I
treni extraurbani della ferrovia Roma-Viterbo mi mettono sempre una gran
tristezza addosso. Sono gli stessi di quando da Civita Castellana andavo a
scuola a Viterbo, parliamo quindi di più di venticinque anni fa, almeno. Già
all’epoca apparivano vecchi, superati, frequentati perlopiù da studenti e
pendolari della provincia. Oggi, definirli fatiscenti è fargli un complimento.
Alcuni
vagoni sono completamenti arrugginiti all’interno, privi di servizi igienici,
sedili di plastica rigidi, riciclati dalla metropolitana di Roma di un bel po’
di anni fa; all’esterno completamente ricoperti di graffiti, persino sui vetri,
che quasi diventa impossibile riuscire a vedere qualcosa fuori.
Al
loro arrivo alla stazione di Piazzale Flaminio, quando li si vede spuntare dalla
galleria, quasi si stenta a credere che siano reali e che all’apertura delle
porte possano scenderne persone in carne ed ossa anziché fantasmi che viaggiano
da epoche passate.
Il
tragitto che percorrono sembra più un viaggio nel tempo che nello spazio,
talmente appare difficile che simili decrepite strutture possano soddisfare le
elementari leggi fisiche del moto. Eppur si muovono e ogni giorno trasportano
una massa eterogenea di persone, composta soprattutto da immigrati e pendolari
di breve tratto. O da persone come me, che continuano a prenderli per la
comodità della vicinanza della stazione e per abitudine. Fortunatamente non
tutti i giorni, diciamo in media una volta ogni due settimane.
Difficile
sperare di incrociare volti che per qualche ragione possano catturare
l’attenzione, in genere sono anonimi, spenti, privi di qualsiasi attrattiva.
Almeno per me.
Per
passare il tempo – un’ora e mezza all’andata e una e mezza al ritorno – mi
porto sempre un libro da leggere, a volte due, se quello che sto già leggendo è
prossimo alla fine. Raramente ascolto la musica, più che altro perché sono
disorganizzata e succede sempre che puntualmente, pronta per uscire di casa, mi
accorga di avere l’Ipod scarico. Dal cellulare no, non riesco a sentire la
musica perché ho un Nokia vecchissimo, buono giusto per chiamare, ricevere e
mandare qualche sms. Molto in linea con i treni della Roma-nord (fino a qualche
anno fa si chiamavano così e anticamente erano gestiti dalle Ferrovie dello
Stato, oggi invece l’amministrazione è dell’Atac).
Se
il libro che sto leggendo non è abbastanza di mio gusto mi metto a divagare
guardando fuori dai finestrini (quando non capitano quelli interamente
ricoperti dai graffiti). Il paesaggio è piuttosto monotono, ad eccezione della
sporadica vista di qualche gregge di pecore, o di cavalli sparsi.
Le
greggi, tanto più se in mezzo ci sono agnellini saltellanti, mi mettono sempre
di buon umore, almeno per un secondo o due, cioè fino a che non realizzo che di
lì a breve i piccoli verranno brutalmente strappati alle loro madri per essere
venduti un tanto al chilo. Piccole irripetibili vite che appena cominciavano a
sentire il mondo e già lo hanno visto svanire dietro una cortina di rosso
sangue.
Sarà
perché alle singolarità degli animali non umani faccio particolarmente caso che
invece – in controtendenza rispetto a chi vi vede solo mere risorse rinnovabili
riducibili all’astrattezza terminologica di un indistinto “animale”, quando va
bene, ma più spesso “carne” o “pesce” –
in mezzo all’anonimità di una folla sciatta e rumorosa, scorgo lui: un
signor gattone rosso di pelo e dallo sguardo mite che osserva curioso
l’andirivieni indistinto dei passeggeri da dentro un trasportino di metallo
color verde.
Attratta
dal luccichio dei suoi occhioni verde-giada, mi avvicino lesta schivando
furtiva la calca per carpirne la sua singolarità gattesca.
Lo
seguo facendomi spazio tra la ressa di persone che intanto, prossimo l’arrivo
del treno, si è stretta sulla riga gialla, che è vietato oltrepassare, in
prossimità dei binari.
Il
treno si ferma e tanto io, quanto il gatto ci scambiamo un breve cenno d’intesa
mentre aspettiamo che la gente scenda. Ci siamo riconosciuti immediatamente.
