Un racconto breve.
Sto sognando quando improvvisamente vengo svegliato da un rumore di vetri rotti e un trambusto di oggetti rovesciati. Scalpiccìo di passi pesanti, voci decise e stranamente ovattate vengono verso di me. Devono essere almeno in due, forse tre o anche di più. Si muovono in fretta e si danno brevi ordini incrinati da acuti di paura. No, non è paura, è ansia, trepidazione.
Cosa vogliono? Di notte non viene mai nessuno quaggiù.
Scendo dalla branda e copro a balzi veloci la poca distanza che mi separa dall’angolo più lontano rispetto alla porta. L’istinto è sempre questo che suggerisce nelle situazioni di panico: farsi più piccoli, diventare invisibili.
I miei vicini di cella si stanno svegliando, i loro movimenti frenetici si sommano e quasi sovrastano quelli dei visitatori.
Sono dietro la porta adesso e stanno rovistando in fretta nella serratura. Sferragliare meccanico di attrezzi e una voce concitata:
- Fai in fretta, ci siamo quasi!
La porta si spalanca, un flash accecante mi colpisce gli occhi, la testa, le viscere. Tremo e non riesco a pensare. Sono paralizzato.
Vengono verso di me. Indossano abiti scuri e hanno il volto coperto. Le mani nude, mentre si avvicinano riesco a sentirne l’odore acre di sudore. Sono solo due e sono disarmati, forse posso difendermi lottando, afferrare quelle mani nude con i denti e strapparne la pelle a brandelli. Anche lei ci provò, quel giorno. Ma quegli altri, quelli che la presero, non erano disarmati. Una siringa in una mano e un bastone nell’altra ammutolirono le sue urla e fiaccarono ogni mio tentativo di difesa. Impotente, la osservai andar via trascinata come un fantoccio privo di vita.
Avrei voluto seguirla anche allora, come quella volta quando ci presero in una giornata di sole, ma l’uomo alto col camice bianco mi sbarrò la strada minacciandomi con un bastone e tutto quello che potei fare fu augurarmi di rivederla ancora viva.
Sono tante le ipotesi che si vociferano quaggiù. Non sappiamo perché siamo qui, né dove ci troviamo, esattamente. Siamo nati liberi e poi un bel giorno, semplicemente, non lo siamo stati più. Perché non abbiamo lottato quando potevamo? In qualche modo ci siamo illusi tutti che restando miti e docili ci saremmo salvati. Loro erano furbi. Prendevano prima i più piccoli e le femmine e noi, cos’altro potevamo fare se non seguire chi amavamo? E così, uno dopo l’altro, ci siamo lasciati catturare, senza ribellarci.
Qui il tempo sembra fermo. Non c’è giorno e non c’è notte. Ogni tanto gli uomini in bianco prendono qualcuno di noi e poi non se ne sa più nulla.
Dentro di me non ho mai smesso di credere di poterla rivedere.
L’uomo vestito di nero e disarmato è ormai su di me. Mi afferra per un braccio. Posso morderlo, potrei morderlo, ma ho negli occhi lo sguardo disperato di lei mentre crollando sotto l’effetto del farmaco che le iniettarono quegli altri uomini, quelli vestiti di bianco, mi supplicava di non lasciarla sola.
Allora non potei, ma oggi mi viene offerta un’altra occasione. L’occasione di raggiungerla, in qualunque luogo sia, fosse anche l’inferno più inferno di quaggiù.
Mi affido, ancora una volta docilmente, proprio come tanti mesi fa, ai miei carcerieri.
L’uomo col volto coperto mi solleva per un braccio e mi afferra tra le sue, che sono forti, anche se tremano un po’. Mi fissa e mi dice qualcosa che non riesco a capire e per la prima volta scorgo i suoi occhi dietro le fessure del passamontagna. Sono azzurri e limpidi. Mi pare che stia per mettersi a piangere. Loro lo fanno, a volte piangono.
Insieme varchiamo la soglia e per la prima volta vedo cosa c’è al di fuori della mia cella. Un lungo corridoio con tante stanze uguali alla mia. Alcune sono aperte e già vuote. Capisco che insieme a me hanno preso anche altri. Non tutti, quelli che hanno potuto nel poco tempo a disposizione. Corriamo via veloci, veloci come il vento, lasciandoci alle spalle scrivanie ribaltate, provette frantumate, lugubri arnesi di metallo, computer fracassati e strani segni sui muri.
L’uomo, con me in braccio, sale su una sedia e scavalca la finestra dai vetri rotti.
L’odore dell’erba umida nella notte è così forte che quasi mi toglie il respiro.
L’uomo continua a correre attraverso i campi arati, ogni tanto inciampa e io mi aggrappo più forte al suo corpo perché ho paura di cadere. Lui mi stringe, ma non mi fa male, è una presa rassicurante, piena di premura, mi ricorda l’abbraccio della mia mamma, tanto tempo fa.
L’uomo corre, corre, corre, a un certo punto si vedono delle luci e lui si butta a terra, sempre con me stretto al suo petto, si rannicchia, cerca di farsi piccolo, invisibile, come me prima. Quando le luci sono passate si rialza, ci rialziamo e corriamo ancora. A un certo punto ci fermiamo, lui è senza fiato, sento i battiti del suo cuore. Guarda in alto, c’è un filo spinato e mi accorgo che dall’altra parte c’è un altro uomo che tende le mani, in attesa. Il mio uomo mi solleva, oltre il filo spinato, mi sembra di volare, vedo la luna vicinissima, così vicina che potrei toccarla. L’uomo dice: “lui è l’ultimo macaco, ce l’abbiamo fatta, li abbiamo liberati tutti”.