Parliamo ancora di maschilismo e società patriarcale.
Ho appreso ieri per la prima volta la storia di Tiziana Cantone, la ragazza diventata famosa, suo malgrado, per un video semiporno diffuso in rete senza il suo consenso. Da quel giorno la sua vita non è stata più la stessa: il video è diventato virale nel giro di poco tempo e lei è stata presa di mira in ogni squallido modo possibile. Oggetto di scherno e di parodie di vario genere, non solo sui social, ma anche nella vita reale, è caduta presto in depressione, tanto che ha dovuto cambiare città e stava meditando di cambiare persino identità.
Ieri si è tolta la vita. L'hanno trovata impiccata.
Avete idea di quale carico psicologico debba arrivare a sopportare una persona la cui privacy è stata totalmente annullata?
Mi domando che tipo di società sia questa in cui non ci si pone alcun tipo di limite nei confronti del rispetto della sensibilità altrui.
La rete e i social sono spietati. Ora, resta da capire se questa spietatezza sia lo specchio di quel che c'è fuori (ostentazione del privato: una sorta di amplificazione del sistema spettacolo dei vari reality tv dove realtà e finzione si confondono e nella confusione finiscono per essere entrambi azzerati), o se sia peculiare della distanza creata dal mezzo e dalla facilità con cui ci si deresponsabilizza nell'atto di premere un clic, ignari delle conseguenze delle nostre parole, video, immagini ecc. (McLuhan diceva che il mezzo era il messaggio, ma certamente non analizzava questi nuovi mezzi, che forse sono peculiari).
Ma, al di là di questa considerazione sull'uso dei social e su come questi nuovi mezzi stanno trasformando i concetti di pubblico e privati, ciò che più mi atterrisce è leggere le reazioni a questa notizia o ad altre simili.
Ieri sera ho navigato un po' in rete perché volevo capirne di più e ho letto cose terrificanti: centinaia di commenti da parte di uomini, ma anche di donne, che anziché riflettere sulla tragedia del suicidio di una giovane donna e su come alla fine tutti ci dovremmo sentire responsabili per via dell'uso maldestro e sbagliato che spesso facciamo della rete (e su come tante volte asfaltiamo senza pensarci la sensibilità altrui), non hanno fatto che rafforzare quegli stessi pregiudizi che hanno causato la tragedia stessa; commenti dal chiaro tono insultante e accusatorio nei confronti della ragazza. Commenti come: "era una troia", "il video è stato girato con il suo consenso, è stata stupida lei", "poteva pensarci prima" e via dicendo.
Ora, vero che lei sapeva del video, ma non ne aveva certamente autorizzato la diffusione.
In questi commenti si intersecano due piani: quello del moralismo per cui se fai sesso liberamente sei per forza di cose una troia e se sei una troia tutti si devono sentire autorizzati a dirtelo; quello del maschilismo per cui, se sei una troia, dunque ti meriti la pubblica gogna e se finisce male, embè, in fondo te lo sei meritato.
Nella società maschilista le donne si dividono in due: le sante (madri, sorelle, mogli, fidanzate), e le puttane, che sono quelle che fanno sesso liberamente perché magari non hanno legàmi o perché gli va così (e nessuno, in un paese laico, si dovrebbe permettere ancora di giudicare il libertinaggio sessuale). Nei paesi si diventa puttane anche per molto meno. Nelle piccole realtà, ma anche nei quartieri delle metropoli, si diventa puttane facilmente per una gonna un po' più audace, per pettegolezzi, per calunnie, per gelosie e invidie o, semplicemente, perché si è avvenenti. E va da sé che le puttane sono quelle che si meritano stupri, denigrazioni, isolamento sociale e tutto il resto.
Il maschilismo è proprio in questo giudizio del comportamento e dei corpi femminili. Nella linea di demarcazione che divide la santa dalla puttana.
Penso a questa ragazza che ha subìto la violenza e la vergogna. E non sto parlando ovviamente della vergogna dell'aver fatto sesso, ma di quella di aver visto alcuni momenti intimi della sua vita dati in pasto alla rete. E penso a quanto siamo ancora lontani dall'affrancarci da questi meccanismi giudicanti nei confronti delle donne, della loro sessualità e dei loro corpi.
Chi scrive: "era solo una troia" è esattamente come coloro che hanno giustificato altri tipi di abusi - in altri tempi - dicendo "sono soltanto animali".
Tutti quelli che l'hanno presa in giro, molestata, offesa, denigrata sono complici della sua morte. Ma tanto lo so già cosa diranno e lo so perché lo stanno effettivamente dicendo: colpa sua, se l'è cercata.
Chi ha diffuso il video certamente non poteva sapere che sarebbe finita così; eppure avrebbe potuto facilmente immaginarlo: sarebbe bastato mettersi nei suoi panni. Esercitare sempre quella cosa là, l'empatia.
Ma l'empatia muore perché appunto si attua il medesimo dispositivo concettuale che applichiamo per giustificare ogni tipo di violenza, psicologica e non: l'altro non è come noi, l'altra è solo una puttana, l'altro è solo un animale.
I greci antichi avevano un concetto che si chiamava amartia e che indicava l'errore e la responsabilità, anche per non essere stati in grado di prevedere gli effetti di un'azione.
Certamente chi ha diffuso il video non è colpevole in senso diretto, ma nella tragedia classica sarebbe comunque reo poiché responsabile, anche se indirettamente, in quanto era facilmente prevedibile la valanga di "notorietà negativa" da cui sarebbe stata travolta Tiziana nel mettere in rete quel video.
L'inconsapevolezza non rende meno grave la violenza di un atto.
1 commento:
> sei per forza di cose una troia e se sei una troia
Premetto (e ci sono varie pagine nel mio diario e in quello della ex-coppia che lo confermano) che essere Troia, a letto, essere artiste dell'Eros è un dono, un aspetto che innalza una femmina al divino, all'Arte.
Detto questo, se una persona gioca a fare la troia, come ha fatto Tiziana Campione (che io ammiro pure un po', idealizzandola) deve essere in grado di sostenere il ruolo.
Un po' come un alpinista che deve essere preparato fisicamente, tecnicalmente e psicologicmanente oppure un palombaro o un marinaio o un [varie cose qui].
E' bene chiamare le cose col il loro nome e che le cose siano ciò che sono, senza voler travisarsi ad altro.
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