Continuo
a seguirlo nel mentre si arrampica sui ripidi scalini di metallo e mi sforzo di
non perderlo d’occhio tra la confusione di chi sta cercando un posto a sedere.
Mi
cerco in fretta un posto anche io, per paura di dover restare in piedi; mentre
mi siedo un signore alto e grosso mi si ferma accanto e rimane in piedi qualche
secondo, indeciso sul da farsi. Mi sembra di soffocare. Finalmente si sposta e,
con la visuale tornata libera, ricomincio a respirare a mio agio e mi accorgo
con sorpresa che il bel gattone rosso si è sistemato proprio sui sedili alla
mia destra.
Oh,
bene, penso, finalmente potremo conoscerci.
Cerco
di controllare la frenesia che sempre mi prende quando incrocio un animale non
umano, frenesia di poterlo osservare meglio, ammirare e rimirare, conoscere,
avvicinare (una meraviglia che mai diminuisce col passare degli anni, ma che
anzi sempre si rinnova ogni volta), ma non facciamo in tempo ad arrivare alla
prima fermata che già mi sento dire: “che bello, come si chiama?”.
Eh
sì, perché il bel gattone non viaggia da solo, ma in compagnia.
E
per quanto io sin dal primo istante non abbia avuto occhi e pensieri che per
lui, mi rendo conto che, secondo le norme delle convenzioni sociali, se si
vuole stringere amicizia con un animale domestico in compagnia del suo amico
umano, non si può proprio evitare di interloquire anche con quest’ultimo.
Così,
sebbene a malavoglia, sollevo un poco lo sguardo verso di lui e in pochi
secondi metto a fuoco le fattezze, alquanto singolari, di un signore sulla
cinquantina, magro magro allampanato, con due sopracciglioni di peli scomposti
che vanno ognuno per conto suo, il naso leggermente aquilino su una bocca dal
labbro inferiore grosso e pendulo. Gli abiti lisi, sformati, come le scarpe. Un
cappelletto unto e bisunto sulla testa a fermare un ciuffo di capelli che
scende disordinato sulla fronte.
Lo
sguardo dei semplici ad accompagnare una parlata scoordinata e limitata
nell’espressione, mi trasmette subito l’idea del naif, di una persona cui la
natura ha dimenticato di fornire tutto il necessario corredo per stare al
mondo.
Mi
basta un breve scambio per avere conferma della mia prima impressione.
Chiedo
informazioni sul gatto e così vengo a sapere che si chiama Billy e che insieme
ogni fine settimana viaggiano da Roma al paesello d’origine dei suoi genitori e
ritorno per andare a trovare una vecchia zia, sorella della madre ormai morta.
A
questo punto, soddisfatta la mia curiosità di aver conosciuto Billy e il
desiderio di donargli qualche carezzina e un grattino dietro alle orecchie,
sarei volentieri pronta a ritirarmi in disparte nell’angolino del sedile con la
speranza di trovare la privacy necessaria a leggere il libro che ho con me.
Mi
sarebbe piaciuto, sì.
Ma
evidentemente non era così che dovevano andare le cose.
Il
tipo, ingenuo sì, ma non così tanto da lasciarsi sfuggire la mia propensione a
comportarmi gentilmente verso ogni sconosciuto e a non riuscire a fare
diversamente – la disponibilità è quel sentimento che troppo spesso vien
scambiato con l’arrendevolezza e che non fa in tempo a manifestarsi attraverso
un fugace spiraglio che subito viene accalappiato nella morsa del tuttoèdovuto
– per farla breve, mi attacca un pippone sulla sua vita, morte e miracoli da
non finirla più.
Mi
scoccia. Non mi interessano le storie degli sconosciuti, non sono di quelle a
caccia di aneddoti da trasformare in racconti, non sono una cronista di vite
altrui e tutto quello che vorrei è solo lasciarmi scivolare nel sonno al ritmo
del rollìo del treno sui binari e delle parole sulla carta del libro che sto
leggendo che pian piano si incroceranno fino a poi svanire e confondersi con le
prime immagini ipnagogiche che mi verranno incontro al ritmo del ciuf-ciuf.
E
invece no, mi racconta di uno zio acquisito bisbetico che lo vessa con continue
angherie di natura economica e che gli fa meschinamente pesare persino il
numero di spaghetti che la moglie – l’amorevole zia, sorella della madre, cui
scappò la promessa di avere un occhio di riguardo per questo nipote un po’
scemotto – gli mette nel piatto quando si trattiene a pranzo da loro, fino al
punto di farlo sentire così in imbarazzo da fargli quasi decidere di non andare
più a trovare quegli unici parenti che gli sono rimasti al mondo.
