“Su per delle lunghe scale esterne giunsero all’ultimo dei cinque o sei piani del palazzo. Lì rividero lo scivolo dei maiali in quel suo segmento in cui la fiumana delle bestie con grande sforzo ancora risaliva. In un certo punto i maiali potevano fermarsi per qualche istante, ma venivano subito sospinti in avanti attraverso una passerella, finendo così in quello stanzone da cui non sarebbero mai più usciti. Era un ambiente angusto, lungo e stretto, questo stanzone. Per i visitatori che vi si addentravano c’era una specie di balconata che correva sui margini. Un’enorme ruota metallica, del diametro di circa sei metri, munita di una fila di anelli attaccati sulla sua facciata esterna e disposti tra loro a uguale distanza, torreggiava in fondo. Ai lati della ruota c’erano due stretti corridoi in cui i maiali entravano al termine del loro viaggio, e in mezzo, tra i due corridoi, sostava un nerboruto operaio nero, con le braccia e il petto nudi. In quel momento stava probabilmente prendendo fiato perché approfittava del fatto che la ruota si era fermata, intanto che degli altri operai facevano pulizia nella sala. Dopo qualche minuto però la ruota riprese a girare, e gli uomini ai due lati si rimisero al lavoro. Il compito di questi uomini consisteva nell’agganciare una catena alla zampa di ogni maiale. L’estremità di ogni catena veniva bloccata in uno degli anelli della ruota. Appena la ruota si muoveva accadeva che il povero maiale veniva di colpo sollevato e cominciava a dimenarsi e a strepitare per l’aria. E infatti uno strido agghiacciante colmò in quel momento lo stanzone e squarciò i timpani dei visitatori; essi sobbalzarono e le donne si ritrassero atterrite. A quello strido ne seguì un altro, ancora più disperato. Era dovuto alla consapevolezza del povero animale che, una volta sollevato in aria, capiva di non poter più tornare indietro: lassù, giunto al punto in cui la ruota cominciava a farlo scendere, mediante una specie di carrucola veniva smistato in una certa direzione, si muoveva sospeso a mezz’aria per lo stanzone mentre un altro suo simile, e poi un altro ancora lo seguivano alla stessa maniera, fin quando non si formava una doppia fila di maiali appesi per una zampa, che si dimenavano e grugnivano disperati. Quel frastuono era assordante, metteva a dura prova i timpani. Si aveva la sensazione che le pareti dello stabilimento quasi dovessero infrangersi sotto l’’urto delle onde sonore, e che prima o poi si sarebbero sgretolate e il soffitto sarebbe venuto giù.
Urla lancinanti, grugniti perforanti, agonia, d’un tratto calma, poi di nuovo un’esplosione più violenta, crescente fino all’apice intollerabile. E, per alcuni, era più di quanto si potesse sopportare. Gli uomini si scambiavano occhiate nervose, se sorridevano lo facevano in modo imbarazzato; le donne si stropicciavano le mani, mostravano segni di irrequietezza. Il loro viso si sbiancava, i loro occhi si inumidivano. Nel frattempo, indifferenti a tutto ciò, gli operai che lavoravano nello stanzone svolgevano il proprio compito. Per loro non faceva alcuna differenza che si trattasse di strida dei maiali o di lacrime dei visitatori. Agganciavano i maiali uno dopo l’altro e li sgozzavano con una rapida coltellata, così integrando la fila di quegli animali rantolanti che mescolavano le ultime grida ai copiosi fiotti di sangue; le carcasse dondolanti per aria riprendevano il loro viaggio, per essere poi immerse in una grande vasca d’acqua bollente. Il tutto era così sistematico, così clinico, così razionale che i visitatori ne rimanevano affascinati. Era la produzione meccanizzata della carne di maiale, la produzione organizzata su base matematica della carne di maiale! Ma, anche la mente più affaristica e apatica non poteva non pensare, perlomeno per un solo istante, a quei poveri maiali: erano così innocenti, giungevano così ingenuamente, con così tanta umanità finivano col rivendicare le proprie proteste, e così coscienti erano del loro diritto di protestare... be’, insomma, non avevano fatto proprio nulla per meritarsi quel trattamento, e il modo stesso in cui venivano tramutati in carne in scatola finiva per aggiungere al danno anche la beffa. Farli ciondolare in quel modo disumano e impersonale, non un cenno di scusa, non l’onere di una lacrima versata per loro... Di tanto in tanto un qualche visitatore scoppiava pure in lacrime, ma di certo la macchina del massacro non si fermava! Era come se, in un qualche castello, in segreto e al riparo, fuori dalla vista ed epurato finanche dal ricordo, si perpetrasse un orribile crimine. Non si poteva evitare, riflettendo sulla questione, di precipitare in uno stato d’animo filosofico o sentimentale, finendo con l’interpellare o chiamare in causa simboli e metafore, mentre si udivano gli strepiti di tutti i maiali dell’universo.
Davvero qualcun sarebbe potuto rimanere scettico sul fatto che dovesse esistere un paradiso dei maiali, sulla terra o al di sopra di essa? Un paradiso dove ciascuno di quei maiali non avesse diritto alla ricompensa per così tanta sofferenza subita?
Ciascuno di loro era una creatura univoca, diversa, a sé; chi bianco, chi nero, marrone, maculato; vecchi, giovani, lunghi, magri, tozzi, brutti; ognuno con una propria individualità, una sua propria volontà, forse con speranze e desideri consapevoli... tutti riponevano fiducia in sé stessi, percepivano quanto fossero importanti, erano consci della loro dignità. Tuttavia, intanto che ognuno di essi aveva percorso la propria via, una nefasta ombra non lo aveva perso d’occhio, gli era rimasta appiccicata alle spalle pronta a ghermirlo: un Fato impietoso che l’aveva atteso a un certo punto del suo cammino e, crudele, s’era scagliato su di lui, l’aveva bloccato, l’aveva afferrato per una zampa, senza alcuna possibilità di dargli salva la vita. E nulla avevano potuto le sue lamentele, le sue urla selvagge; ogni cosa era stata annullata. I suoi desideri, le sue emozioni era come non fossero mai esistite. Gli si tagliava la gola e, mentre agonizzante esalava l’ultimo respiro, lo si stava ad osservare. Davvero, dopo tutto questo, si poteva continuare a non credere che un luogo in cui a un dio dei maiali sia cara e preziosa la dignità dei maiali, in cui il loro dolore e il loro sacrificio abbia un significato e un senso, non possa esistere? Non vi sarebbe stato proprio nessuno che avrebbe tenuto stretto il povero animale tra le braccia? Lo avrebbe abbracciato per donargli una qualche consolazione, lo avrebbe ricompensato del lavoro ben fatto spiegandogli il motivo, la logica del suo martirio?
Forse, nei semplici pensieri del nostro amico Jurgis uno sprazzo di intuizione di tutto ciò era possibile ravvisarlo, allorquando, volgendosi per riprendere il suo cammino attraverso lo stabilimento, sussurrò: << Dieve, sono contento di non esser nato maiale!>>.”
Da "La giungla" di Upton Sinclair.
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3 commenti:
Avevo sempre e solo sentito parlare di questio libro-pietra miliare della presa di consapevolezza -ma , non avevo mai potuto leggerne alcuna pagina. Questi frammenti sono impressionanti.
la forza delle parole.
Un libro bello, quanto duro.
Consigliatissimo. E pensare che non nasce per denunciare le condizioni degli animali - anche se implicite - ma quelle degli operai del distretto dei mattatoi di Chicago. Contiene una seria critica al capitalismo.
brava cara
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