Un racconto breve.
Le scarpe chiuse con un pezzo di corda e la testa piena di pidocchi. Gli abiti sdruciti di due taglie più grandi passati dai fratelli maggiori. In famiglia erano otto e vivevano tutti in una stanza: lui, il più piccolo di sei maschi e i genitori alcolisti.
Sedeva all’ultimo banco a destra della prima fila e accanto a lui c’era sempre un posto vuoto perché nessuno mai voleva stargli accanto. Non era per i pidocchi, i bambini non si preoccupano di queste cose, ma perché era leggermente ritardato e diverso da tutti gli altri. Se ne stava tutto il tempo voltato verso la finestra, come se non aspettasse altro che il momento opportuno per spiccare un salto, arrivare fin sul davanzale e volar via. Numeri, lettere, parole non gli interessavano. Era perso nel suo mondo interiore e non sembrava interessarsi granché a socializzare con gli altri. Ogni tanto sorrideva, ma non a qualcuno, sorrideva così, perché, tutto sommato, era un cuor contento.
L’unico momento in cui sembrava realizzare di trovarsi in mezzo ad altre persone era durante la ricreazione. Al suono della campanella sembrava come risvegliarsi e cominciava a guardarsi attorno. Quel che gli interessava non era partecipare ai giochi, ma ottenere pezzetti di merenda qua e là perché nessuno a casa gli aveva preparato la sua.
Una volta si mise di fronte a Sabrina che stava sgranocchiando le patatine e gliene chiese una. Lei fece no con la testa. Lui le ripeté la richiesta e lei ancora una volta scosse il capo. E continuò così per un buon quarto d’ora, con lei che continuava a sgranocchiare patatine una ad una, tirandole fuori dal sacchetto dopo averci rovistato dentro un po’, come a scegliere le più belle e le più grosse – quelle che solo a vederle ti sentivi pizzicare le papille gustative – e poi a infilarsele in bocca lentamente, socchiudendo gli occhi e rompendole con i denti facendo il più rumore possibile. E lui che continuava a implorarla con la bava alla bocca e lei che ancora scuoteva la testa, strizzava gli occhi e diceva no con un’ostinazione tale che a me venne voglia di tirarlo per una manica e portarlo via e non sapevo se provare più rabbia per lui che senza vergogna continuava a chiedere o per lei che non voleva dargli quella benedetta patatina. Fu quando gliene cadde una dal sacchetto, lui fece il verso di chinarsi per raccoglierla e lei veloce ci mise il piede sopra riducendola in poltiglia ormai immangiabile che qualcosa mi si rimescolò dentro e allora trovai il coraggio di prendergli la mano e portarlo via con me.
Quell’anno era la terza volta che ripeteva la prima elementare e nei consigli di classe si discuteva se ammetterlo o no alla seconda, anche se a malapena sapeva scrivere il suo nome e non riusciva a leggere una sola parola senza sillabare.
Angelo, si chiamava Angelo, che lui leggeva An – ge – lo e quando gli chiedevi come si chiamava lo scandiva allo stesso modo.
Tra gli insegnanti c’era chi diceva che tanto più di così non avrebbe potuto imparare a allora tanto valeva ammetterlo alla seconda classe e fargli passare tutto il resto fino al termine della scuola dell’obbligo e chi invece era convinto che il problema fosse la famiglia in cui viveva, il fatto che non avesse spazio e concentrazione per fare i compiti e che i genitori non lo seguissero e lo lasciassero bighellonare tutto il giorno con i fratelli più grandi che già avevano lasciato la scuola per dedicarsi a lavoretti di ogni tipo portando a casa due spicci che poi finivano, puntualmente, nella tasche, pardon, nella gola dei genitori che era sempre arsa da una sete di alcol inestinguibile.
Fatto sta che alla fine, durante il consiglio dell’ultimo trimestre dell’anno in cui andai in prima elementare, prevalse la linea del “non arrendiamoci!” e fu deciso che Angelo sarebbe stato affiancato da un bambino, particolarmente diligente e paziente, che il pomeriggio lo avrebbe invitato a casa sua a fare i compiti, nella speranza che avrebbe potuto migliorare. Quel bambino, fu deciso che fossi io.
