Henry David Thoreau
Premessa
Tempo fa scrivevo che diventare vegani è “l’inizio di un atto costitutivo che ci muove a un nuovo e diverso sguardo sul reale” (qui). Non diverse le parole di Melanie Joy, la quale sostiene che le persone che mangiano alcune specie animali, mentre ne coccolano altre, hanno gli occhi offuscati dalle lenti del “carnismo” - termine da lei stessa coniato per denominare il concetto culturalmente diffuso di considerare “normale, naturale e necessario” mangiare carne.
E difatti, come ogni antispecista avrà sperimentato su se stesso, una volta che si è preso gradualmente atto della pervasività dello sfruttamento animale e delle dinamiche di oppressione e dominio interne al sistema in cui viviamo - e che riguardano non soltanto gli animali non umani - si inizia a guardare la realtà con spirito critico e ciò che prima ci appariva normale o non ci appariva affatto, nel senso che non veniva nemmeno notato, improvvisamente si dispiega davanti a noi: una sorta di epifania tragica e dolorosa. Per dirla con le parole di H. D. Thoreau riportate in epigrafe, non è importante ciò che guardiamo, ma quello che vediamo.
Due viaggiatori possono così riportare esperienze nettamente diverse riguardo ai paesi che hanno visitato, così come aver guardato una stessa cosa, ma averla vista in maniera soggettivamente peculiare. Ciò non significa che non esista una realtà oggettiva, ma che il giudizio che ne diamo e l’impressione che ne riceviamo sono sempre filtrati dalla cultura e contesto sociale in cui siamo cresciuti, dal nostro patrimonio esperienziale, e infine dal nostro personale sistema di valori. Esistono indubbiamente forme di ingiustizia sociale che possiamo ritenere oggettive e sono quelle che ledono la libertà e i diritti degli esseri viventi. Credo che nessuno dotato di sano intelletto o di un minimo di coscienza possa oggi ritenere che sia giusto sfruttare, opprimere, mercificare, schiavizzare e uccidere individui senzienti; o ritenere che esistano etnie o individui superiori ad altri. Il problema nasce quando ci sono individui che ancora culturalmente, a dispetto di una serie di caratteristiche che gli vengono ormai riconosciute, non vengono considerati tali. Parliamo degli animali non umani, da una parte ritenuti esseri senzienti, dall’altra mercificati, sfruttati e trattati come mere risorse rinnovabili. A causa di questo sistema di valori in cui nasciamo e cresciamo, talune forme di ingiustizia non vengono percepite come tali. Succede così che, pur guardando a uno stesso soggetto, che può essere il cavallo costretto a trainare la carrozzella per turisti o la vetrina di un negozio che espone indumenti in pelle, solo chi ha smesso da un po’ le lenti della cultura specista sia capace di scorgerne tutte le implicazioni e tutto il dolore che c’è dietro.
Considerazioni sul Veganismo
La premessa era per introdurre una serie di considerazioni e riflessioni che ho fatto durante un mio soggiorno negli Stati Uniti durato tre settimane: le città che ho visitato sono San Francisco, Los Angeles e New York. Non tantissimo, certo, ossia non sufficiente a comprendere appieno tutti gli aspetti di un paese così immenso e ricco di contraddizioni, ma abbastanza per averne colto alcune differenze rispetto al nostro.
Quello che leggerete, dunque, è un racconto antispecista, ossia un breve reportage dal punto di vista di una persona antispecista e vegana. Non esauriente quindi di tanti altri aspetti o di tutto quello che ho fatto e visto.
Comincio subito col dire che sotto il profilo della diffusione del veganismo, gli Stati Uniti (o almeno le città dove ho soggiornato) sono qualitativamente e quantitativamene avanti. Ossia è facile trovare cibo vegano, preparato con una cura a dir poco straordinaria - a prova di onnivoro, verrebbe da dire, come se fosse sempre presente l’intento di dimostrare che si può mangiare altrettanto bene senza ingredienti di origine animale - e tutti sanno cosa vuol dire vegano, ossia sono ben consapevoli della differenza tra vegetarismo e veganismo, anche se alcuni ristoranti si definisco vegetariani, pur essendo alla fine interamente vegani. Meno chiare sono le motivazioni che spingono a diventare tali (e di questo parlerò più avanti). Addirittura ho scovato un ristorante cinese e uno coreano interamente vegani, ossia con piatti delle rispettive tradizioni culinarie, ma veganizzati (entrambi a New York).
