giovedì 23 gennaio 2014

Il signore col gatto rosso


I treni extraurbani della ferrovia Roma-Viterbo mi mettono sempre una gran tristezza addosso. Sono gli stessi di quando da Civita Castellana andavo a scuola a Viterbo, parliamo quindi di più di venticinque anni fa, almeno. Già all’epoca apparivano vecchi, superati, frequentati perlopiù da studenti e pendolari della provincia. Oggi, definirli fatiscenti è fargli un complimento.
Alcuni vagoni sono completamenti arrugginiti all’interno, privi di servizi igienici, sedili di plastica rigidi, riciclati dalla metropolitana di Roma di un bel po’ di anni fa; all’esterno completamente ricoperti di graffiti, persino sui vetri, che quasi diventa impossibile riuscire a vedere qualcosa fuori.
Al loro arrivo alla stazione di Piazzale Flaminio, quando li si vede spuntare dalla galleria, quasi si stenta a credere che siano reali e che all’apertura delle porte possano scenderne persone in carne ed ossa anziché fantasmi che viaggiano da epoche passate.
Il tragitto che percorrono sembra più un viaggio nel tempo che nello spazio, talmente appare difficile che simili decrepite strutture possano soddisfare le elementari leggi fisiche del moto. Eppur si muovono e ogni giorno trasportano una massa eterogenea di persone, composta soprattutto da immigrati e pendolari di breve tratto. O da persone come me, che continuano a prenderli per la comodità della vicinanza della stazione e per abitudine. Fortunatamente non tutti i giorni, diciamo in media una volta ogni due settimane.
Difficile sperare di incrociare volti che per qualche ragione possano catturare l’attenzione, in genere sono anonimi, spenti, privi di qualsiasi attrattiva. Almeno per me.
Per passare il tempo – un’ora e mezza all’andata e una e mezza al ritorno – mi porto sempre un libro da leggere, a volte due, se quello che sto già leggendo è prossimo alla fine. Raramente ascolto la musica, più che altro perché sono disorganizzata e succede sempre che puntualmente, pronta per uscire di casa, mi accorga di avere l’Ipod scarico. Dal cellulare no, non riesco a sentire la musica perché ho un Nokia vecchissimo, buono giusto per chiamare, ricevere e mandare qualche sms. Molto in linea con i treni della Roma-nord (fino a qualche anno fa si chiamavano così e anticamente erano gestiti dalle Ferrovie dello Stato, oggi invece l’amministrazione è dell’Atac).
Se il libro che sto leggendo non è abbastanza di mio gusto mi metto a divagare guardando fuori dai finestrini (quando non capitano quelli interamente ricoperti dai graffiti). Il paesaggio è piuttosto monotono, ad eccezione della sporadica vista di qualche gregge di pecore, o di cavalli sparsi.
Le greggi, tanto più se in mezzo ci sono agnellini saltellanti, mi mettono sempre di buon umore, almeno per un secondo o due, cioè fino a che non realizzo che di lì a breve i piccoli verranno brutalmente strappati alle loro madri per essere venduti un tanto al chilo. Piccole irripetibili vite che appena cominciavano a sentire il mondo e già lo hanno visto svanire dietro una cortina di rosso sangue.
Sarà perché alle singolarità degli animali non umani faccio particolarmente caso che invece – in controtendenza rispetto a chi vi vede solo mere risorse rinnovabili riducibili all’astrattezza terminologica di un indistinto “animale”, quando va bene, ma più spesso “carne” o “pesce” –  in mezzo all’anonimità di una folla sciatta e rumorosa, scorgo lui: un signor gattone rosso di pelo e dallo sguardo mite che osserva curioso l’andirivieni indistinto dei passeggeri da dentro un trasportino di metallo color verde.
Attratta dal luccichio dei suoi occhioni verde-giada, mi avvicino lesta schivando furtiva la calca per carpirne la sua singolarità gattesca.
Lo seguo facendomi spazio tra la ressa di persone che intanto, prossimo l’arrivo del treno, si è stretta sulla riga gialla, che è vietato oltrepassare, in prossimità dei binari.
Il treno si ferma e tanto io, quanto il gatto ci scambiamo un breve cenno d’intesa mentre aspettiamo che la gente scenda. Ci siamo riconosciuti immediatamente.
Continuo a seguirlo nel mentre si arrampica sui ripidi scalini di metallo e mi sforzo di non perderlo d’occhio tra la confusione di chi sta cercando un posto a sedere.
Mi cerco in fretta un posto anche io, per paura di dover restare in piedi; mentre mi siedo un signore alto e grosso mi si ferma accanto e rimane in piedi qualche secondo, indeciso sul da farsi. Mi sembra di soffocare. Finalmente si sposta e, con la visuale tornata libera, ricomincio a respirare a mio agio e mi accorgo con sorpresa che il bel gattone rosso si è sistemato proprio sui sedili alla mia destra.
Oh, bene, penso, finalmente potremo conoscerci.
Cerco di controllare la frenesia che sempre mi prende quando incrocio un animale non umano, frenesia di poterlo osservare meglio, ammirare e rimirare, conoscere, avvicinare (una meraviglia che mai diminuisce col passare degli anni, ma che anzi sempre si rinnova ogni volta), ma non facciamo in tempo ad arrivare alla prima fermata che già mi sento dire: “che bello, come si chiama?”.