È
che, mi dice lui, io vorrei scansarmi qualcosa da parte, eh, come vuole lui per
portarglielo a fine mese, ma con quello che guadagno alle poste, eh, manco mi
basta per me. Io abito all’Eur, lo sa, quelle case là davanti alla Fiera? Eh.
Lì sto. E so’ belle, eh, ma costano. Tutti i mesi io pago l’affitto. Eh. E poi
la luce. Eh. E poi il gas. Eh. E poi
c’ho, c’ho... tante cose da pagare io, ché la vita è cara e quando posso glielo
faccio qualche regalo. Eh. Ma sempre come vorrebbe lui, no, non ce la faccio
mica. C’hanno la terra loro, le cantine, le vigne, gli affitti. Stanno bene. E
mi vengono a dire a me se gli do i soldi dello stipendio? A me? Che non mi
bastano nemmeno per arrivare a fine mese?
Parla
così lui. Una frase breve e poi un “eh”
che è un misto di stizza e di darsi un tono, e poi qualche secondo di
pausa per cercare con gli occhi liquidi di tristezza la mia approvazione per
l’ingiustizia subita.
E
mi scusi signorina se le racconto queste cose, eh, io lo so che non sta bene
raccontare così i fatti propri agli sconosciuti. Eh. Mi scusi sa se mi sto
sfogando un po’. Eh.
Che
io lo so che mia zia mi vuole bene. Lo so che se fosse per lei. Eh. Se fosse
per lei non c’erano problemi se andavo a pranzo e pure a cena. Ma lui no, è
cattivo lui. Mi fa pesare pure l’aria che consumo in quella casa, che è di mi
‘zia poi, mica sua.
E
mi scusi signorina se le dico queste cose, lo so che non sta bene parlare
così dei propri parenti con gli sconosciuti, ma lui è tanto cattivo e io quasi
quasi sa che gli combino? Eh? Che non ci vado più. E mi spiace per quella mia
zia. Che la mi’ povera madre glie voleva tanto bene.
Billy
sonnecchia, tranquillo e sereno, mi dà l’idea di un gatto amato e accudito come
si deve perché per amare una creatura non è che serva di avere chissà quale
quoziente intellettivo, basta il cuore e la pazienza, e fra tutto ciò di cui la
natura era stata avara con questo signore, non mi parve che però ci fossero
anche queste due qualità, che anzi sembrava possedere in abbondanza.
Essì,
perché ci vuole pazienza a condurre una vita sempre uguale di uguale monotono
lavoro tutti i giorni alle poste interrotta solo dall’uguale monotonia di ogni
fine settimana in cui ci si reca malvoluti a casa di parenti di sentimenti un
po’ stitici.
E
ci vuole amore per raccogliere un cucciolo di micio inzuppato di pioggia in
un’alba autunnale avara di luce. E poi chiedere consigli a destra e manca, alla
collega carina gattara su cui nemmeno si è fatto in tempo confessare a sé
stessi un desiderio appena nato che è già stato soffocato, perché naif sì, ma
fino a un certo punto e lui sapeva bene di essere visibile alla collega, ma solo
e metà e solo finché restasse al suo posto, buono buono sotto l’etichetta del
“collega scemotto”.
Ci
siamo, comincio a intravedere dal finestrino le prime case che ci segnalano
l’arrivo a destinazione e insieme cominciamo a prepararci per scendere; ne approfitto
per fare ancora due coccole a Billy, che nel frattempo si è svegliato e sempre
con lo stesso sguardo curioso si guarda attorno per capire cosa sta succedendo.
Il
treno si ferma e scendiamo, in silenzio.
Poi
ci avviamo sulla banchina scambiando ancora due ultime parole, fino a che, fuori dalla stazione, rallentiamo un
po’ per salutarci.
Io
faccio per dare un saluto veloce, sbrigativo, “mi ha fatto piacere conoscerla,
tante buone cose, ciao piccolo Billy, ciao ciao piccolino”.
Ma
lui si ferma. Con gesto scrupoloso e
delicato poggia il trasportino di Billy a terra.