Purtroppo tutti i ristoranti mantengono l’abitudine di chiamare i piatti con i nomi della tradizione, anteponendo l’etichetta vegan: nei menù è facile così trovare del vegan chicken, vegan beef, vegan lamb, vegan fish e via dicendo. Un’abitudine che personalmente ho sempre criticato in quanto non aiuta a far smettere di considerare cibo i vari individui animali; non scardina il concetto, che poi è alla base dello specismo, che degli animali si possa disporre a piacimento come fossero oggetti atti a soddisfare ogni nostro capriccio o (falsa) necessità. Suppongo sia per far capire ai non vegani che tutto può essere veganizzato o per non abbandonare termini cui siamo affezionati in termini di memoria collettiva, tradizioni, ricordi familiari (la nonna che ci cucinava il pollo e via dicendo). Usano molto il quorn, che è un sostituto della carne commercializzato anche in Gran Bretagna e Svizzera, ma non ancora negli altri paesi europei, la cui base è una micoproteina estratta dal Fusarium Venenatum, che non è un fungo vero e proprio, ma un organismo più simile al lievito di birra, per capirci (in rete comunque si possono trovare tutte le informazioni). Questo alimento ha una consistenza e un sapore davvero molto simili alla carne e infatti è consumato anche da moltissimi non vegani anche perché ricco di proteine e povero di grassi e colesterolo. Se c’è una cosa che negli Stati Uniti mi pare infatti abbiano capito è che la carne fa male, soprattutto quella di animali provenienti da allevamenti intensivi e nutriti con mangimi arricchiti di ormoni e antibiotici. Detto in altre parole: il veganismo è assai diffuso sotto il profilo salutista. Specialmente in California, dove tutti sono fissati col fitness e con la salute. La loro, però, non quella degli animali; o, se degli animali, solo in quanto poi destinati a diventare cibo. Non si fuma all’interno dei parchi e in alcune zone e quartieri nemmeno per le strade (questo per dire il grado di salutismo e chissà, magari un giorno vieteranno di mangiare burgers in pubblico). San Francisco in particolare è una città molto “verde”, pare che sia la meno inquinata tra tutti gli Stati Uniti; ci tengono moltissimo alla raccolta differenziata e addirittura hanno abolito l’uso delle buste di plastica dal 2012; usano solo carta riciclata, è diffuso l’uso di pannelli solari e si muovono molto in bicicletta e a piedi (a dispetto delle innumerevoli salite che ci sono). Se c’è una coscienza ecologista abbastanza sviluppata, lo stesso non si può dire, purtroppo, di quella antispecista. Riprendendo il discorso sopra, se tutti sanno cosa vuol dire vegano, pochi ne comprendono appieno il discorso etico che dovrebbe esserne alla base. Non ho notato alcun riferimento agli animali e al loro sfruttamento nei vari ristoranti vegani dove sono stata. Tutt’al più si parla di equilibrio, armonia col pianeta, ma l’aspetto preponderante rimane appunto quello salutista.
Direi che il mito della carne felice (un mito perché non può esistere nessuna carne felice) ha preso abbastanza piede. Organic, gluten free e free range sono le parole chiave: vale a dire che ovunque si leggono etichette e cartelli che avvertono che nel tal ristorante o cafè o negozio si servono e vendono solo alimenti biologici, senza glutine e carne di animali allevati liberi - un vero e proprio ossimoro, di cui però pochi sembrano essere consapevoli, in quanto nessun animale allevato all’uopo di essere sfruttato e ucciso può essere davvero libero.
Detto questo, e nonostante questo, direi, ho avuto un’impressione particolare che solo il futuro potrà dirci se giusta o sbagliata. Magari è solo una mia proiezione eccessivamente ottimista, ma tant’è. Ossia che se esiste una possibilità che il veganismo, a prescindere dalle motivazioni, si diffonda a livello planetario, questo possa avvenire solo dietro la spinta propulsiva degli Stati Uniti. È proprio dal paese dove tutto è nato - semplificando: il mito della carne, il rito del barbecue la domenica, la catena di smontaggio dei grandi mattatoi di Chicago, gli allevamenti intensivi su scala industriale e persino, adesso, il mito della carne felice - e dove tutto è andato oltre, talmente oltre da arrivare a certe aberrazioni che conosciamo, che tutto potrebbe essere messo radicalmente in discussione. Per assurdo, è solo laddove l’orrore diviene talmente evidente da non risultare più sopportabile, che a un certo punto diventa impossibile ignorarlo. Del resto non dimentichiamo che la teoria antispecista è nata proprio negli Stati Uniti grazie ai due filosofi pionieri, esattamente Peter Singer con la pubblicazione di Animal Liberation nel 1975 (anche se lui è australiano, ma il libro si è preso diffuso nel mondo anglofono) e Tom Regan con The case for Animal Rights del 1983.
Certo, l’aspetto preponderante del salutismo da una parte preoccupa molto perché quella della salute rimane un’argomentazione antropocentrica che nulla smuove a livello di considerazione degli animali non umani e soprattutto pochissimo a livello di messa in discussione dei meccanismi socio-politici che presiedono al mantenimento di un sistema gerarchico e di dominio, eppure c’è chi sostiene, come Melanie Joy, che l’importante sia smettere di indossare le lenti dei carnismo, quali ne siano le motivazioni, per poi arrivare a comprendere tutte le altre istanze e motivazioni etiche e sociali. C’è anche chi dice che si tratti di una fase di passaggio e che sia fondamentale smontare tutte le credenze di cui è intrisa la nostra formazione, ossia che mangiare e sfruttare animali sia normale, naturale e necessario, per poter arrivare a mettere in discussione tutto il resto e aprirsi a una più ampia e completa critica del sociale.
