(Foto di Massimo Jamal)
Ieri a Roma si è tenuto il quarto presidio davanti al mattatoio di Viale Palmiro Togliatti.
Come per i precedenti c’è stata una grande partecipazione di tante persone, venute persino appositamente da altre città d’Italia, di tutte le età, alcune alla loro prima esperienza di attivismo su strada. Ci dà speranza vedere tanti volti nuovi, giovani, meno giovani, una coppia con il loro bambino piccolissimo, una madre accompagnata dalla figlia in età scolare: una bambina dolcissima, già consapevole dell’importanza della sua testimonianza, che tutta compunta regge in mano uno dei cartelli e osserva, ascolta, diventa parte attiva di un movimento che si oppone allo sterminio legalizzato di altri bambini, cuccioli appartenenti ad altre specie, uccisi per essere trasformati in pezzi di carne a soli pochi mesi di vita.
Ieri è stato un presidio particolarmente pesante e sentito perché sono passati diversi tir pieni di animali: agnellini, maiali, cavalli stipati in enormi camion e in dirittura di arrivo al luogo di non-ritorno: il mattatoio.
Alcuni provenienti dall’est Europa, stremati dal lungo viaggio, ammassati come se fossero oggetti. Ma non sono oggetti, sono individui senzienti fatti nascere per essere trasformati in cibo, quel cibo che finisce sui banconi dei supermercati e che tante persone acquisteranno con gesti consuetudinari, ignare della tragedia di cui la società del dominio ci rende tutti corresponsabili e il più possibile all’oscuro.
Il presidio si è svolto con le solite modalità: i partecipanti si sono posizionati ai lati e agli incroci della larga via di scorrimento che conduce al mattatoio, situato poche decine di metri più avanti. Sono stati distribuiti volantini, che spiegano il senso della campagna, ai passanti dentro i veicoli, quando sono fermi al semaforo; abbiamo camminato tra le auto ferme mostrando cartelli con immagini di forte impatto e frasi significative – non necessariamente cruente, anzi, quasi tutte ritraggono animali che vivono liberi, come dovrebbero restare; abbiamo parlato al microfono, letto stralci da investigazioni sotto copertura e provato a spiegare ai passanti perché siamo lì, cosa stiamo facendo, cosa vogliamo raccontargli.
Alcuni annuiscono e ci danno sostegno, altri chiedono maggiori informazioni, qualcuno (ma molto pochi in verità) ci schernisce e ci dice le solite frasi di circostanza: “ammazzano anche le persone e voi vi state a preoccupare degli animali?”. Non sanno costoro – ma è quello che gli diciamo – che noi siamo lì anche per loro, a combattere contro ogni ingiustizia e discriminazione e che è ora di sfatare questo falso luogo comune che occuparsi della questione animale significhi automaticamente disinteressarsi del resto; e come se occuparsi degli animali non umani fosse poi una battaglia meno nobile rispetto alle altre: non sono forse individui anche loro? Il dominio sul vivente, lo sfruttamento, la schiavitù, lo sterminio di individui senzienti, di tutti gli animali, umani e non, hanno radici indistricabilmente connesse. La società in cui viviamo ha eretto un sistema entro il quale la logica di dominio che stritola e riduce tutti in “pezzi di carne” adibiti al consumo non viene percepita, ma è occultata grazie a precisi meccanismi di esclusione e fatta passare per “normale”, “naturale”, “necessaria”; le pratiche di violenza agite sui corpi animali vengono tenute nascoste e il fatto che l’orrore sia istituzionalizzato e legalizzato ne rende ardua e difficoltosa la messa in discussione.
Come abbiamo spiegato altre volte, la questione dello sfruttamento degli animali non riguarda soltanto le persone che “amano gli animali”, ma la collettività intera perché essa è parte ed effetto di quella stessa logica di dominio che consente ogni altro abuso sul vivente. Finché consentiremo l’esistenza di veri e propri lager (allevamenti, CIE, carceri, prigioni visibili e invisibili), di luoghi di sterminio istituzionalizzati e parole d’ordine per procedere ad uccidere (mattatoio, guerre, invasioni ecc..) nessuno di noi avrà scampo, né potrà dirsi realmente libero.
Se però di alcune pratiche della nostra società, per quanto comunque consentite, è palese la violenza che comportano, ce ne sono altre di cui l’orrore non viene percepito poiché talmente introiettate a livello culturale da non permetterne il riconoscimento e il disvelamento. Tra queste quella di uccidere gli animali per trasformarli in cibo.
