giovedì 26 novembre 2015

Riparare i viventi di Maylis de Kerangal


Qualcuno, non ricordo più chi, dei miei contatti su FB mi ha consigliato questo romanzo tempo fa. Ultimamente, per non dimenticarmi i suggerimenti di libri e film, mi appunto i titoli dentro una cartella del pc, solo che dimentico il contesto in cui mi furono segnalati e anche di cosa parlino. Poco male.
Comunque sia, ringrazio questo qualcuno per la dritta perché è davvero uno dei romanzi più belli che abbia letto di recente, anche se stilisticamente non mi ha convinta più di tanto.
Una scrittura tanto potente e drammatica a tratti, quanto leziosa e affettata in altri; una storia corale che restituisce tutti i colori di una tragedia che da personale diventa così una questione collettiva su cui riflettere. Un romanzo che parla degli argomenti di sempre, ossia della vita e della morte e di quello che ci passa in mezzo, ma da una prospettiva inedita: quella del limbo, del trovarsi in bilico tra l'accettare la morte o resisterle e poi di lasciar andare chi amiamo per rendere un servizio immenso all'umanità quale quello della donazione degli organi. Si può accettare che qualcosa di chi amiamo continui a vivere dentro un altro corpo? Il libro riporta il punto di vista di tutti i personaggi, compreso quello del ricevente e delle persone - medici, infermieri, parenti - che ruotano attorno a questa tragedia; qualcuno l'ha definita una tragedia greca e forse lo è perché la maniera in cui si intrecciano i destini di alcuni rimane in fondo inesplicabile, ma anche in qualche maniera piena di senso, intellegibile, come se davvero ci fosse dietro una regia invisibile. 
L'autrice è molto brava nel descrivere i sentimenti, le emozioni, in particolare la cesura tra il prima e il dopo. 
Ma il linguaggio, o almeno la traduzione, a tratti insegue un lirismo che non era necessario e questo, insieme allo stile in generale, è l'unica pecca. Raccontato da un punto di vista esterno, una sorta di narratore onnisciente, quasi tutto in forma indiretta, dialoghi scarni; descrizioni dei luoghi che si fondono con quelle degli stati d'animo, qua e là qualche flusso di coscienza, uno stile abbastanza personale, ma che a volte ho trovato poco sincero, un po' di maniera.
Per esempio, prendiamo questo passaggio: 
"Un vuoto si è aperto davanti a loro, un vuoto che possono immaginare come 'qualcosa' perché il 'niente' è inconcepibile. Quello che provano non riesce a trovare una soluzione possibile, ma li paralizza in una lingua che precede il linguaggio, un linguaggio incondivisibile, che è prima delle parole e prima della grammatica, che è forse l'alto nome del dolore cui non possono sottrarsi"
Bastava chiudere dopo "inconcepibile". Sarebbe risultato più forte, meno lezioso. 
Insomma, ci sono tanti passaggi così, arricchiti di frasi inutili che sono solo un esercizio di stile, ma nel complesso rimane un gran bel romanzo, denso di riflessioni che riempiono la pagina e si incastrano l'una dentro l'altra, rendendolo pieno e forte.

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