Se c’è un’esperienza che davvero ci accomuna tutti, animali umani e non, è quella della morte.
E della morte parliamo continuamente noi antispecisti. Ne parliamo per raccontare quanto sia ingiusto che miliardi di animali vengano uccisi solo per farne bistecche o indumenti di vestiario; ne parliamo indulgendo su particolari raccapriccianti per dimostrare quanto i mattatoi e altri luoghi di sfruttamento siano crudeli.
Parliamo della morte che tantissimi animali abbandonati o selvatici trovano sulle strade, spesso preceduta da ore di agonia.
Parliamo della morte che innumerevoli creature identificate solo da un numero (innumerevoli nel senso che è impossibile conoscerne persino il numero esatto) trovano per mano di vivisettori nei laboratori, o nelle reti dei pescatori o nei tir dove vengono condotti per arrivare alla destinazione ultima del mattatoio.
Insomma, più che l’esistenza, gli animali sembrano sperimentare una morte prematura e sempre cruenta.
Ma se di morte si parla moltissimo, si parla invero assai poco del lutto. Di quell’esperienza dolorosa e traumatica che si vive quando il nostro compagno animale ci lascia.
Soprattutto accade che raramente si riesca a esprimere fino in fondo tutta la gamma di sentimenti e stati d’animo provati – che vanno dalla rabbia, al senso di colpa, alla frustrazione, al dolore, fino alla depressione e stress post-traumatico – e questo perché nella nostra società il dolore per la perdita un animale non è equiparato a quello della perdita per un parente o persona cara umana e così viene sminuito, liquidato con una pacca sulle spalle e, immancabilmente, accompagnato dalla terrificante espressione: “era solo un animale”, o anche “muoiono ogni giorno migliaia di bambini, non puoi stare così male per un gatto (cane ecc.)”.
Nella migliore delle ipotesi, anche chi ci vuole bene e ci capisce, comprende cioè il nostro dolore, tenta di farcelo rimuovere dicendoci di non pensarci, di provare a uscire, a distrarci ecc..
Si finisce così per sentirsi in imbarazzo o addirittura ridicoli nell’esternare ciò che si prova veramente con il risultato che anziché esprimere i nostri sentimenti come sarebbe auspicabile fare, ci si chiude ancora più in sé stessi, bloccando o ritardando le normali fasi del superamento del lutto.
E sì, perché l’esperienza del lutto – io direi più il trauma del lutto – non è meno grave per il sol fatto che a morire sia stato il nostro cane anziché un nostro parente o amico umano.
Amore, affetto, assenza, sono sentimenti e condizioni che non si possono quantificare o delimitare entro confini ben precisi. Sono dirompenti, travolgenti, irrazionali, inspiegabili. Il vuoto lasciato da un esserino minuscolo quale potrebbe essere un cricetino può essere altrettanto ingombrante di quello lasciato da un familiare; anche perché gli animali che hanno vissuto con noi sono membri della famiglia a tutti gli effetti.
Il vuoto, l’assenza percepiti divengono spazi mentali che invadono ogni angolo della nostra mente.
Il baratro che ci si spalanca davanti nel momento in cui realizziamo l’assenza di colui che fino a qualche momento prima era un individuo vivo e poi è diventato nient’altro che materia in decomposizione, ci stravolge completamente; è un qualcosa difficile da razionalizzare e metabolizzare e finanche da spiegare. Anche perché si tratta di un dolore talmente personale, per quanto universale, che ognuno lo vive a modo suo e che perciò è impossibile da condividere. In più ha a che fare con l’ignoto, con l’inconoscibile per eccellenza che è la morte. Un evento che, per quanto si dica e ce la si racconti, rimane pur sempre inconsciamente inaccettabile.
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