Mi piace continuare a leggere libri sull'antispecismo perché anche se penso di sapere già diverse cose sull'argomento (almeno le basilari), trovo in ognuno di essi sempre nuovi spunti di riflessioni o maniere diverse per argomentare le nostre istanze. Questo perché alla fine l'antispecismo è un pensiero e una prassi in progress, non c'è ancora nulla di definito, né tanto meno, di dogmatico. Ognuno ci è arrivato attraverso un proprio percorso, ognuno ne propone una teorizzazione e versione diversa e poiché ciò che intende combattere - lo specismo, l'antropocentrismo, il dominio, la mercificazione del vivente, la discriminazione morale - è capillare e molto radicato e complesso, alla fine va bene tutto, va bene portare avanti tutti insieme diversi discorsi che, a mio avviso, dovrebbero integrarsi a vicenda e non escludersi a colpi di "io ho la soluzione, tu stai sbagliando".
Ad esempio di recente ho letto Restiamo Animali di Lorenzo Guadagnucci, scritto nel 2012, il quale ha riportato una dichiarazione di Luigi Lombardi Vallauri a proposito del concetto di "allevamento felice", anche detto "carne felice" o "bioviolenza". Dice lui, più o meno (cito a memoria): uccidere animali che sono vissuti liberi è in un certo senso una massimizzazione del danno perché togliere la vita ad individui che hanno avuto la possibilità di assaporarla a pieno (rispetto ad esempio a quelli che vivono dentro gli allevamenti intensivi cui è stata negata la possibilità di esprimere ogni caratteristiche etologica) procura loro un danno ancora maggiore. Per quanto paradossale, uccidere una gallina che ha vissuto tutta la sua breve vita dentro una gabbietta minuscola dove a malapena riusciva a muoversi, può essere per lei un sollievo. Chi è torturato costantemente, attende la morte come liberazione. Ovviamente ciò che si contesta è il fatto in sé del dominio degli animali, non certo la maniera in cui vengono fatti vivere, se intensiva o meno. Però, ecco, ho trovato molto pregnante questo discorso della massimizzazione del danno e credo che possa essere utile per obiettare il concetto di carne felice e di allevamento non intensivo poiché fa capire quanto il danno sia nell'idea, comunemente accettata, di poter disporre così delle vite di migliaia di individui senzienti e di decretarne la morte, e non nella maggiore o minore brutalità della maniera in cui viene loro concesso di esistere.
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