Io penso che tutto ciò potrebbe essere possibile solo a patto che noi, e per noi intendo noi attivisti antispecisti, non si smetta di affiancare le argomentazioni etiche e le richieste di giustizia sociale a tutte le altre indirette. Non ci si deve adagiare sulla diffusione di un veganismo salutistico o, peggio, commerciale. Si deve continuare a parlare di animali sfruttati, di mattatoi e di abolizione della schiavitù. Una volta rimosso l’ostacolo della “normalità, salubrità e necessarietà” del mangiar carne, avremo la strada più in discesa per presentare tutto il resto del pacchetto, ossia ciò che ci interessa veramente: abolire totalmente ogni forma di sfruttamento di ogni individuo senziente e farlo non perché questo inquini o ci faccia male, ma unicamente per una questione di giustizia.
Ancora per quanto riguarda il veganismo, pensavo di trovare più fast food, invece, a parte qualche McDonald’s, non ce n’erano moltissimi. Dev’essere sempre per l’effetto dell’informazione insistente sulla nocività del mangiar carne. Mi dicono però che molto dipende anche dalle zone, ossia che più ci si addentra nei quartieri periferici e poveri e più è facile che ai cafè che servono cibo biologico si sostituiscano fast food o chioschi che vendono hot dog e simili. Che il veganismo sia diffuso lo dicono anche i supermercati che vendono farmaci da banco e integratori. Si trovano facilmente integratori proteici senza latte e uova e il dairy free, ossia senza latticini, è un’etichetta che ho letto abbastanza spesso un po’ ovunque. Magari è sempre per il solito motivo salutistico o per via delle intolleranze, ma di certo un vegano ha vita facile, pure se per gli animali poco cambia.
Come sono considerati gli animali in genere (a parte il discorso del ritenere normale mangiare alcune specie, intendo)
Sulla considerazione degli animali in generale, infatti, non solo quelli cosiddetti da reddito, le differenze son poche rispetto al nostro paese, anzi, direi che sul trattamento dei randagi noi siamo indubbiamente avanti. Nelle strade delle tre città che ho visitato non ho mai visto un randagio, ma il lato oscuro di questa evidenza non è che il randagismo non esista perché nessuno abbandona più cani e gatti o perché vengono immediatamente adottati, ma semplicemente perché funziona molto bene la politica di cattura e successiva uccisione, allo scadere di una permanenza di 15 gg. circa, nei canili e gattili. I pets, ossia i cosiddetti animali d’affezione come cani e gatti sono molto amati, ma solo i propri, appunto. Esistono parchi a loro destinati, dotati di giochi, ciotole per l’acqua e arricchimenti vari. Spiagge con accesso ai cani e altre no, un po’ come da noi insomma.
Il lato oscuro delle tre città che ho visto, com’è abbastanza noto, è la presenza di tanti homeless, ossia persone senzatetto che dormono in strada. Credo che pochi paesi siano densi di contraddizioni come gli Stati Uniti. L’ho già detto, e sembra un po’ un luogo comune, ma è davvero così. Se da una parte è il sistema economico che genera queste sperequazioni, se la povertà è sempre il prodotto di un’ossessiva ricerca di incremento della ricchezza e produzione (una vera e propria patologia insita nella logica del capitalismo economico) e se il sistema assistenziale è molto diverso dal nostro, dall’altra ho riscontrato molta più solidarietà tra i singoli che non da noi. Molte persone si prodigano, a livello appunto individuale, non parlo quindi soltanto di associazioni umanitarie e dei loro volontari, a dare conforto ai senzatetto: gli portano bevande calde e coperte, si fermano per due parole di sostegno, c’è, insomma, meno distanza emotiva. Forse perché negli Stati Uniti tutti sono consapevoli della possibilità di potersi trovare un giorno senza null’altro che i vestiti che si portano addosso e nelle persone che dormono al freddo vedono il riflesso di quello che loro stessi potrebbero diventare. Ho notato che molti senzatetto hanno cani. Cani ben tenuti, coperti dal freddo, con pettorina, medaglietta identificativa e tutto ciò di cui possono aver bisogno. Quasi sempre sono cani di razza Pit Bull. Purtroppo non ho avuto modo di chiedere come mai proprio quella razza, ma mi son fatta una mezza idea. I Pit Bull sono considerati cani molto aggressivi (ma non è vero, la loro indole è pari a quella di tutti gli altri cani, tutto dipende dal fatto che avendo una mole robusta vengono spesso acquistati per i combattimenti tra cani o per fare la guardia e quindi addestrati con metodi violenti al fine di provocarne l’aggressività) e per questo sono i più difficili da adottare, quindi i primi a finire uccisi una volta portati in canile; sono un po’ i paria della società, esattamente come i poveri, come i non arrivati socialmente, quelli che non ce l’hanno fatta, come i senzatetto, appunto. E quindi, chissà, le persone senzatetto li adottano volentieri per dargli una chance o perché sentono una vicinanza emotiva con questi cani che molti abbandonano. Non so quanto questa sia una mia visione romantica o quanto corrispondente alla realtà. Magari invece prendono i Pit Bull solo perché pensano che possano difenderli dalle insidie del vivere per strada, avrei voluto domandarlo a qualcuno di loro, ma avevo paura di essere invadente. Peraltro ho notato che quando mi avvicinavo per una carezza, si prodigavano a rassicurarmi sul fatto che fossero cani “buoni e tranquilli”, come a voler sfatare il mito della loro aggressività.
