Ieri ho visto il documentario "Live and let live" e l'ho trovato molto serio e ben fatto.
Comunica in modo preciso e semplice cosa significhi essere vegani soffermandosi a lungo sullo sfruttamento degli animali; il taglio è etico-politico, ossia non perde mai di vista il significato originario di veganismo come rifiuto di prender parte al sistema di dominio capitalista che mercifica e schiavizza i viventi e sfrutta le risorse del nostro pianeta per il mero profitto delle multinazionali.
Ci sono varie persone e personaggi intervistati: Peter Singer, Tom Regan, Gary Francione, Melanie Joy, T. Colin Campbell e poi due ex allevatori che oggi gestiscono un rifugio, una coppia di attivisti (c'è un breve, ma incisivo accenno anche alla repressione del movimento per la liberazione animale negli Usa e in Spagna e c'è una bellissima scena di una liberazione di alcune galline) una ragazza vegana, un atleta vegano, un cuoco vegano, un agricoltore e alcuni esperti ecologisti e studiosi di varie discipline.
Anche quando affronta l'argomento della nutrizione, l'approccio rimane sempre molto incentrato sulle ragioni precipue del veganismo: si cerca di comunicare che diventare vegani è molto facile e che non ci sono rischi per la salute, ma mai facendo scivolare il discorso sul mero piano salutista o banalmente alimentare ossia, mai facendo diventare il veganismo un discorso fine a sé stesso senza più alcun collegamento con le pratiche di attivismo e di liberazione animale.
Mi domando cosa manchi a noi per realizzare un lavoro di questo tipo: serio, incisivo, profondo, pur essendo divulgativo e semplice nel messaggio.
Riflettevo sui vari talk show nostrani in cui si è messi di fronte a domande ridicole che per forza di cose fanno scivolare il discorso a livelli bassissimi o in cui il veganismo è presentato ancora (ancora!) come una scelta estrema inserita in una cornice di tifoseria da stadio (vegani Vs. onnivori) e sono giunta alla conclusione che la colpa è sì certamente dei media e dei giornalisti e presentatori che cercano solo l'audience e spettacolarizzano in maniera becera un argomento in realtà così complesso e sostanzialmente, eminentemente politico (politico in senso ampio), ma un po' anche nostra, ché anziché dedicarci e investire energie nella realizzazione di un lavoro ben fatto, preferiamo andare allo sbaraglio in trasmissioni di dubbio gusto in cui per forza di cose il messaggio che passa è, nella migliore delle ipotesi, diluito, nella peggiore, ridicolizzato.
Credo anche, come ha di recente ben argomentato Silvia Molè in una sua intervista, che i media ci mettano del loro per oscurare la questione animale, attuando una forma subdola di censura che consiste nel ridicolizzare la questione chiamando ad esprimersi a campione rappresentativo del movimento personaggi di dubbie capacità e serietà.
Forse dovremmo proprio sganciarci dall'idea di voler apparire nei media a servizio del potere - che di default non ci ritaglieranno che spazi mal tagliati, distorcendo il nostro messaggio - portando avanti una comunicazione efficace parallela sui social o realizzando documentari o altri lavori ben fatti come quello che ho visto ieri sera.
Un'altra cosa che noto - anche sui social - è che noi ci perdiamo in sofismi di varia natura assumendo il pericoloso atteggiamento dell'autoreferenzialità, mentre all'estero comunicano in maniera semplice, diretta, senza orpelli, senza mai perdere di vista il nocciolo della questione.
Il mio modesto suggerimento è che dobbiamo imparare da chi sa fare meglio.
Tornare al nocciolo della comunicazione: diretta, efficace, pulita.
All'esterno non parlano di antispecismo, se non in contesti accademici o di un certo tipo (ah, quanto ci piace a noi riempirci la bocca con questa parola che tanto spesso viene fraintesa; piccola nota di colore: mia cugina credeva che significasse voler abolire le diversità di specie, nel senso di non voler proprio più riconoscere la speciazione che c'è stata durante l'evoluzione. E ti credo che poi appariamo come una setta di fanatici estremisti!), dicevo, all'estero non parlano di antispecismo, ma continuano a usare il termine veganismo che è compreso da tutti e soprattutto non ha perso la sua connotazione originaria di pratica individuale, da un lato, ma che poi si interseca con l'attivismo a tutto tondo e sempre sostanzialmente mirata a decostruire l'attuale sistema capitalista di sfruttamento e dominio del vivente.
"Live and let live" (che titolo semplice, eh? Quasi banale, eppure è essenziale perché questo significa essere vegani e attivisti per la liberazione animale) lo trovate su Netflix.
1 commento:
il tuo post mi ha fatto venire desiderio di vedere questo film, Rita. Per come la vedo io, tu ei già molto avanti in questo tipo di comunicazione che in Italia sembra mancare. Una comunicazione di sile anglosassone, innanzitutto trasparente. Ci si confronta, anche se non si condividono idee, concetti, prassi, e lo si fa in maniera trasparente, anche perché nascondere, censurare o far finta che non esista qualcuno che ha un altro punto di vista su un argomento altriementi condiviso, è ben poco serio, professionale e costruttivo. Gli anglosassoni, pragmatici, lo sanno bene. Noi, no.
Chi ne fa le spese? Gli animnali che pretendiamo di "difendere".
Ho rirpreso a scrivere sul mio blog. Piano piani, spero di recuperare l'anno e mezzo silenziato, e intendo farlo con questo approccio, din cui tu parli e scrivi qui.
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