Eh sì, perché il bel gattone non viaggia da solo, ma in compagnia.
E per quanto io sin dal primo istante non abbia avuto occhi e pensieri che per lui, mi rendo conto che, secondo le norme delle convenzioni sociali, se si vuole stringere amicizia con un animale domestico in compagnia del suo amico umano, non si può proprio evitare di interloquire anche con quest’ultimo.
Così, sebbene a malavoglia, sollevo un poco lo sguardo verso di lui e in pochi secondi metto a fuoco le fattezze, alquanto singolari, di un signore sulla cinquantina, magro magro allampanato, con due sopracciglioni di peli scomposti che vanno ognuno per conto suo, il naso leggermente aquilino su una bocca dal labbro inferiore grosso e pendulo. Gli abiti lisi, sformati, come le scarpe. Un cappelletto unto e bisunto sulla testa a fermare un ciuffo di capelli che scende disordinato sulla fronte.
Lo sguardo dei semplici ad accompagnare una parlata scoordinata e limitata nell’espressione, mi trasmette subito l’idea del naif, di una persona cui la natura ha dimenticato di fornire tutto il necessario corredo per stare al mondo.
Mi basta un breve scambio per avere conferma della mia prima impressione.
Chiedo informazioni sul gatto e così vengo a sapere che si chiama Billy e che insieme ogni fine settimana viaggiano da Roma al paesello d’origine dei suoi genitori e ritorno per andare a trovare una vecchia zia, sorella della madre ormai morta.
A questo punto, soddisfatta la mia curiosità di aver conosciuto Billy e il desiderio di donargli qualche carezzina e un grattino dietro alle orecchie, sarei volentieri pronta a ritirarmi in disparte nell’angolino del sedile con la speranza di trovare la privacy necessaria a leggere il libro che ho con me.
Mi sarebbe piaciuto, sì.
Ma evidentemente non era così che dovevano andare le cose.
Il tipo, ingenuo sì, ma non così tanto da lasciarsi sfuggire la mia propensione a comportarmi gentilmente verso ogni sconosciuto e a non riuscire a fare diversamente – la disponibilità è quel sentimento che troppo spesso vien scambiato con l’arrendevolezza e che non fa in tempo a manifestarsi attraverso un fugace spiraglio che subito viene accalappiato nella morsa del tuttoèdovuto – per farla breve, mi attacca un pippone sulla sua vita, morte e miracoli da non finirla più.
Mi scoccia. Non mi interessano le storie degli sconosciuti, non sono di quelle a caccia di aneddoti da trasformare in racconti, non sono una cronista di vite altrui e tutto quello che vorrei è solo lasciarmi scivolare nel sonno al ritmo del rollìo del treno sui binari e delle parole sulla carta del libro che sto leggendo che pian piano si incroceranno fino a poi svanire e confondersi con le prime immagini ipnagogiche che mi verranno incontro al ritmo del ciuf-ciuf.
E invece no, mi racconta di uno zio acquisito bisbetico che lo vessa con continue angherie di natura economica e che gli fa meschinamente pesare persino il numero di spaghetti che la moglie – l’amorevole zia, sorella della madre, cui scappò la promessa di avere un occhio di riguardo per questo nipote un po’ scemotto – gli mette nel piatto quando si trattiene a pranzo da loro, fino al punto di farlo sentire così in imbarazzo da fargli quasi decidere di non andare più a trovare quegli unici parenti che gli sono rimasti al mondo.
È che, mi dice lui, io vorrei scansarmi qualcosa da parte, eh, come vuole lui per portarglielo a fine mese, ma con quello che guadagno alle poste, eh, manco mi basta per me. Io abito all’Eur, lo sa, quelle case là davanti alla Fiera? Eh. Lì sto. E so’ belle, eh, ma costano. Tutti i mesi io pago l’affitto. Eh. E poi la luce. Eh.  E poi il gas. Eh. E poi c’ho, c’ho... tante cose da pagare io, ché la vita è cara e quando posso glielo faccio qualche regalo. Eh. Ma sempre come vorrebbe lui, no, non ce la faccio mica. C’hanno la terra loro, le cantine, le vigne, gli affitti. Stanno bene. E mi vengono a dire a me se gli do i soldi dello stipendio? A me? Che non mi bastano nemmeno per arrivare a fine mese?
Parla così lui. Una frase breve e poi un “eh”  che è un misto di stizza e di darsi un tono, e poi qualche secondo di pausa per cercare con gli occhi liquidi di tristezza la mia approvazione per l’ingiustizia subita.
E mi scusi signorina se le racconto queste cose, eh, io lo so che non sta bene raccontare così i fatti propri agli sconosciuti. Eh. Mi scusi sa se mi sto sfogando un po’. Eh.
Che io lo so che mia zia mi vuole bene. Lo so che se fosse per lei. Eh. Se fosse per lei non c’erano problemi se andavo a pranzo e pure a cena. Ma lui no, è cattivo lui. Mi fa pesare pure l’aria che consumo in quella casa, che è di mi ‘zia poi, mica sua.
E mi scusi signorina se le dico queste cose, lo so che non sta bene parlare così dei propri parenti con gli sconosciuti, ma lui è tanto cattivo e io quasi quasi sa che gli combino? Eh? Che non ci vado più. E mi spiace per quella mia zia. Che la mi’ povera madre glie voleva tanto bene.

