Un
ragazzo conduce un’esistenza tranquilla e abitudinaria all’interno di un bagno.
Tutto ciò di cui ha bisogno si trova tra le pareti di questa stanza piuttosto
angusta. Ogni mattina il suono della sveglia lo riconduce a un eterno presente
sempre uguale a sé stesso, scandito da gesti e lavori consuetudinari che
mantengono l’ordine di quel microcosmo. Il lieve accenno di sgomento al
risveglio – appena un’increspatura a turbare la quiete, come un sintomo che non
appena si manifesti già scompare – si dissolve nell’esecuzione rasserenante del
proprio dovere.
Ma
un giorno accade qualcosa che ha dell’incredibile: dalle profondità dello
scarico del lavandino si diffonde una voce che coinvolge il ragazzo in uno
strano dialogo sulla natura delle cose e lo invita a lasciare la stanza per
mettersi alla ricerca della conoscenza.
Il
ragazzo appare inizialmente infastidito, poi incuriosito, infine, anche se
pieno di timori e dubbi, si decide ad uscire.
Scoprirà
così la realtà del mondo al di fuori della stanza.
La
Fatiscenza, secondo mediometraggio del giovane Mauro Cappiello - già autore del
precedente “L’oscuro cammino dell’inconscio” in cui la suggestione di atmosfere
decisamente lynchiane è al servizio di riflessioni metafisiche e anticipa
quelli che saranno gli stilemi e le tematiche più rappresentative dei suoi
lavori futuri, come ad esempio nel lungometraggio Tatami, autoprodotto con
un’etichetta chiamata Charyòt Film – riesce a catturare l’attenzione dello
spettatore sin dai primissimi secondi in piano-sequenza per poi mantenere un
continuo stato di tensione fino all’apertura, in ogni senso, della scena
finale.
L’ambientazione
claustrofobica iniziale nella stanza da bagno riflette la condizione
esistenziale del protagonista che vive in catene inconsapevole di esserlo: sei
uno schiavo, gli dice la voce che esce dallo scarico del lavandino, tutto ciò
che ti circonda è la tua patetica prigione. Molteplici sono i riferimenti che è
possibile cogliere in quest’opera, solo apparentemente surreale, in realtà
direi paradigmatica della condizione umana: dal mito della caverna di Platone
(evidente laddove il ragazzo ammette di scorgere talvolta strani luccichii al
di là della porta, attraverso il buco della serratura), ai tanti rimandi
cinefili, uno su tutti la scoperta della vera realtà in Matrix dopo che
l’assunzione della pillola rossa ha permesso lo strappo del Velo di Maya, ma
anche il crollo del mondo di cartapesta in The Truman Show.
Se
le due opere succitate portano avanti un discorso più specificamente
metafisico, quasi mistico, direi – si svela l’inganno per accedere alla vera
realtà – ne La Fatiscenza invece riescono a fondersi diversi piani di lettura:
si passa dall’elemento intimista a quello più propriamente filosofico,
dall’esistenziale al metafisico e persino al sociale (innegabilmente la
squallida routine lavorativa del ragazzo all’interno del bagno riecheggia
l’automatismo delle tante esistenze condotte al solo fine di vivere per
lavorare e non viceversa).
Qui
comunque la cifra del vero vivere sembra mancare non tanto – non solo! – per la
mancanza di consapevolezza del protagonista di trovarsi in una sorta di
prigione, quanto per la paura stessa di abbandonare quello che sembra essere un
luogo sicuro. Così che la vera gabbia risulta essere alla fine l’imposizione
delle proprie paure, la presunta impossibilità del superarle. Paura del vivere
che è nell’esser coscienti della propria decadenza fisica (eccola la vera
fatiscenza!). Se vivere è riconoscimento del morire un po’ ogni giorno, allora
il rifiuto della vita è il rifiuto della morte, un rifiuto che però
paradossalmente conduce alla morte-in-vita, alla schiavitù di un’esistenza
ingabbiata nelle proprie paure e quindi a una morte assolutamente precoce. Solo
liberandosi della paura di morire, si impara davvero a vivere.
L’apertura
della porta del bagno e il procedere alla scoperta di ciò che si trova al di
fuori non sarà allora tanto la conquista della conoscenza ultima o la
rivelazione di chissà quale verità – del resto il ragazzo lo dichiara
esplicitamente alla voce, a lui non interessa dare un senso alla propria
esistenza, non gli interessano quelle cose – quanto l’acquisizione di un
desiderio fino a quel momento sopito: vivere senza più timore di morire, senza
più l’angoscia opprimente della propria finitudine e corruttibilità
fisica, ossia aprirsi alla qualità
epifenomenica del presente.
La
Fatiscenza non è quindi un’opera che ha pretese teleologiche, ma al contrario
indica una via nel presente per aprirsi al manifestarsi della realtà dopo aver
reciso le sbarre di quella prigione che è la decadenza fisica. Solo smettendo
di preoccuparsi per la propria incolumità, ci si apre all’esperienza del
sublime.
Le
bellissime note di Takemitsu (composte originariamente per La donna di sabbia)
sostengono i vari momenti del film, conferendogli una particolare eleganza e
atmosfere noir impreziosiscono gli elementi surreali di fondo, il tutto
confermando la padronanza registica di Mauro Cappiello, del resto già
annunciata nel suo primo lavoro: un autore che, da cinefila quale sono,
suggerisco senz’altro di tenere sott’occhio e magari di cominciare a conoscere
proprio a partire da questo piccolo gioiello che è La Fatiscenza.
Note tecniche
Regia: Mauro Cappiello
Soggetto: Mauro Cappiello
Sceneggiatura: Mauro Cappiello e Fabio Divietri
Operatore di ripresa: Antonio Iurino
Interpreti: Mauro Cappiello e Fabio Divietri
Note tecniche
Regia: Mauro Cappiello
Soggetto: Mauro Cappiello
Sceneggiatura: Mauro Cappiello e Fabio Divietri
Operatore di ripresa: Antonio Iurino
Interpreti: Mauro Cappiello e Fabio Divietri
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