Immaginate di trovarvi nel periodo in cui negli Stati Uniti si combatteva per la fine della schiavitù delle persone africane o afroamericane e di leggere dai presunti sostenitori dell’abolizionismo comunicati come: “chiediamo che vengano applicate agli schiavi migliori condizioni di vita e che si smetta di frustarli qualora non eseguano gli ordini comminati dal padrone”.
Poniamo che la parte definita radicale, o anche estremista a seconda dei casi, contestasse questa richiesta in quanto definita affatto in linea con gli ideali abolizionisti e comunque conservativa di uno status quo in cui gli schiavi non cesserebbero di essere schiavi, ma solo verrebbero trattati un po’ meglio.
E mettiamo che la parte richiedente tale richiesta rispondesse che si tratterebbe di una mera richiesta strategica in quanto al momento solo pochissimi cittadini statunitensi acconsentirebbero all’abolizione della schiavitù – e certamente non quelli che hanno interessi economici nel mantenerla – ma magari sarebbero concordi nel migliorarne le condizioni.
Penso che tutto ciò ci sembrerebbe assurdo, dico bene? Difatti nessun abolizionista all’epoca si sarebbe mai sognato di pensare a compromessi strategici o di negoziare con gli schiavisti in questo senso.
Se una pratica viene riconosciuta come ingiusta, non si può che chiederne la fine e non la sua riduzione, nemmeno per fini strategici.
Eppure oggi nel movimento per la liberazione animale ci sentiamo ancora in soggezione a fare richieste radicali col timore di venire tacciati di estremismo. Siamo l’unico movimento che accetta di buon grado compromessi. E certo: tanto mica li paghiamo con la nostra pelle! Tanto mica ci stiamo noi dentro i camion diretti al mattatoio!
Ho come l’impressione che la tanto decantata strategia dei piccoli passi (attenzione! In alcuni casi la sostengo anche io, ma qui intendo trattare la sola questione del riduzionismo) e quindi l’invito a consumare meno carne, nasconda in realtà un’accondiscendenza al sistema non ancora risolta nemmeno da noi attivisti. O meglio, quella che la psicologa statunitense Melanie Joy definisce: reazione del sistema di secondo grado. In pratica, sostiene la Joy, abbiamo introiettato così tanto la cultura carnista da manifestare resistenza anche quando siamo apparentemente convinti di volere in tutto e per tutto la fine dello sfruttamento degli animali.
Purtroppo nessun individuo è una monade isolata, ma la percezione che ha di sé stesso e le proprie idee, persino quelle che appaiono come le più consolidate, risentono sempre della cultura in cui è immerso e delle persone cui si relaziona, in particolare degli scambi con le persone che lo circondano. Le pressioni sociali riguardo il veganismo sono tantissime e non tutti riescono poi, nei fatti, a mantenere salde le proprie convinzioni quando si tratta di comunicare. Spesso ci si mostra accondiscendenti nei confronti degli amici e parenti che ancora mangiano animali e derivati per non scatenare conflitti, perché non sempre si ha voglia di argomentare e inscenare dibattiti a tavola o in altri contesti e più spesso perché si pensa che sia meglio non rischiare di apparire estremisti in quanto la causa ne risulterebbe danneggiata. Senza accorgerci di farlo, così talvolta diluiamo le nostre istanze in nome di questa presunta strategia, illudendoci di ingannare il sistema, ma in realtà rafforzando in noi le convinzioni inconsce a sostegno del carnismo.
Ma chi lo dice che questa diluizione delle istanze poi funzioni davvero strategicamente? La storia dei vari movimenti di liberazione riguardanti gli umani, ha dimostrato il contrario. E se alcune lotte hanno visto l'avvicendarsi di risultati graduali, non è stato certo per richieste diluite o poco chiare, ma solo perché il sistema e le istituzioni le hanno concesse gradualmente.
Se già noi partiamo in uno stato di soggezione, come possiamo pensare di essere credibili?
Ora, sia chiaro, se nel confronto con il singolo che mostra sincero desiderio di distaccarsi dal carnismo, ma che esprime difficoltà nel diventare vegano dal giorno alla notte, posso considerare l’utilità di un invito a ridurne per l’intanto il consumo, ritengo invece estremamente dannoso se venisse proposto come step tra i principi fondanti una o tal’altra associazione che dichiari di lavorare per la liberazione animale.
Cioè, detto in altre parole, un conto è se tizio mentre parla con l’amico che intende comunque diventare vegano, ma al momento lo trova difficile, lo invita a intraprendere un percorso graduale che passi dalla riduzione, all’eliminazione della carne e pesce, infine dei derivati; un altro è se un gruppo, un attivista, un’associazione, suggeriscono il riduzionismo nel proprio programma (che non sarebbe nulla di diverso dal consumo sostenibile che propongono associazioni come Greenpeace o altre o del welfarismo di altre come Compassion in World Farming).