Per quanto riguarda la fauna selvatica, direi che c’è un invito al rispetto molto più che da noi. Nei parchi delle città è facile vedere scoiattoli, molto amichevoli, così come persone che gli danno da mangiare; lo stesso per quanto riguarda i piccioni e i passerotti, che sono benvoluti e nutriti, anche se in realtà ci sarebbero dei cartelli che vieterebbero di dargli da mangiare in quanto, essendo fauna selvatica, si crede sia preferibile che non debba dipendere dalle cure dell’uomo. Non ho mai visto nessun bambino inseguire piccioni o scoiattoli, cosa molto frequente da noi. E qualcosa mi dice che, se qualcuno lo avesse fatto, sarebbe stato immediatamente redarguito, se non multato, come da avviso sui cartelli.
A San Francisco, sulla baia, ho potuto vedere le foche che si riposano sulle chiatte ormeggiate a pochi metri dalla riva. Costituiscono una vera attrazione turistica e anche qui ci sono cartelli che avvertono che se qualcuno dovesse infastidirle o maltrattarle, sarà severamente punito dalla legge.
Non mi addentrerò ulteriormente nel discorso sugli animali che è ritenuto normale mangiare perché non c’è differenza rispetto a noi, tranne, appunto, una maggiore insistenza sul lato salutistico di cui ho parlato sopra.
San Francisco, le foche, le balene, le orche e i delfini
Sempre a San Francisco ho vissuto quella che resterà per me un’esperienza indimenticabile: il tour in barca per andare a vedere le balene che in questo periodo si trovano a passare a largo della baia per la migrazione. In realtà poi sono riuscita a vedere non solo le balene, ma anche i delfini e, fatto che pare fosse abbastanza inusuale, anche le orche con i loro piccoli. Uno spettacolo davvero unico che proverò a riassumere. L’appuntamento era un mercoledì alle otto di mattina in punto. Ricordo il silenzio della città mentre dall’albergo scendevo verso la baia e il chiacchiericcio insistente delle foche, già in quelle prime ore intente a scambiarsi informazioni, all’approssimarsi del luogo d’incontro. Coperti e attrezzati (saremo stati una quindicina di persone), dietro precise istruzioni prese al momento dell’iscrizione al tour, siamo saliti sulla barca che dopo pochi minuti ha lasciato gli ormeggi per prendere il mare aperto. Siamo passati sotto al Golden Gate (spettacolare!) e accanto all’isola di Alcatraz e dopo circa un paio d’ore di navigazione rilassante (nonostante il vento sferzante e gli spruzzi d’acqua) abbiamo scorto i primi delfini che con fare giocoso saltavano tutti intorno alla barca; si divertivano a inseguirne la scia e sembrava proprio che volessero farsi ammirare. Non so spiegare la profonda commozione che mi ha colto nel vedere per la prima volta questi splendidi animali dal vivo, liberi, nel loro habitat naturale. Una commozione certamente intrisa anche di amarezza. Da una parte avevo il cuore straripante di gioia perché avevo sempre desiderato vederli - ma mai sarei andata in un acquario! -, e dall’altra di amarezza perché è proprio nel vederli così liberi e felici che mi è stato impossibile non pensare a tutti i loro fratelli prigionieri e schiavizzati nei vari parchi acquatici e delfinari. Se solo le persone capissero quanto il mare aperto e la libertà siano i soli elementi in grado di lasciar esprimere tutte le potenzialità e necessità etologiche di queste splendide creature, penso che nessuno vorrebbe più vederle in un acquario. Ho pensato al massacro che avviene ogni anno nella baia di Taiji. A come i cuccioli vengano separati dalla madre e poi rapiti per essere poi rinchiusi per tutto il resto della loro vita dentro una vasca d’acqua, che è un po’ come se a noi ci tenessero prigionieri per tutta la vita dentro una cabina telefonica. Avrei voluto gridargli che ero loro amica e che non avrei mai smesso di lottare per la loro libertà, ma invece ho solo pianto di commozione.
Stessa emozione mi hanno trasmesso le balene e le orche. Presente sulla barca era un esperto naturalista che ha saputo riconoscere da alcuni elementi il luogo dove si trovavano in quel momento, quali ad esempio un gruppo di uccelli acquatici intenti a spartirsi i resti dei pesci (ahimè, ma questo della predazione è un aspetto della natura che esula dai compiti dell’antispecismo), quindi è stato immediatamente spento il motore della barca, per non disturbarle, e siamo rimasti in attesa. Lo spettacolo del loro corpo sinuoso che si immergeva e fuoriusciva dalle onde non ha tardato a manifestarsi. Non a caso uso il termine “manifestazione”, o meglio dovrei dire “rivelazione” perché è questo il succo della mia esperienza. Mi hanno trasmesso un senso di serenità incredibile e di appartenenza alla natura, la loro appartenenza, nel rimpianto nostalgico della mia, ossia è evidente quanto ne facciano parte, a dispetto della nostra specie che se ne è separata tanto tempo fa e che ha iniziato a volersi distinguere come altro da quel tutto di cui pure faceva parte, attraverso il dominio e la distruzione. Oltre alla consapevolezza che più si osservano gli animali liberi nel loro habitat e più dovrebbe diventare chiaro, a tutti quanti, quanto ingiusta sia la loro prigionia nelle strutture come zoo, acquari e simili. Le orche sono state avvistate improvvisamente, pare infatti che sia abbastanza insolito vederle e non esagero che mi sono sentita davvero fortunata, come se avessi ricevuto una piccola grazia: la loro bellezza è qualcosa di indescrivibile e per di più c’erano anche i piccoli che saltavano insieme alla madre. Siamo rimasti tutti a bocca aperta. Il loro dorso bianco e nero luccicava sotto al sole e, come i delfini, sembrava che volessero farsi ammirare. Sensazione che invece non ho avuto con le balene che restavano più in disparte, più immerse nella natura e meno desiderose di contatti umani.
