Un raccontino.
Quel giorno Mark aveva osservato a lungo la ragazzina e pensò che, proprio come la madre, aveva quello sguardo assorto sulle cose che poteva essere facilmente scambiato per reticenza.
Avevano l’abitudine comune di starsene tutti pomeriggi nella parte meno frequentata del parco: la bimba perché si era invaghita di una vecchia altalena arrugginita ignorata dagli altri bambini; la madre perché cercava il silenzio per leggere; lui perché si era affezionato alla loro presenza discreta.
Mark era vedovo, figli non ne avevano avuti e ogni tanto fantasticava su come sarebbe stato se insieme alla ragazzina silenziosa adesso ci fossero stati anche i suoi.
A dire il vero quella non era l’unica fantasticheria cui si lasciava andare; pensava anche a come avrebbe potuto, prima o poi, rivolgere due parole alla donna, magari invitarla per un caffè o una birra al pub, senza risultare invadente.
Mark non si aspettava più molto dalla vita, nel senso di progetti o di attese di felicità a lunga durata; tutto quello che cercava erano brevi momenti di bellezza da cogliere al volo, tanto più preziosi quanto transitori e magari un’amicizia sincera che potesse alleviare un poco la sua solitudine. Si era fatto l’idea che anche la donna dovesse sentirsi molto sola, non parlava mai con la figlia se non per rivolgerle frasi che avessero un’utilità immediata e mai, mai una volta l’aveva vista in compagnia del marito o di qualche amica. Ma comunque ciò che immediatamente l’aveva attratto di lei era il suo aspetto fisico: nulla gli era mai sembrato tanto struggente e desiderabile quanto la fragilità di quel corpo che stava per cedere al tempo ed era rimasto come ossessionato da quelle linee attorno alla bocca che di lì a poco ne avrebbero offuscato la precisione e nitidezza.
Sentiva avidamente il bisogno, quasi una pulsione trattenibile a stento, di passare la lingua su quelle piccole crepe.
Anche attorno alla bocca della ragazzina un giorno sarebbero apparsi quei segni, poteva già scorgerne la trama sotterranea nella pelle.
Pensava a tutte queste cose seduto sulla panchina, dopo che bimba e madre se n’erano già andate da un po’, la prima facendogli ciao con la manina da poco distante, la seconda un impercettibile segno del capo, quando qualcosa di scuro nei pressi dell’altalena attirò la sua attenzione. Avvicinandosi di qualche passo scorse Ben, l’orsetto di peluche che la piccola si trascinava dietro ogni giorno e che ogni tanto spingeva sulla vcchia altalena cantandogli versi di una filastrocca triste. Strano che la ragazzina l’avesse dimenticato, forse era stata distratta dai suoi pensieri.
Come spinto da una decisione improvvisa lo prese in mano, gli diede una scrollata per ripulirlo dalla terra e lentamente si avviò verso la casa della donna e della bambina. Sembrava in trance.
Percorse a lunghi passi il viale alberato del parco per immettersi sulla strada, stringendo l’orsetto spasmodicamente tra le mani come se in esso fosse contenuta l’irripetibile possibilità di afferrare al volo un’occasione che altrimenti non si sarebbe forse mai più ripresentata e che era ben deciso a non lasciarsi scappare.
Non pensava a cosa avrebbe detto una volta che avesse bussato alla porta e si fosse trovato la donna davanti, si stava concentrando sulle emozioni dell’incontro in sé, sull’avverarsi concreto di questo contatto inedito.
L’intimità di quel momento, trovarsi di fronte a lei al di fuori del solito contesto, era ciò che contava. Il resto sarebbe venuto da sé.
La morbidezza dell’orsacchiotto sotto le dita cos’altro poteva essere, infine, se non la promessa che tutto sarebbe andato bene?
Continuava a stringerlo forte, come se avvertendone la consistenza reale sotto alle dita anche la vaghezza del suo piano e del suo desiderio potesse farsi concreta, prendere una forma meglio definita.
Quando fu praticamente di fronte alla casa fu assalito per la prima volta da un dubbio. E se ad aprirgli fosse venuto il marito?
Così decise di passare dal retro e di provare a dare uno sguardo all’interno dell’abitazione, stringendo l’orsetto ancora più forte come se solo dalla forza di quella presa fosse dipeso il buon esito dell’incontro.
Un incontro, solo questo cercava, un contatto, un incoraggiamento, la corrente di due sguardi che si riconoscono in cerca dello stessa spinta ad andare avanti, la bellezza del mondo che non è nelle cose definite e piene, ma nelle cose che stanno per morire. Pensava che lei avrebbe capito e poi e poi... chissà il resto sarebbe venuto da solo.
Tutto sembrava far da sfondo perfetto ai suoi pensieri, le ombre del crepuscolo, i fiori che nell’aria fresca della sera avevano piegato la corolla senza più difesa.
Un chiarore tenue proveniva dalla vetrata che doveva delimitare il soggiorno della casa e l’uomo, senza timore di essere visto, si avvicinò quasi spavaldamente.
Un refolo improvviso di vento si infiltrò tra i suoi abiti leggeri, Mark rabbrividì e le sue dita strinsero l’orsetto ancora più forte, come se avesse paura che potesse volare via.