Si
inchina leggermente verso di me e con un sorriso sghembo traboccante di
gratitudine mi tende la mano e mi dice: “signorina, non mi sono neanche
presentato: mi chiamo Pietro. E mi scusi ancora se le ho raccontato tutte
quelle cose brutte dei miei parenti, ma sa, avevo proprio bisogno di sfogarmi”.
Non
si preoccupi – faccio io. È stato davvero un piacere.
E
mentre lo dico riesco a non sentirmi troppo ipocrita perché in quel preciso
momento mi rendo conto che ho avuto il privilegio raro di sfiorare la
solitudine di una persona e di averla, seppure involontariamente, affievolita
un poco.
Mi
sto incamminando eppure dopo pochi passi sento l’improvvisa urgenza di voltarmi
un attimo.
Scorgo,
ormai già leggermente sfocata e quasi persa nella nebbia invernale, una figura
avvolta nel suo pastrano, china su un trasportino con dentro un bellissimo
gatto rosso; occhi verde-giada che guardano dentro occhi liquidi di tristezza.
Non
più il tipo che mi scoccia nel raccontarmi le sue storie mentre avrei voluto
solo leggere, non più il nipote un po’ scemotto, non più il collega della posta
visibile solo dentro l’etichetta preordinata dalla mente che incasella e
rigidamente dispone, non più un volto anonimo tra i tanti che prende il treno
nei fine settimana per recarsi in un paesino di provincia: ma Pietro, il
signore col gatto rosso.
Lo
ricordo così, chino sul trasportino di Billy, due creature che il destino ha
voluto unire per tenersi compagnia. Fragili, due figure che il vento pareva
spazzar via da un momento all’altro, eppure, in quel loro starsene lì insieme,
carico di dignità, in qualche modo divenute iconiche.
7 commenti:
Davvero una bella scrittura, Rita, uno stile rapido, giusto, senza l'ombra di insopportabili leziosità, che sa scavare ma si fa leggere con piacere e velocità.
Mi è piaciuto questo tuo post. Azzeccata anche l'immagine.
Ciao
Guarda, non dirmi così ché divento alcolizzata perché l'ho scritto ieri sera dopo cena e dopo che avevo bevuto un bel po' di vino rosso (poi l'ho pubblicato senza nemmeno rileggerlo attentamente). :-D
Evidentemente l'alcool aiuta. ;-)
Sembra un luogo comune quello degli scrittori ubriaconi, ma invece, Bukowski docet :-D
Comunque ti ringrazio moltissimo Dinamo, un apprezzamento da parte tua, che so essere sincero e soprattuttto espresso con cognizione di causa, vale oro per me.
L'immmagine l'ho trovata in rete, se l'autore, che non so si chi sia altrimenti l'avrei indicato, si fa vivo spero non si offenda se l'ho usata.
Che bel racconto Rita, così tenero e malinconico. è vero, sospetto anche io che l'alcol aiuti la scrittura.... ma non diciamolo troppe volte! ;)
conosco le ferrovie - però che da roa vanno a viterbo, dove avevo anni fa una 'ragazza' (da noi si dice anche 'morosa'), mentre parli del viaggio, le rivedo coi ricordi. mi viene - mi è sempre venuto - da immedesimarmi in Pietro, forse perché sono inconsciamene cosciente di somigliargli sempre più. e naturalmente anche io vivo la tua stessa frenesia ogni volta che incontro una singolarità altranimale, che subito voglio conoscere - guardando a malapena l'umano che è con lee!
Grazie mille Giovanni, sono contenta che ti sia piaciuto e che anche tu ti sia immedesimato, almeno a livello emotivo, con Pietro.
Che bel racconto Rita :-)
Nei miei viaggi in treno talvolta mi capita di scambiare due parole con qualcuno, e anche, spesso, di soffermarmi a osservare i visi dei passeggeri vicino a me, e di rendermi conto di come tutti noi sconosciuti siamo una storia, misteriosa, dietro al nostro volto. Una storia che ci portiamo sempre dietro, invisibile, e che solo pochi conoscono.
Esatto Martigot, è proprio così.
Grazie per avermi letta, un abbraccio e un bacione agli animaletti.
Sì, Rita, l'alcol è un acceleratore di pensiero (ma lo sarà anche di scrittura? - non saprei rispondere. So solo che se non sono sereno o contentello non riesco a scrivere nemmeno un commento su internet... ognuno diciamo che ha il suo alimento...).
Ps: sugli artisti mi viene da dire che tantissimi luoghi comuni sono spaventosamente veri. Mah. Chissà perché.
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