Per tutto il resto dell’anno mia madre venne a prenderci all’una e ci portava a casa nostra. Ci dava da mangiare e poi ci lasciava giocare un po’. Io avevo solo bambole perché, invero, ero una bambina, ma Angelo non sembrava farci caso, non era ossessionato come gli altri bambini maschi dal pallone da calcio, le figurine o le macchinine, né si preoccupava di essere preso in giro se fosse stato visto fare giochi da femmina. Più di ogni altra cosa gli piaceva ascoltare i dischi e ballare. Quando accendevo e spegnevo la luce per imitare quelle a intermittenza delle discoteche, andava letteralmente in visibilio. Saliva sul letto e si dimenava come se sotto avesse una platea piena di gente ad applaudirlo.
Mia madre gli fece tagliare i capelli e lo ripulì dai pidocchi, poi gli comprò le scarpe nuove e qualche vestito della sua misura. In poche parole, lo adottammo, anche se la sera lo riaccompagnavamo a casa sua, fin dentro quella specie di stanzone di un sottoscala umido e puzzolente. La madre una volta uscì fuori e ci ringraziò per gli abiti nuovi e tutto il resto, ma lo disse come attraverso un vetro, come se tra noi e lei ci fosse una distanza che sarebbe stato impossibile colmare.
Il rendimento scolastico di Angelo non migliorava granché però gli piaceva giocare con me e sembrava reagire di più agli stimoli esterni. A scuola era più attento e sembrava più interessato alle attività, comprese quelle di gioco.
Ormai a ricreazione non doveva più andare in giro a mendicare pezzetti di colazione perché mamma me ne metteva due dentro la cartella, una per me e una per lui.
Scoprì che gli piaceva stare al centro dell’attenzione e così si prestava a fare un po’ il giullare della situazione, assecondando le richieste degli altri bambini di ballare, cantare o fare altro. Era molto bravo e particolarmente intonato e tutti lo applaudivano alla fine di ogni esibizione. Fuori da quel momento però, nessuno se lo filava più di tanto e fuori dalla classe, fuori dall’ora di ricreazione, non gli dicevano nemmeno ciao. Lui ci restava male, non capiva perché poche ore prima tutti lo avessero supplicato di fare cose e poi dopo era come se fosse diventato invisibile.
Allora lo prendevo per mano e lo portavo a casa mia dove, se non proprio al centro dell’attenzione al cento per cento, almeno tornava a essere visibile.
Un bel giorno Angelo non si presentò in classe. La maestra fece l’appello e si accorse che non c’era. Io mi ero accorta già da prima. Nessuno si preoccupò più di tanto, nemmeno io, pensammo che forse si era preso l’influenza o che non si fosse svegliato in tempo. Ma quando non si presentò nemmeno il giorno dopo la maestra chiese a mamma di andare a controllare a casa sua. Io andai con lei. A casa c’erano dei parenti venuti da chissà dove che erano stati mandati a chiamare. Due sere prima i genitori di Angelo, ubriachi fradici, erano andati a sbattere con la macchina contro un albero ed erano rimasti uccisi sul colpo.
Allora feci fatica a comprendere la situazione, mi venne detto soltanto che Angelo sarebbe andato a vivere con questi parenti o forse messo in un orfanotrofio, non so bene. Feci giusto in tempo a vederlo un istante, prima che mia madre mi portasse via. Se ne stava seduto sul letto e aveva di nuovo quello sguardo perso come quando in classe restava per ore voltato verso la finestra, solo che ora, lì, non c’era nessuna finestra.
Gli feci ciao con la manina, ma lui non sembrò farci caso.
Mamma mi tirò via e quando le chiesi se sapesse cosa stesse guardando Angelo, mi rispose che certe persone vedono cose che noi non vediamo e che è come se stessero sempre affacciati alla finestra di un mondo diverso.
(Rita Ciatti)