Los Angeles e, ahimè, gli animali attori
A Los Angeles sono andata a visitare, tra le altre cose, anche gli Universal Studios. Una delle attrazioni del parco è lo spettacolo con gli “animali attori” che sono stati protagonisti di film di successo. Inizialmente non volevo entrare, ma poi ho riflettuto sul fatto che comunque l’ingresso era compreso nel biglietto d’entrata (e non lo sapevo che c’era questa attrazione), ossia non è che avrei dovuto pagare a parte, così, anche per rendermi conto di come li addestrino ecc., ho deciso di vederli. So che non è una cosa che, da antispecista, mi rende particolarmente onore, ma a volte per rendersi conto di alcune cose bisogna anche vederle. E anche qui ho constatato diverse contraddizioni: da una parte ti spiegano che si tratta di animali salvati dalla strada o dal macello (c’erano anche un maiale e alcune galline) e anzi invitano a sostenere i santuari, dall’altra è indubbio che si tratti di una forma di mercificazione dell’animale che comunque è costretto a imparare gesti e comportamenti richiesti dal ruolo che deve interpretare nel film. Gli insegnano a mettersi seduti, a sdraiarsi e fingersi morti, dare la zampa, a portare oggetti e poi li premiano con un biscottino, nulla di particolarmente difficile per un cane o per un maiale, però quel che contesto è il concetto stesso di usare un animale per un film o di insegnargli cose che a lui non servirebbero affatto. Onestamente non mi è parso che fossero maltrattati, ma mi è venuta comunque una gran tristezza perché penso che un gatto, un cane, un topo o un maiale dovrebbero stare con i propri simili o con i loro amici umani o dentro un santuario quando salvati dai tanti luoghi di sfruttamento, ma non dentro un parco giochi, seppure il grado di addestramento non sia paragonabile per violenza a quello di animali selvatici usati nei circhi.
New York, le botticelle, le pellicce e gli animali-simbolo raffigurati nei musei. E ovviamente i grattacieli.
A New York purtroppo ci sono le carrozze per turisti trainate dai cavalli che stazionano davanti a Central Park e anche un piccolo zoo all’interno del parco stesso. So che spesso vengono organizzati presidi per protestare contro questa inutile e crudele tradizione, ma non mi è capitato di assistervi nei giorni della mia permanenza (altrimenti vi avrei senz’altro partecipato). In generale non ho visto attivismo, ad eccezione di volantini affissi in giro per la città volti a informare sulla crudeltà delle pellicce e dei piumini d’oca, con immagini abbastanza eloquenti e di banchetti di associazioni per aiutare cani e gatti. Lo specismo, per chi è antispecista, risalta comunque agli occhi abbastanza facilmente, che sia identificabile attraverso i colli di pellicce che guarniscono i cappucci degli indumenti dei passanti (diffusi come da noi, del resto la moda, nell’era della globalizzazione, è uguale un po’ dappertutto) o persino all’interno dei musei; già, i musei, pieni di capolavori dell’arte dove gli animali sono sempre lì a raffigurare altro: in veste di simboli o comunque come strumenti nelle mani degli individui della nostra specie. Nature morte con soggetti di cadaveri animali o scene di caccia sono abbastanza frequenti nell’arte classica. L’arte contemporanea, che dovrebbe essere più attenta a certe tematiche, non ne è immune: installazioni con animali tassidermizzati rattristano e provocano anche un certo ribrezzo e le abbiamo viste al MoMA (ma mi è capitato svariate volte anche qui in Italia). Gli individui morti (spero non uccisi all’uopo, almeno) non sono mai lì a rappresentare loro stessi, la loro unicità, per quanto violata, ma sempre per simboleggiare la caducità o discorsi sulla morte o altro, ma esclusivamente da un punto di vista antropocentrico.
Una cosa mi ha colpito di New York (che comunque ho trovato molto bella, al di là del discorso antispecista): i grattacieli, così come le insegne mastodontiche, di sera sono sempre illuminati. Se da una parte questo rende la città scintillante e le conferisce un’atmosfera adrenalinica unica, dall’altra porta a riflettere sull’enorme, inquantificabile, spreco di energia elettrica e quindi relativo inquinamento e guerre per accaparrarsi il petrolio. Mi dicono però che i grattacieli rimangono sempre illuminati, di notte, anche per impedire che gli uccelli vadano a sbatterci contro. Non so quanto sia vero.