L’obiezione che così facendo – cioè, se, poniamo diecimila persona anziché mangiare carne tutti i giorni, ne riducessero il consumo a una sola volta – si arriverebbe a una notevole riduzione della sofferenza animale perché verrebbero intanto risparmiate migliaia di vite – rispondo che allora sarebbe opportuno chiarire gli obiettivi che si intende perseguire e che forse non ci si potrebbe più definire un’associazione per i diritti animali, ma per la riduzione della sofferenza.
Nulla cambierebbe infatti per tutti quegli altri individui che, seppure in numero minore, continuerebbero a venire allevati e poi uccisi, considerati cose e non già soggetti da rispettare e con cui relazionarsi poiché è implicito nel concetto stesso del riduzionismo la conferma della loro riduzione (mi si perdoni il gioco di parole) a oggetti.
Lo stesso dicasi per l’uso degli argomenti indiretti di cui ho parlato qui, i quali, in sostanza, danno l’impressione di raggiungere strategicamente migliori risultati e più in fretta, ma in sostanza lasciando immutato il paradigma della riduzione degli altri animali a oggetti di cui disporre a piacimento o macchine per produrre qualcosa.
Credo che, riguardo le strategie, la domanda che non dovremmo smettere di porci è: può aiutare o meno a scardinare il concetto che gli altri animali siano cose? Può aiutare o meno a scalfire il dominio, l’antropocentrismo, lo sfruttamento e la violazione dei corpi altrui? Se la risposta sarà negativa temo che darebbe l'illusione di cambiare tutto, affinché in sostanza nulla cambi, per dirla con le parole di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne Il gattopardo (che è esattamente ciò che il sistema conservativo vuole), lasciando sostanzialmente immutata la considerazione che abbiamo degli altri animali.
Anche l’obiezione che si tratterebbe di un passaggio e che poi da lì le persone potrebbero comunque in futuro arrivare a capire che gli animali meritino di essere rispettati per loro stessi e a prescindere da tutto, non ha senso in quanto nessuno ci garantisce che ciò avverrà; anzi, è probabile che continuando a rafforzare il paradigma antropocentrico e della riduzione dell’altro animale a oggetto – da consumare poco, ma comunque da consumare – si vada nella direzione opposta a quella in cui pretendiamo di andare.
Ho un’ultima osservazione: e se su quei camion che vanno al mattatoio ci fossero i nostri animali cosiddetti d’affezione (cani, gatti) o persone umane, magari i nostri parenti, amici, vicini di casa ecc., avrebbe senso parlare di compromessi o di strategie riduzionistiche del loro consumo (ma non della loro considerazione e riduzione a oggetti)?
Credo che noi tutti dovremmo avere il coraggio di ammettere di essere ancora specisti, inconsciamente ancora vittime della cultura carnista e per nulla ancora disposti a barattare la nostra libertà e i nostri privilegi di specie per liberare davvero gli altri animali; il punto, lo dice il termine stesso, è che in fondo si tratta ancora di “altri” e non è in gioco la nostra stessa pelle.
Tutti diciamo romanticamente che daremmo volentieri la nostra vita per salvare gli altri animali, ma non è davvero così perché altrimenti, anche se in pochi, anche se scoordinati, anche se da soli, metteremmo in gioco le nostre esistenze in tutto e per tutto.
Non siamo preparati, non siamo pronti.
Siamo un movimento che a parole dice di voler lottare per la liberazione animale, ma nei fatti continua a subire la reazioni di secondo grado del sistema carnista.
Cerchiamo di essere almeno consapevoli del punto in cui siamo. Ammettiamo di non essere pronti. Onestà intellettuale prima di tutto perché è a partire dai nostri limiti e da cosa siamo oggi disposti a fare e non fare che potremo crescere come movimento e mettere a punto strategie davvero efficaci anche a lungo termine.
Altrimenti ammettiamo di non crederci: di non credere alla possibilità che mai avverrà la liberazione animale totale e che quindi tutto quello che possiamo fare è impegnarci su come ridurre la sofferenza.
Può essere un'idea, ma abbiamo il coraggio di dichiararlo fuori dai denti.
E anche qui, incentrare il nocciolo della questione animale sul solo discorso della sofferenza non paga.
Portereste mai avanti la questione contro la pena di morte o contro la schiavitù ricorrendo all'argomentazione che gli esseri umani soffrono e non che la vita sia un diritto inalienabile?