(foto di Giorgio Cara: Blake)
Si chiama Blake, è un bellissimo gattone tigrato a pelo lungo che ho trovato abbandonato il giorno di ferragosto di otto anni e mezzo fa. Fu un colpo di fulmine: non appena incrociammo i nostri sguardi, ci innamorammo.
Dalla scorsa estate Blake si è ammalato, soffre di una grave patologia congenita al cuore e mi hanno detto che non riuscirà a invecchiare, che... insomma, sì, la sua vita sarà breve.
Di recente è stato necessario ricoverarlo in una clinica per animali e al dolore e alla preoccupazione di saperlo malato, si è immediatamemte aggiunto lo strazio di doverlo lasciare lì, lontano dai suoi luoghi e spazi conosciuti e sereni, lontano dagli individui – umani e non – con cui si relaziona e ama, lontano dalle sue abitudini e sicurezze di vita.
Ma non solo: oltre alla visione del suo corpicino martoriato da aghi, cannule e quant’altro era necessario per somministrargli le cure, quel che mi ha profondamente colpita è stata la tristezza del suo sguardo, l’espressione insieme spaventata e rassegnata di dover restare lì, in quel luogo asettico che odora di medicinali e di disinfettanti.
Poi, guardandomi attorno, mi sono accorta che il suo sguardo non costituiva affatto un’eccezione, ma assomigliava a quello di tutti gli altri, i piccoli pazienti ricoverati insieme a lui.
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