Conclusioni
Difficile trarre delle conclusioni definitive perché il mio è stato comunque un soggiorno troppo breve e per il solito discorso delle contraddizioni di cui ho già detto tante volte. Quel che è certo è che in generale ho provato la sensazione di un paese la cui politica alimenti la distruzione della natura e dei suoi abitanti, ingabbiato dentro un sistema che genera sperequazioni, sfruttamento e schiavitù, da una parte, e dei suoi abitanti che tentano, su vari livelli, di tapparne le falle, ma senza metterne in discussione alla radice ciò che ne è la causa, dall’altra: ossia la logica di dominio e sfruttamento.
Però, come già detto a proposito del veganismo, penso che se c’è una possibilità che sia una che il mondo cambi, essa non possa che partire da lì, dal paese in cui tutto è cominciato e da dove questo sistema folle è partito per andare via via colonizzando il resto del mondo, anche solo a livello culturale. C’è voglia di migliorarsi, di fare, di godersi la vita. Quello che si deve ancora capire è che potremmo stare tutti davvero meglio se anziché alimentare la competizione, l’efficienza economica basata su presupposti legati solo all’aumento del potere e del guadagno e schiavizzarci gli uni con gli altri ci impegnassimo a diffondere il concetto che si può vivere anche senza dominio e prevaricazione. Forse gli Americani hanno solo bisogno di essere informati maggiormente (eludendo quindi i media proni al sistema), ma quel che è certo è che prendono la felicità e il desiderio di raggiungerla molto più sul serio di noi (noi Europei siamo più nichilisti, più notoriamente seri e cupi e troppo inclini a riflettere sulle varie questioni esistenziali e meno a vivere la vita per quello che è, nel momento, al di fuori di ogni speculazione teorica. Gli homeless sorridono e ti dicono buona giornata. Non so quanto sia posa e quanto un sorriso vero che viene da dentro, ma comincio a pensare che ci credano veramente in tutti quei modi di dire di prendere la vita con ottimismo e via dicendo). Durante questo viaggio ho cercato di portare con me il desiderio di scoperta di un paese nuovo (relativamente nuovo, visto che culturalmente siamo stati abbastanza colonizzati, a partire dai film, la musica ecc. e a volte avevo la sensazione di aver già visto tutto, altre di stare su un grande set cinematografico, pure se poi è la vita vera di tutte le persone che abitano lì e alla fine tra realtà e finzione non si riesce più a capire dove finisca l’una o cominci l’altra), insieme a uno sguardo scevro da pregiudizi, ma sempre critico.
(Le foto sono di Andrea Festa, tranne la prima e quelle del cibo che sono state scattate da me).
11 commenti:
Ciao Rita, e ciao Andrea. Non vedevo l'ora di leggere questo racconto di viaggio, che sapevo avresti scritto, un po'come una Alexis de Tocqueville che ri scrive il punto di vista europeo sull'America. e con toni simili, vorrei dire. cioe, un findo di ottimismo, che non nasconde i lati oscuri, ma crede, punta e scommette sulle potenzialita progressive e costruttive.
ho letto con tante emozioni tutto quello che hai sxritto e osservato, mi sono commosso di riflesso anche io quando hai parlato delle balene, i delfini e le orche. mi ha fatto molto riflettere il discorso sugli homeless. e vero, qui in Europa, o forse solo in Italia, li si tiene comunque a distanza, e c'e diffidenza. anche qui, al nord, molti hanno cani, che sembrano ben tenuti. so di iniziative di shelter per la notte dove sadanno ammessi anxhe i xani, e vorrei approfondire questa notizia.
intanto, ti vi ringrazio per queato bellissimo articolo, che ho letto con grande piacere e curiosita. forse il cambiamento arrivera dagli Stati Uniti, ma forse sara piu veloce se ci saranno viaggiatori intelligenti, sensibili e osservatori come voi. 😀
Non sono mai stato negli stati uniti, ma ho sempre pensato che il loro tipo di società sia folle e superficiale. Detto questo, mi scuso se vado fuori tema del post, ma ho una domanda che mi cola dalla testa.
Premessa: ultimamente sto cercando un paio di scarpe che non abbia tra i materiali la pelle. Dove vivo, a ora, sono riuscito a trovare negozi di abbigliamento vegano con prezzi spropositati, al di là che le scarpe sono oggettivamente brutte, o supermercati con scarpe in plastica a prezzi ridicoli, tipo dieci euro. Adesso, nel primo caso non voglio spendere cifre assurde giustificate solo da una ”rarità” della merce, che poi è la tipica mentalità capitalista; nella seconda, materie plastiche, petrolio, sfruttamento dell'ecosistema e della manodopera, può un paio di scarpe costare soltanto dieci euro?
Questa premessa per chiedere, perché un allevamento è per forza di cose un esercitare dominio sull'altro? Nel senso, se io ospito delle capre, o delle galline, e queste vivono libere, si possono spostare come credono e in cambio io prendo la lana piuttosto che un uovo, è dominio? Va bene che è uno scambio “forzato”, nel senso che loro non hanno accettato, ma è sbagliata come cosa? E se devo rapportare il maglione di lana alle scarpe da dieci euro, come mi muovo?
