derivati dagli animali - come estremista. 
In aggiunta a tutto ciò, non c'è nessuna prova che promuovere esplicitamente il riduzionismo possa favorire la scelta vegana, che è l'unica che si possa dire rispettabile se vogliamo appunto parlare di rispetto degli animali. 
Certamente se sempre più persone facessero la scelta di ridurre intanto il consumo di carne ci sarebbe una drastica riduzione delle vendite, ma restando sempre nell'ottica deprecabile dell'animale come cibo, quindi in un'ottica specista e mercificante. 
Penso che dipenda allora da cosa vogliamo: ridurre il numero degli animali uccisi senza mettere in discussione la legittimità del loro sfruttamento o rivoluzionare la considerazione che abbiamo di essi cominciando finalmente a intenderli come nostri fratelli di vita su questo pianeta? 
Perché delle due, l'una: o riteniamo che sia lecito sfruttarli, schiavizzarli, violentarli, massacrarli riducendo l'orrore a una mera questione di numeri, oppure riconosciamo l'ingiustizia della violenza sui corpi - ogni corpo, a prescindere dalla specie di appartenenza - come oggettiva e non negoziabile, respingendo quindi il concetto che siano i numeri a fare la differenza. La liberazione animale non può essere ridotta o svenduta a un discorso di numeri, cioè quantitativo, ma deve essere qualitativo, ossia deve riguardare l'idea che abbiamo del mondo e della società.
La scelta del riduzionismo implica il restare dentro un discorso legato alla produzione che considera l'animale un semplice numero; la scelta del veganismo invece contempla un cambiamento radicale - anche se progressivo - della società in cui viviamo: una società in cui non esistono numeri, ma solo individui.

Foto trovata sul web di Animals' Angels.

P.S.: oggi ricorre l'anniversario della morte di Barry Horne, di cui avevo parlato qui