Billy sonnecchia, tranquillo e sereno, mi dà l’idea di un gatto amato e accudito come si deve perché per amare una creatura non è che serva di avere chissà quale quoziente intellettivo, basta il cuore e la pazienza, e fra tutto ciò di cui la natura era stata avara con questo signore, non mi parve che però ci fossero anche queste due qualità, che anzi sembrava possedere in abbondanza.
Essì, perché ci vuole pazienza a condurre una vita sempre uguale di uguale monotono lavoro tutti i giorni alle poste interrotta solo dall’uguale monotonia di ogni fine settimana in cui ci si reca malvoluti a casa di parenti di sentimenti un po’ stitici.
E ci vuole amore per raccogliere un cucciolo di micio inzuppato di pioggia in un’alba autunnale avara di luce. E poi chiedere consigli a destra e manca, alla collega carina gattara su cui nemmeno si è fatto in tempo confessare a sé stessi un desiderio appena nato che è già stato soffocato, perché naif sì, ma fino a un certo punto e lui sapeva bene di essere visibile alla collega, ma solo e metà e solo finché restasse al suo posto, buono buono sotto l’etichetta del “collega scemotto”.
Ci siamo, comincio a intravedere dal finestrino le prime case che ci segnalano l’arrivo a destinazione e insieme cominciamo a prepararci per scendere; ne approfitto per fare ancora due coccole a Billy, che nel frattempo si è svegliato e sempre con lo stesso sguardo curioso si guarda attorno per capire cosa sta succedendo.
Il treno si ferma e scendiamo, in silenzio.
Poi ci avviamo sulla banchina scambiando ancora due ultime parole, fino a che, fuori dalla stazione, rallentiamo un po’ per salutarci.
Io faccio per dare un saluto veloce, sbrigativo, “mi ha fatto piacere conoscerla, tante buone cose, ciao piccolo Billy, ciao ciao piccolino”.
Ma lui  si ferma. Con gesto scrupoloso e delicato poggia il trasportino di Billy a terra.
Si inchina leggermente verso di me e con un sorriso sghembo traboccante di gratitudine mi tende la mano e mi dice: “signorina, non mi sono neanche presentato: mi chiamo Pietro. E mi scusi ancora se le ho raccontato tutte quelle cose brutte dei miei parenti, ma sa, avevo proprio bisogno di sfogarmi”.
Non si preoccupi – faccio io. È stato davvero un piacere.
E mentre lo dico riesco a non sentirmi troppo ipocrita perché in quel preciso momento mi rendo conto che ho avuto il privilegio raro di sfiorare la solitudine di una persona e di averla, seppure involontariamente, affievolita un poco.
Mi sto incamminando eppure dopo pochi passi sento l’improvvisa urgenza di voltarmi un attimo.
Scorgo, ormai già leggermente sfocata e quasi persa nella nebbia invernale, una figura avvolta nel suo pastrano, china su un trasportino con dentro un bellissimo gatto rosso; occhi verde-giada che guardano dentro occhi liquidi di tristezza.
Non più il tipo che mi scoccia nel raccontarmi le sue storie mentre avrei voluto solo leggere, non più il nipote un po’ scemotto, non più il collega della posta visibile solo dentro l’etichetta preordinata dalla mente che incasella e rigidamente dispone, non più un volto anonimo tra i tanti che prende il treno nei fine settimana per recarsi in un paesino di provincia: ma Pietro, il signore col gatto rosso.

