Non amo molto parlare di veganismo e dei vegani, principalmente per due motivi: non considero il veganismo un punto di arrivo, ma solo la messa in pratica logica e consequenziale di una presa di coscienza più ampia che riguarda la maniera in cui noi ci relazioniamo con gli altri animali e da cui mettiamo in discussione il dominio e le pratiche di violenza che attuiamo nei loro confronti; in questa accezione il veganismo diventa una testimonianza individuale, ma non raggiunge ancora una dimensione pienamente politica.
Il secondo motivo è che oggi questo termine, di pari passo con la sua diffusione, ha perso persino la componente di testimonianza individuale per diventare una dieta, una maniera alternativa di alimentarsi e ha assunto altre e svariate connotazioni che lo hanno allontanato ancor di più dal significato originario. Insieme a queste tante altre connotazioni purtroppo – come conseguenza di una semplificazione e banalizzazione mediatica – si sono diffusi moltissimi pregiudizi; pregiudizi che, volente o nolente, essendo comunque vegana anche io, riguardano anche me, così come tutti i miei compagni di lotta e che con cui sento quindi di dovermi necessariamente confrontare.
Sempre citando Melanie Joy a proposito delle reazioni del sistema di secondo grado, ricordo che durante un seminario che tenne a Roma presso la sede della Lav un paio di anni fa, disse una cosa molto interessante: ossia che molti vegani stessi, con l’avanzare del veganismo (negli USA il termine vegan ha una dimensione più politica e ancora vicina al significato originario) avrebbero iniziato a porre in atto delle resistenze di tipo inconscio: resistenze dovute alla persistenza dell’ideologia carnista che non smette mai di lavorare in profondità e continua a tracciare i confini tra ciò che è considerato “normale” dalla società e ciò che viene visto come “estremo” o “esagerato”, “fuori dagli schemi”, rinegoziando quindi continuamente le nostre convinzioni e quanto di noi siamo disposti a esporre, rendendoci vulnerabili, alla tempesta delle tante e pesanti pressioni sociali. Il punto è proprio questo, ci sentiamo come tirati da due lati che fanno uguale e opposta pressione: da una parte ci sono le rassicuranti norme della cultura carnista in cui siamo cresciuti e in cui ci siamo trovati a nostro agio fino a pochi anni prima, dall’altra l’epifania dolorosa che abbiamo sperimentato nel momento in cui abbiamo tolto le lenti del carnismo e che muove e regola i nostri nuovi principi etici.
Cosa succede? Di certo non torniamo indietro poiché siamo ragionevolmente convinti del fatto che mangiare animali sia ingiusto, però, ancora insicuri e incapaci di abbandonare per sempre le certezze e convinzioni che si sono stratificate nella formazione della nostra identità, opponiamo delle resistenze che si traducono in una leggera quanto pervicace accondiscendenza alle norme sociali di quel vecchio sistema da cui non vogliamo essere appunto del tutto espulsi, pena lo stigma sociale, la derisione e l’isolamento.
Così che da una parte siamo fieri della nostra scelta, dall’altra strizziamo l’occhiolino ai moti di derisione che vengono messi in atto socialmente e manifestiamo disagio di fronte allo svelarsi nudo e crudo del nostro nuovo status sociale di cui siamo entrati a far parte: perché è evidente che la società ci ha disegnato attorno un cerchietto rosso, o, se preferite, ci ha inserito in una etichetta o ricollocati dentro uno schema, giacché noi non siamo più come gli altri, ma siamo i vegani, coloro che si oppongono in maniera più o meno evidente a una soggiacente normalità che è quella del mangiare carne.
Così talvolta finiamo per condividere e approvare quegli stessi stereotipi con cui ci definisce il sistema, dando così implicitamente ragione d'essere agli stessi, validandoli.
Notare anche come il sistema non attui le stesse dinamiche di “attribuzione di un nuovo status sociale” nei confronti di coloro che lo stesso non mangiano animali e derivati, ma per motivi essenzialmente di salute o di intolleranze e allergie varie. L’intollerante al latte viene giustificato, finanche compatito e assistito dal sistema, ma guai a dire che il latte non lo si beve per rispetto delle mucche, si diventa immediatamente estremisti e violenti nei confronti di chi invece perpetua la “normalità” sancita dalla maggioranza dell’attuale società.
E a proposito di violenza ed estremismo, dicevamo che le resistenze al carnismo sono forti e che anche alcuni vegani finiscono, loro malgrado, per esprimerle in alcuni modi.
Uno di questi è finire per far propri quelli che sono gli stereotipi con cui la società – al fine di neutralizzare le nostre istanze più serie e sovversive di un sistema consolidato – ci ridicolizza e definisce. Non pago, il sistema, di averci già cerchiato in rosso, va a riempire questo spazio volto a definire il nuovo status di vegani con tutti gli aggettivi che ovviamente sono funzionali al proprio (del sistema) mantenimento e consolidamento.
Così noi saremmo estremisti, aggressivi e violenti. Nazi-vegani. Vegani rompicoglioni. Vegani come Testimoni di Geova. Vegani frikkettoni figli dei fiori tutti peace & love, Vegani come l’Isis. Vegani sempre tristi. Vegani che rompono il cazzo a chi mangia e rompono e rompono e sempre rompono e che non ti fanno mangiare in pace. Vegani che giudicano. Vegani moralisti. Vegani assolutisti. Vegani sfigati. Vegani malaticci. Vegani asceti incapaci di apprezzare i piaceri della vita. Vegani crudeli con le piante. Vegani incorenti. Vegani troppo coerenti. Il tutto e il contrario di tutto. E chi più ne ha più ne metta.
