(foto di Alessandra Antonini)
Misoteria per Di versi animali, questo il titolo scelto per un evento che si è tenuto durante la serata di venerdì, a Roma, presso il Caffè letterario di Trastevere.
Non a caso ho scelto il termine “evento” perché è stato qualcosa di più della somma delle parti di quanto era in programma e perché c’è stato un filo conduttore a legare insieme il tutto, rendendo la serata veramente coinvolgente per tutti quanti vi hanno partecipato.
Ma vediamolo un po’ più da vicino. Reading poetico, performance interattiva con Alfredo Meschi e mostra fotografica e poi, per finire, breve presentazione della campagna NOmattatoio. A leggere la descrizione uno si sarebbe immaginato quattro eventi separati gli uni dagli altri, per quanto legati dal filo conduttore dello specismo (misoteria significa, semplicemente, odio per gli animali, dove, per animali, si intendono tutti gli animali, specie homo sapiens compresa).
E invece nel dispiegarsi dei quattro diversi momenti non si è avvertita cesura alcuna e, come poi mi ha detto Marco, la soddisfazione è stata proprio nella realizzazione di quanto era stato prima immaginato.
Al solito, non si realizza che ciò che è stato prima in qualche modo desiderato.
Nell’ambiente raccolto e caldo della saletta, la serata è cominciata con una chiacchierata per presentare gli autori, Marco e Alfredo, e anticipare qualcosa delle loro opere. Ma il tutto è durato davvero pochi minuti perché poi siamo stati immediatamente chiamati a prender parte e a diventar parte delle stesse: da una parte, prestando ascolto alle poesie di Marco recitate con giusta e coinvolgente misura da Paola Simonetti, dall’altra, chiamati a interagire con i nostri corpi alla performance di Alfredo.
La parola chiave, il filo conduttore dell’intero evento, come significante e come significato, è il corpo. I nostri corpi, che sono fatti di pelle, carne, ossa e si esprimono e agiscono nel mondo attraverso i canali sensoriali; e i corpi degli altri animali che a malapena si muovono nell’oscurità di terrificanti lager invisibili ai nostri occhi. Il senso di tutto è ridare invece visibilità a tutti questi individui dimenticati, farli uscire dal gigantesco cono d’ombra dell’indifferenza in cui, “sotto gli occhi distratti del mondo” vengono sospinti a forza dall’arrogante antropocentrismo e misoteria che, purtroppo, è la maniera in cui si è espresso nei secoli il dominio che contraddistingue la nostra specie.
Alfredo ha usato il proprio corpo in maniera radicale. La performance è il suo corpo. Un corpo sui cui si è fatto tatuare 40.000 X, una per ogni animale che muore al secondo (e parliamo solo degli animali uccisi a fini alimentari: dal conteggio sono esclusi infatti gli animali uccisi per la vivisezione, pellicce o che periscono negli altri non-luoghi di detenzione come zoo, circhi ecc.). Ma ogni X rappresenta anche altro, ad esempio l’euro che attraverso le tasse lo stato ci prende per partecipare agli armamenti di guerre volute dai governi solo per l’accaparramento di materie prime di altre zone del mondo o, tutte insieme, gli anni che dovrebbe lavorare un operaio cinese per guadagnare quanto guadagna uno stilista famoso in un singolo giorno.
Le X sono segni incancellabili. Sono ferite, cicatrici, sono il marchio indelebile della sofferenza partecipata e condivisa.
Ma il segno indelebile di una sofferenza partecipata e condivisa sono anche i versi delle poesie di Marco. Di versi animali perché raccontano delle ingiustizie che subiscono gli animali, ma perché anche suppliscono, questi versi, i loro lamenti inascoltati, senza scarto alcuno. La poesia per Marco è la trascrizione a riposo dell’immediatezza di un sentire, quindi di un dolore, di uno strappo che viene poi dolorosamente ricucito sulla pagina.
Tra il corpo in scena di Alfredo, insieme a cui è stato invitato a interagire parte del pubblico, e il suono dei versi di Marco - suoni spesso anche onomatopeici, duri, sferraglianti, metallici, come dure e sferraglianti e metalliche sono le catene che imprigionano gli animali - non c’è stata soluzione di continuità alcuna. Siamo stati, per pochi attimi, solo corpi intrecciati che si muovevano e grugnivano o respiravano insieme. Qualcuna ha pianto, qualcun altro si è commosso dentro restando impassibile fuori, altri hanno ascoltato in silenzio. L’atmosfera era carica di emozione e di un senso ulteriore al tutto che si è andato ad aggiungere ai singoli significati dei gesti in sé. Un’epifania, se vogliamo.
E abbiamo scoperto, o semplicemente riscoperto, il valore modestissimo, ma allo stesso tempo anche immenso dell’unicità del nostro corpo. Immenso non perché eccezionale, ma perché irripetibilmente unico e parte irrinunciabile dell’insieme di tutti i viventi sul pianeta.
Insieme, sul palco – ad accompagnare ogni nostro gesto lento le voce di Paola che recitava le poesie - anche noi ci siamo disegnati le X sul corpo. E poi abbiamo scelto una frase ciascuno che ci siamo ancora scritti a vicenda e abbiamo intrecciato le nostri mani, i nostri sguardi, i nostri odori, esattamente come fanno tutti gli animali, solo che noi, a differenza di quei corpi che sono ammassati dentro i tir per andare a morire o dentro le stanze buie di un capannone dove si lavora a cottimo, eravamo in pace e rispettosi l’uno dell’altro.
La lezione più importante è stata capire e riscoprire che il confine è sempre il corpo dell’altro. Un confine che sfuma nel mio e che riconosco come parte del mio in quanto esattamente come il mio (a prescindere dal colore della pelle o dal fatto che si abbiano quattro zampe o due o che sia ricoperto di peli, di piume o di scaglie) e che sempre e solo dovrebbe essere percorso da carezze di gentilezza e mai da violazioni e dominio.
Forse, l’unica maniera per interrompere questa violazione e queste continue pratiche di violenza che avvengono ai danni di una moltitudine inimmaginabile (tutta quella moltitudine che abita i piani bassi e gli scantinati del grattacielo del potere, per citare la metafora di Horkheimer) è riappropriarci allora del valore immenso del nostro corpo, farne terreno e strumento di lotta e quindi usarlo per dare voce a tutti coloro che sono stati messi a tacere; ma anche, riconoscerci corpi tra corpi, arrivare a sentire che siamo tutti nient’altro che corpi animali destinati presto a perire. Riconoscerci nella fragilità del maiale che sui camion della morte va a morire (come abbiamo potuto vedere nei video girati durante i presidi NOmattatoio, presentati a fine serata), così come nella testimonianza di un corpo, come quello di Alfredo, che non teme di esporsi nudo tra gli altri e che proprio in questa disarmante vulnerabilità ritrova la forza di essere intrecciato agli altri.
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