Lo ricordo così, chino sul trasportino di Billy, due creature che il destino ha voluto unire per tenersi compagnia. Fragili, due figure che il vento pareva spazzar via da un momento all’altro, eppure, in quel loro starsene lì insieme, carico di dignità, in qualche modo divenute iconiche. 

7 commenti:

Dinamo Seligneri ha detto...

Davvero una bella scrittura, Rita, uno stile rapido, giusto, senza l'ombra di insopportabili leziosità, che sa scavare ma si fa leggere con piacere e velocità.
Mi è piaciuto questo tuo post. Azzeccata anche l'immagine.
Ciao

Rita ha detto...

Guarda, non dirmi così ché divento alcolizzata perché l'ho scritto ieri sera dopo cena e dopo che avevo bevuto un bel po' di vino rosso (poi l'ho pubblicato senza nemmeno rileggerlo attentamente). :-D

Evidentemente l'alcool aiuta. ;-)

Sembra un luogo comune quello degli scrittori ubriaconi, ma invece, Bukowski docet :-D

Comunque ti ringrazio moltissimo Dinamo, un apprezzamento da parte tua, che so essere sincero e soprattuttto espresso con cognizione di causa, vale oro per me.
L'immmagine l'ho trovata in rete, se l'autore, che non so si chi sia altrimenti l'avrei indicato, si fa vivo spero non si offenda se l'ho usata.

Giovanni ha detto...

Che bel racconto Rita, così tenero e malinconico. è vero, sospetto anche io che l'alcol aiuti la scrittura.... ma non diciamolo troppe volte! ;)
conosco le ferrovie - però che da roa vanno a viterbo, dove avevo anni fa una 'ragazza' (da noi si dice anche 'morosa'), mentre parli del viaggio, le rivedo coi ricordi. mi viene - mi è sempre venuto - da immedesimarmi in Pietro, forse perché sono inconsciamene cosciente di somigliargli sempre più. e naturalmente anche io vivo la tua stessa frenesia ogni volta che incontro una singolarità altranimale, che subito voglio conoscere - guardando a malapena l'umano che è con lee!

Rita ha detto...

Grazie mille Giovanni, sono contenta che ti sia piaciuto e che anche tu ti sia immedesimato, almeno a livello emotivo, con Pietro.

Martigot ha detto...

Che bel racconto Rita :-)

Nei miei viaggi in treno talvolta mi capita di scambiare due parole con qualcuno, e anche, spesso, di soffermarmi a osservare i visi dei passeggeri vicino a me, e di rendermi conto di come tutti noi sconosciuti siamo una storia, misteriosa, dietro al nostro volto. Una storia che ci portiamo sempre dietro, invisibile, e che solo pochi conoscono.

Rita ha detto...

Esatto Martigot, è proprio così.

Grazie per avermi letta, un abbraccio e un bacione agli animaletti.

Dinamo Seligneri ha detto...

Sì, Rita, l'alcol è un acceleratore di pensiero (ma lo sarà anche di scrittura? - non saprei rispondere. So solo che se non sono sereno o contentello non riesco a scrivere nemmeno un commento su internet... ognuno diciamo che ha il suo alimento...).
Ps: sugli artisti mi viene da dire che tantissimi luoghi comuni sono spaventosamente veri. Mah. Chissà perché.