Guardò dentro e vide che le due donne erano sole: la ragazzina si era addormentata sulla moquette, accanto a quaderni e libri sparsi su cui probabilmente si era esercitata fino a qualche momento prima.
La donna era sdraiata di fianco sul divano, semiavvolta da una coperta, lo sguardo rivolto verso quello che, dai bagliori che mandava, doveva essere un apparecchio televisivo. Chissà cosa stava guardando? La curiosità di infilarsi in quell’intimità gli fece raddoppiare la presa sull’orsetto. Il peluche morbido gli rimandò la consistenza della moquette su cui la bimba, stanca della giornata, era crollata; e la morbidezza del divano su cui stava la donna.
Il momento gli sembrò propizio, dovevano essere sicuramente sole, il marito certamente non c’era altrimenti, a quell’ora di sera, quando le famiglie si riuniscono per cenare, sarebbe stato insieme a loro.
Con pochi balzi si spostò sul fronte del villino, salì i due scalini della veranda e, continuando a stringere l’orsetto, suonò il campanello.
Dopo qualche secondo di silenzio, sentì provenire dall’interno un rumore di sedie spostate e di passi strascicati.
La porta si socchiuse leggermente mentre una voce flebile e stanca chiese “chi è”.
- Buonasera signora Jerkins, sono Mark Tompson, ci siamo incrociati qualche volta al parco. Sono venuto a riportarle una cosa, un giocattolo che penso possa appartenere a sua figlia.
Silenzio, la donna da dietro la porta non disse nulla; nell’angusto spiraglio che si era aperto Mark intravvide le sue pantofole blu.
Provò a dire qualche altra frase.
- Mi pare che sua figlia porti spesso con sé un orsetto di peluche. Prima di rientrare a casa l’ho notato ai piedi della vecchia altalena e ho pensato di farle cosa gradita nel venire a riportarglielo.
Ancora silenzio da parte della donna, ma intanto tolse il chiavistello e spalancò la porta.
- Sa, non vorrei disturbarla... - disse Mark trovandosela improvvisamente davanti illuminata dal chiarore della lanterna che si trovava proprio sopra alla porta e che la donna doveva aver acceso da dentro.
C’era luce in effetti, eppure le parve che i colori ambrati e caldi del crepuscolo si fossero improvvisamente spenti e che tutto fosse scuro e opaco. Una sensazione indecifrabile su cui però non ebbe il tempo di indugiare.
La donna allungò la mano come per afferrare l’orsetto che lui continuava a mantenere tra le dita, ma quasi inconsapevolmente adesso, come se improvvisamente se ne fosse dimenticato.
Lei sorrise, disse qualcosa come un “grazie”, dopodiché fece una cosa che Mark a quel punto non si aspettava più – lo invitò a entrare.
Lui entrò e appena dentro posò l’orsetto sul primo mobile che trovò.
Seguì la donna che gli fece strada nel soggiorno, la stessa stanza che lui aveva osservato poc’anzi da fuori.
C’era odore di chiuso, come se le finestre non fossero state aperte da diversi giorni e un chiarore tenue, appena diffuso dalle due lampade posizionate agli angoli della grande vetrata che dava sul giardino.
La bimba si svegliò e lui, sentendo di dover giustificare la sua presenza, improvvisamente si ricordò dell’orsetto che aveva posato all’ingresso.
Accettò il bicchierino di liquore che la donna volle offrirgli e rimase in piedi ad attenderla.
Quando lei tornò lo invitò a sedersi sul divano, dal quale trasse via imbarazzata la coperta lacera e un pochino sporca nella quale era avvolta poco prima, prima che Mark suonasse al campanello.
- La ringrazio davvero molto per averci riportato Ben, l’orsacchiotto, chissà se lo avremmo ritrovato domani – disse la donna per rompere il ghiaccio.
- Si figuri, di nulla – rispose Mark – mi spiace avervi disturbate, ma ho pensato che fosse una buona idea...
- nessun disturbo - fece lei e bevve un sorso dal suo bicchierino.
Mark, sentendosi rinfrancato dal calore del liquido ambrato che gli aveva pervaso lo stomaco si guardò attorno in cerca di uno spunto per qualcosa da dire, che so... si aspettava forse un dipinto o una foto di famiglia. La sua attenzione si posò invece su una piccola cornice appesa al muro di fronte che conteneva una medaglia d’oro. Non gli ci volle molto per riconoscerla, anche lui era stato militare tanti anni prima e sapeva bene cosa quell’oro significasse; quel sinistro luccichio, che era toccato anche a Paul Roth, con il quale erano cresciuti insieme, nella stessa piccola città, e che adesso gli riportava alla mente lo sguardo distrutto dei genitori di lui che aveva purtroppo dovuto incrociare durante la funzione per la quale aveva avuto 24 ore di permesso.
Improvvisamente si sentì come se il suo corpo lo stesse abbandonando, vuoto e al tempo stesso ingombrante, di troppo, inutile, sopraffatto da un senso di stanchezza e sconforto.
Trovò una scusa e se la sbrigò in fretta. Nell’uscire dette un’ultima occhiata all’orsetto che era rimasto sul mobile.
Corse via nella notte, sentendosi più solo che mai.
(Rita Ciatti)
(Rita Ciatti)
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