E sapete cosa accade di fronte a questa mitragliata di definizioni da cui veniamo colpiti ogni giorno? Che finiamo un po’ per crederci anche noi. E finiamo con lo sposare in parte questi pregiudizi, che poi si cristallizzano in stereotipi, che sì, forse in alcuni casi avranno anche un fondo di vero, ma che assolutamente non rappresentano il variegato universo delle persone vegane.
Il meccanismo di cui restiamo vittime è noto ed è quello usato spesso dalla propaganda mediatica più becera: prendi un singolo caso autentico di un immigrato che davvero ha rubato e fanne un caso paradigmatico di tutti gli immigrati per dire che tutti gli immigrati rubano; prendi un caso di un bambino vegano che ha avuto problemi di salute e fanne un caso paradigmatico di tutti i bambini vegani che sarebbero denutriti; prendi un caso singolo autentico di un rom che ha svuotato un appartamento e fanne il paradigma degli “zingari” che rubano; prendi un caso vero di un vegano che ha reagito male a una provocazione o che sui social (dove la violenza verbale e i flame war sono di casa perché si sa che dietro lo schermo è più facile lasciarsi andare a commenti rabbiosi che non dal vivo; meccanismo che riguarda tutti o topic di discussioni e tutti i gruppi tematici, quindi non solo i vegani), dicevo, prendi il caso di un vegano che ha scritto una scemenza per farne il paradigma di tutti i vegani.
Uno dei pregiudizi/stereotipi più comuni, ad esempio, è che i vegani starebbero continuamente a rompere le scatole agli onnivori.
Ora, non so a voi, ma a me è capitato SEMPRE il contrario. Non so più contare le volte in cui sono stata trascinata, mio malgrado, in estenuanti discussioni a tavola e tutto questo senza che io mi fossi mai permessa di fare la seppur minima obiezione di fronte ai piatti di animali morti che mi passavano davanti agli occhi.
Succede sempre così: non appena vedono che non mangi animali e derivati ti cominciano a chiedere il perché e se poco poco anziché dire che sei intollerante (cosa che sarebbe rispettata e per cui avresti ricevuto pacche di solidarietà sulla spalla), ti azzardi a dire che è perché ritieni ingiusto farlo, ecco che subito sei bersagliata da una serie di domande alle cui risposte, date con tutta la sincerità possibile e in perfetta buona fede, cioè senza l’intento di giudicare chi ti sta accanto – bada bene! – segue una serie di rimostranze e rimbrotti e obiezioni che hanno tutte lo scopo di portare, invariabilmente, al risultato che tu, vegana (perché ormai si è capito che sei vegana) sei una pazza estremista radicale violenza e aggressiva che si permette di giudicare moralmente il resto del mondo perché ha osato mettere in discussione la normalità del mangiar carne.
È vero o no che va a sempre finire così?
Un altro esempio che potrei fare è quello in cui, sempre noi vegani, si diventa oggetto di scherno e provocazioni – violente quanto idiote – sulla sofferenza degli animali e quando poi, dopo aver subìto per un po’, si reagisce dando una risposta secca e a tono, ecco che l’interlocutore ci taccia di essere maleducati, aggressivi e violenti.
Ma per la miseria, mi stai sfottendo da mezz’ora dicendomi che le melanzane soffrono e che il maiale è felice di diventare porchetta e quando poi ti dico che se ci fossi tu, appeso a testa in giù in attesa di essere sgozzato come il maiale, non rideresti così e non faresti tanto lo spiritoso parlando di melanzane, ti offendi e mi vieni a dire che sono maleducata e che non rispetto la tua scelta?
Ora, cosa possiamo fare noi?
Difficile lottare contro questa miriade di pregiudizi e stereotipi che ci riguardano e che riguardano la causa animale.
Possiamo però cercare di fare a meno di rafforzarli noi stessi e di non assecondare la tendenza ad ammalarci della famosa sindrome di Stoccolma.
Se ci aggrediscono, anziché ammutolirci e diventare accondiscendenti per paura di indisporre il nostro interlocutore, cerchiamo di evidenziare le sue fallacie argomentative.
E dobbiamo smetterla di subire il ricatto mediatico – che si è imposto anche un po’ come dogma nel movimento – che ci porterebbe a essere sempre gentili, pazienti e non reattivi con la scusa che altrimenti non faremmo capire le nostre ragioni (che poi sono quelle degli animali).
L’equilibrio è difficile. Aggredire per primi no, ma di fronte a mistificazioni, pregiudizi, offese, insulti, sfottò vari, abbiamo l’obbligo di difenderci e di evidenziare l’idiozia e il conformismo sociale che si tramuta nel conservatorismo più bieco dei nostri interlocutori.
Non trasformiamoci negli stereotipi con cui ci dipinge la società.
Non lasciamoci condizionare dalla maniera in cui ci vedono gli altri che hanno ancora le lenti del carnismo sugli occhi.
Piuttosto cerchiamo di fare tutto il più possibile dalla prospettiva del maiale appeso a testa in giù. È la sua l’unica prospettiva che ci dovrebbe interessare e sempre il suo è l’unico giudizio di cui ci dovrebbe importare.