E per questo noi andiamo davanti al mattatoio: per documentare, testimoniare, indirizzare una collettività resa cieca e sorda al dolore degli altri animali, verso lo sguardo di chi in quello stesso momento sta andando a morire. Non siamo disposti ad accettare che lo strazio di questi individui venga preso in minor considerazione poiché sarebbero “soltanto animali”. Anche perché basta guardarli negli occhi, incrociarne di sfuggita lo sguardo per provocare la vertigine dell’incontro con una realtà che fino a quel momento si è ignorata. Gli animali sono ovunque attorno a noi, eppure non li vediamo e non li vediamo perché non sappiamo vederli.
Noi ieri li abbiamo incontrati questi individui diretti al macello e per un attimo abbiamo potuto sfiorare le nostre esistenze – quella loro, davvero troppo breve, (s)terminata ingiustamente, con la nostra –, donargli l’unica e ultima carezza che mai riceveranno. Abbiamo visto il loro sguardo, innocente, ingenuo, pulito, ancora ignaro della fine che di lì a pochi minuti li avrebbe attesi. Ecco, ciò che ci ha straziati maggiormente – ma lo strazio è quello concreto che avviene sui loro corpi – è udire quei versi di richiamo rivolti alle loro madri lontane (sono tutti cuccioli gli animali che vengono uccisi per diventare cibo, ma in particolare gli agnellini, strappati alle madri a poco meno o poco più di un mese) e poi sentirli calmarsi per un attimo quando ci siamo avvicinati. Sembravano contenti di vederci, speranzosi, persino fiduciosi. Ma è stato un attimo, il tempo di una lieve carezza e di una parole sussurrata tra le lacrime e poi li abbiamo visti ripartire, allontanarsi... sapendo che il contatto umano successivo che avrebbero ricevuto non sarebbe stata più una carezza, ma la mano forte dei boia accompagnata dalla lama gelida del coltello. Nessuno di noi presente ieri riesce a darsi pace, a capacitarsi del fatto che quegli occhi oggi non vedono più, che quei cuccioli oggi sono già pezzi di carne confezionati sui banchi del supermercato.
L’impotenza è stato il sentimento predominante, ieri. Ma cos’altro possiamo fare per il momento se non raccontare, documentare, rendere visibile l’orrore?
In mezzo a tanto sconforto però ci sono stati anche due fatti incoraggianti: una ragazza che abita in zona, ma ignara fino a quel momento che dietro casa sua ci fosse un mattatoio, quando ci ha visti e ha saputo cosa stavamo facendo, si è unita a noi (come già è successo ai presidi scorsi); un ragazzo si è avvicinato a un’attivista, Stefania, e le ha fatto alcune domande, subito mettendosi sulla difensiva, ossia giustificando il suo mangiare animali. Il caso ha voluto che proprio in quel momento arrivasse il camion di agnellini e che Stefania - dopo che gli aveva già spiegato che non è necessario uccidere per vivere - lo invitasse a voltarsi, a soffermarsi sui loro sguardi, in definitiva: a guardare per la prima volta CHI è che la gente si mette nel piatto. Il ragazzo li ha visti e poi è scoppiato in un pianto dirotto, dicendo tra le lacrime: “non immaginavo... non ci avevo mai pensato che fossero cuccioli, non ci avevo mai pensato...”. Non ci avevo mai pensato.
Già, perché è così che avviene: le persone non ci pensano mai davvero. Sì, lo sanno che la carne che comprano è parte di un animale, ma lo sanno in una zona molto remota del loro cervello, lo sanno in astratto, come se gli animali fossero assenti – si dice giustamente un referente assente - e non quel pezzo di carne che maneggiano con la forchetta. E quando ci pensano un pochino più a fondo subito rimuovono, negano, dimenticano, giustificano, come a non voler prendere atto dell’orrore che esiste attorno a noi e di cui tutti siamo corresponsabili. Ma di fronte allo sguardo vivo, a quelle narici che fremono per respirare un pochino d’aria, a quei corpi caldi e ancora vibranti di vita, non possono più negare, né giustificare l’ingiustificabile. Il velo cade, la finzione è smascherata, siamo solo noi e loro: corpi animali che desiderano vivere. Non "carne" in astratto, ma corpi animali di carne attraversata da vita pulsante che vuole continuare a vivere.
E allora eccolo il senso di quello che facciamo. Mettere a nudo, accendere la luce sull’oscurità di un orrore appositamente tenuto nascosto affinché la macchina del dominio sistemica possa procedere indisturbata. Noi ieri questa macchina non abbiamo potuto fermarla, ma ne abbiamo visto il potere stritolante riflesso negli occhi di quelle vittime e più di prima siamo convinti di andare avanti, di continuare a lottare.
L’indifferenza è complicità.
Siamo una minoranza, ma le minoranze, quando consapevoli della loro forza e determinazione, possono realizzare grandi sogni. E noi quel sogno ce lo portiamo dentro da tempo, insieme all’incubo della sofferenza di chi non abbiamo potuto salvare.
(Rita Ciatti e Eloise Cotronei)
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