Io penso che alla fine come c'è uno scambio tra un cane o un gatto e l'umano, e, in una certa maniera, dipendono dall'umano, perché non una capra o una mucca o che so io?
Chiedo con sincerita per capire, non voglio far polemica. Ecco un attestato della mia buona fede :-).
Ciao.
UnCaneProfumato
Caro Giovanni,
ti ringrazio per il tuo bel commento, addirittura hai scomodato Tocqueville, ne sono onorata.
Ciao cane profumato,
la realtà è complessa e non può che avere soluzioni complesse e piene di compromessi per cercare di fare il meglio che si può da un punto di vista etico che non nuoccia al nostro prossimo e al pianeta.
Nessuno vive a impatto zero, le scarpe in pelle però, oltre a inquinare (hai idea di quanto inquinino gli allevamenti e le procedure per trattare la pelle?), danneggiano anche individui senzienti. Quindi, a parità di inquinamento, preferisco comprare scarpe non di pelle, non necessariamente di plastica. Ti basterà digitare su google "vegan shoes" e troverai decine di siti dove acquistare scarpe non vegane realizzate con materiali naturali (poi trattati da sembrare pelle) tipo canapa e altro. Se ho tempo dopo ti metto qualche link, al momento non li ho sottomano. Nei negozi è più difficile, concordo, almeno per quanto riguarda quelle da uomo. Mio marito recentemente ha fatto degli acquisti sul sito (questo me lo ricordo) Vegetarian shoes. Ce ne sono di tutti i tipi, dai modelli classici, a quelle sportive, da ginnastica ecc.. Sono sicura che un modello che ti vada a genio riuscirai a trovarlo. Per le misure è semplice perché ti aiutano a capire quale sia quella giusta attraverso la misurazione in cm sia della lunghezza che della larghezza. Mio marito non ha mai avuto problemi. O al limite si rimandano indietro e ti rimandano quella giusta. Lo so, può sembrare uno sbattimento, ma nulla al confronto dell'indossare la pelle di un animale morto male dopo aver vissuto peggio.
Lo scambio tra il cane e gatto è basato su una relazione di amicizia, mica gli prendi il pelo o il latte, giusto?
Perché ritieni che per vivere si debba necessariamente prendere qualcosa dagli altri animali? Non lo è. La tua domanda è ideale, nel senso che è una domanda ipotetica. Se avessi galline libere ecc.. Ma la realtà che si mette in discussione è ben diversa. Inoltre è sbagliato proprio considerare gli altri animali in quanto produttori di qualcosa per il nostro uso e comune.
Un conto sono le relazioni amicali, un altro quelle basate su un discorso utilitaristico. Gli altri animali nascono per loro stessi, sono soggetti della loro vita (come tu della tua) e non per per soddisfare nostri capricci. Il paragone col cane e gatto è sbagliato perché i cani e gatti si sono avvicinati alla nostra specie migliaia di anni fa poiché ne traevano un vantaggio reciproco, non è così per e altre specie che sono state dominate e che vengono considerate risorse rinnovabili, meno di oggetti ecc..
Sulla lana: sai come viene prodotta? A parte l'allevare animali appositamente e poi ucciderli quando non rendono più (dopo un tot di tosature), la procedura è molto dolorosa perché di certo non si bada a lavorare con delicatezza e rispetto dell'animale. Sono considerati cose. E come cose trattati. Tu vorresti, in tutta sincerità, allevare una pecora per poi una volta all'anno tosarla per farti un maglioncino di lana, quando in commercio si trovano decine di sostituti, anche naturali, della lana? Sai qual è la cosa più difficile per le persone? Riuscire a togliersi dalla testa le vecchie abitudini, le tradizioni e tutto il resto. E si preferisce ammazzare migliaia di animali per volta per non fare lo sforzo di cercarsi un maglioncino che non sia di lana. Non dico di te, eh... parlo in generale. Se ci pensi è abbastanza folle, no?
Un caro saluto.
P.S.: anche io ho sempre pensato che la società degli Stati Uniti fosse folle e superficiale, ma la nostra è peggio perché della loro abbiamo preso appunto tutto il peggio, tralasciando il meglio. Ad esempio non si capacitano di come possiamo avere il Vaticano e il papa. Non capiscono proprio il concetto di uno stato dentro lo stato. Eh, a chi me lo chiedeva, rispondevo che, in tutta onestà, nemmeno io lo capivo molto. Come detto nel post, l'America è un paese immenso, ogni stato ha leggi diverse e anche costumi leggermente diversi, difficile definirli con poche parole senza incorrere in pregiudizi o etichette riduttive. Bisogna conoscerli, per capirli almeno un po'. A me tre settimane sono bastati non dico certo per conoscerli, ma per capire che alcuni miei preconcetti erano sbagliati. E comunque, società a parte, sono un paese splendido che secondo me andrebbe visto almeno una volta nella vita. Le persone mi hanno sorpreso, ad esempio. Me le aspettavo arroganti, invece sono gentili e molto più accoglienti degli Inglesi, ad esempio.
ciao,
io non penso che per vivere debba necessariamente prendere qualcosa dagli altri animali, dico solo che la differenza tra "animale da compagnia" e quelli che non vengono considerati tali mi pare piuttosto sfumata. Entrambi producono un utile all'uomo. Io non ho mai visto un cane scegliare con quale essere umano condividere la compagnia, però ho visto persone prendere cuccioli e imporgli la loro volontà, magari sterilizzandoli o confinandoli in casa, o "educandoli" se il cane non è come un cane deve essere, etc, etc (che poi, volendo, è la stessa cosa che gli umani fanno con i propri figli, è proprio il modo di pensare sociale che è orrendo). Io concordo con te sulla critica alla violenza verso gli altri animali, ma la vedo ovunque, non solo negli allevamenti felici o non felici. Poi, sinceramente non so come viene tolta la lana alle pecore, ignoro la questione, e i vestiti, quando ne avrò bisogno, ho deciso che ne comprerò di usati. Concordo sul fatto che ogni essere vivente è un individuo a se stante, con i propri bisogni e le proprie necessità e in quanto tale ha diritto a esprimere se stesso nelle modalità che gli sono più congeniali, qualunque cosa esso sia, ma per sfortuna noi uomini abbiamo costruito una società in cui tutto è vendibile e commercializzzabile e tutto deve rendere un utile economico. Persino la nostra intimità è stata messa sul mercato, quindi...
Grazie per il consiglio sulle scarpe.
Mi puoi consigliare qualche libro sull'argomento?
UnCaneProfumato
Penso che gli Stati uniti siano folli per via della gestione della sanità, delle armi, di come permettano a multinazionali di fare il bello e il cattivo tempo, importa solo quanti soldi possiedi, ma alla fine è vero, tutto il mondo è paese.
Poi io non conosco gli Stati Uniti e sicuramente ci sono persone di tutti i tipi, anche perché in una certa maniera sono debitore verso alcuni personaggi statunitensi. Pare terra ricca di contraddizioni, ma a naso non piace anche perché il mondo che vogliono, intendo loro come entità astratta, mal si sposa con ciò che voglio io e di come vorrei vivere la mia vita.
UnCaneProfumato
Certo, anche io non condivido il discorso delle armi e della gestione della sanità negli Usa, ma del resto anche la società italiana è molto diversa da quella in cui vorrei vivere io, avendo un ideale anarchico-collettivo. Tutto il mondo è paese perché il dominio e lo sfruttamento sono globali e perché il capitalismo, che sia di stato o privato, al momento si è imposto ovunque. Non è detto però che il mondo non possa cambiare (non è mica un ente astratto metafisico). Sono per la riappropriazione di una politica dal basso in cui le persone la smettano di delegare ai governanti la gestione delle loro vite. Discorso che vale anche per la produzione.
Sul discorso dei cani, invece, ovviamente sono contraria al concetto di entrare in un negozio e acquistare un cucciolo come fosse un oggetto. Sono favorevole alle adozioni dai canili.
Sfruttamento o meno, è proprio sbagliato il punto di vista che abbiamo sugli altri animali, ossia antropocentrico.
Ti allego una lista di libri sull'antispecismo che tempo avevo stilato dietro richiesta di una persona:
I diritti animali di Tom Regan
Liberazione animale di Peter Singer
Ecocidio di Jeremy Rifkin
Al di là della natura di Marco Maurizi
Asinus Novus di Marco Maurizi
Flatus Vocis di Leonardo Caffo
Il maiale non fa la rivoluzione di Leonardo Caffo
Adesso l'animalità di Leonardo Caffo
Un'arte per l'altro di Leonardo Caffo e Valentina Sonzogni
Margini dell'umanità: animalità e ontologia sociale di Leonardo Caffo
Epifania animale di Roberto Marchesini
Crimini in tempo di pace. La questione animale e l'ideologia del dominio di Massimo Filippi e Filippo Trasatti
I margini dei diritti animali di Massimo Filippi
Natura infranta. Dalla domesticazione alla liberazione animale di Massimo Filippi
Finalmente la liberazione animale di Melanie Joy
Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche di Melanie Joy
Restiamo animali di Lorenzo Guadagnucci
Al punto di arrivo comune: per una critica della filosofia del mattatoio di Francesco Pullia
Noi abbiamo un sogno di Annamaria Manzoni
In direzione contraria di Annamaria Manzoni
Se niente importa di Jonathan Safran Foer
Gabbie vuote di Tom Regan
Una morale per tutti gli animali di Oscar Horta
Lettera a un futuro animalista di Dario Martinelli
La vita degli animali di J.M. Coetzee
Fermare Green Hill (la storia sulla campagna Green Hill)
Proposte per un manifesto antispecista di Adriano Fragano
P.S.: appoggio totalmente la scelta di comprare abiti usati. Anche io lo faccio spesso. Si esce un po' dal consumismo e si riducono gli sprechi.
Accidenti che lista, grazie!
Comunque concordo con te sull'antropocentrismo, gli stati e la delega.
Grazie ancora e ciao, tornerò a distrurbarti!
Nessun disturbo, torna pure quando vuoi, sei il benvenuto. :-)
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