L’altro
giorno ho letto che Aldo Busi ha tradotto il Decameron.
Tradotto,
esattamente, dall’italiano all’italiano; o meglio, dall’italiano trecentesco, a
quello attuale.
Beh,
io ne sono felice e non vedo l’ora di ri-leggerlo.
Intervistato
a proposito dell’opportunità o meno di riportare in un italiano più attuale i
classici della letteratura, ha detto alcune cose che fanno molto riflettere (ne
riporto più o meno il senso, non ho l’intervista sotto mano): i lettori coevi a
Boccaccio ridevano a crepapelle quando leggevano le novelle contenute nel
Decameron; non era un testo aulico, era un testo che ebbe una diffusione enorme
tra il popolo, tanto che molte novelle furono rimaneggiate ed entrarono
nell’immaginario popolare in diverse versioni; i lettori di oggi, posti di fronte al testo trecentesco, si annoiano, faticano,
arrancano, non riescono a seguire la sintassi, non conoscono il significato di
buona parte delle parole. Tanto che ormai è uno di questi testi che si studia
solo all’università o che al massimo leggono gli appassionati, studiosi e
ricercatori di letteratura.
È un vero peccato che opere così immense non siano lette invece anche da chi
legge solo per svago o per ingannare il tempo sull’autobus. Costoro potrebbero
ricavarne un gran diletto e invece, per via della difficoltà del testo,
rinunciano in partenza. E come dargli torto?
Io
sono anni che mi riprometto di rileggere La Divina Commedia, ma dopo poche
pagine, a forza di seguire le note, mi viene un gran mal di testa. L’ho
studiata a suo tempo, così come il Decameron, per carità, si tratta di opere
immense, ma che certamente non si leggono per svago, anzi, richiedono impegno e pazienza. Capisco la necessità di impegnarsi un minimo, ma se questo dovesse scoraggiare l'eventuale lettore, al punto da farlo demordere, chi ne perde è l'opera stessa, che non sarà mai letta.
Un
buon romanzo - o novelle che siano - non deve annoiare. Mai. E Il Decameron, così come fu scritto
all’epoca, annoia. Fidatevi.
Busi
ha ragione. Non si tratta di essere ignoranti o meno, la lingua del Decameron
oggi non è più parlata, di conseguenza ha bisogno di una traduzione.
Certamente
l’opera di Boccaccio è un testo complesso che ha un suo valore proprio anche
solo a livello formale, presenta sfumature e precisi registri linguistici
scelti intenzionalmente a seconda del personaggio che si esprime. Se
protagonista è un popolano, parla come tale e usa determinate espressioni
popolari, se è un nobile anche il linguaggio si adegua e così via.
Sono
consapevole, così come certamente lo è stato Busi, che una buona traduzione
deve essere in grado di restituire tutti i registri linguistici, senza perdere
la varietà lessicale, di stile, di sintassi ecc. delle novelle.
Ma
questo più o meno è il compito di ogni traduttore.
In
pratica non vedo perché debba essere considerato scandoloso tradurre
dall’italiano all’italiano, quando riteniamo invece utile tradurre da una
lingua straniera alla nostra.
Le
lingue si evolvono, altrimenti oggi parleremmo ancora in volgare e scriveremmo
in latino. Così come non riusciremmo a interpretare un testo latino (a meno che
non abbiamo studiato latino) e quindi leggiamo gli autori classici in
traduzione – e lo stesso per quegli autori stranieri come Shakespeare, Chaucer
ecc. – non vedo cosa ci sia di male nel leggere una trasposizione più moderna
del Decameron o anche della Divina Commedia.
Vero
che ci sono le note sotto, ma andiamo, le note rendono la lettura faticosa,
fanno perdere il ritmo (senza contare che sono scritte sempre in caratteri
minuscoli, difficili proprio da decifrare, almeno per chi, come me, comincia ad
accusare qualche problemino alla vista).
I
puristi della lingua italiana (e io mi considero, guarda un po’, abbastanza una
purista) storcono il naso perché dicono che ogni traduzione è un tradimento.
Certo, lo sappiamo, questa diatriba tra traduzione sì e traduzione no è
vecchissima e sono abbastanza d’accordo nel leggere, quando possibile, i testi
in lingua originale, ma sfido qualsivoglia conoscitore della lingua inglese a
leggere Shakespeare in originale senza dover ricorrere alle note.
Voglio
dire, pur conoscendo approfonditamente una lingua – e noi lettori italiani
dovremmo almeno conoscere la nostra – è sempre quella attuale che si usa, parla
e legge, non quella del passato.
E,
tra un lettore annoiato e appesantito dal Decameron in originale che lo mette
via dopo tre pagine e un lettore che lo legge tradotto, ma appassionandosi
pagina dopo pagina, ridendo e gustandone ogni tratto, sicuramente penso che
Boccaccio stesso preferirebbe il secondo.
Meglio
leggerla un’opera, anche se tradotta, piuttosto che non leggerla per niente.
Lo
stesso Busi ad esempio riconosce che anche il suo romanzo d’esordio, Seminario
sulla Gioventù, pubblicato nel 1984, necessiterebbe di una revisione perché
oggi parliamo una lingua ancora diverse; certe espressioni e termini in voga
negli anni ottanta, oggi sono ormai dimenticati, desueti e sicuramente tolgono
freschezza al testo.
Credo
che un buon traduttore dovrebbe fare dei distinguo tra termini obsoleti perché
indicanti oggetti, fenomeni, condizioni, mode o comportamenti ecc. che proprio
non esistono più (penso a mangianastri, giradischi ecc.), i quali ovviamente
devono essere necessariamente lasciati invariati in quanto testimoni del
passato, e quelli che invece si riferiscono a oggetti o fenomeni ancora attuali
che però oggi vengono denominati in un altro modo; in questo secondo caso, è
bene cambiarli, rinnovarli, riportando quelli attuali.
Ciò
che importa è non tradire lo spirito e il senso profondo di un’opera.
Tornando
al Decameron, lo spirito era goliardico ed è bene che riesca a far ridere
ancora oggi; in quanto al fine, la raccolta di novelle aveva un valore
certamente apotropaico e al contempo mirava a rifondare una società
cavalleresca, in opposizione a quella mercantile che Boccaccio vedeva come
fonte di ogni male (ricordiamo che la peste pare che si diffuse proprio
attraverso una nave mercantile che sbarcò a Genova e che portò con sé topi che
diffusero il contagio attraverso le pulci). Il commercio quindi è associato
alla peste, la cui corruzione delle carni metaforicamente rappresenta la
corruzione del genere umano nella società dei mercanti.
Diciamo
che oggi il senso potrebbe essere quello di tentare di rifondare una società
basata sui valori della solidarietà e dell’empatia, di contro a quella attuale
che vede nel capitalismo, nel consumismo, nella logica della sopraffazione e
del dominio i suoi fondamenti.
Un’opera
si può definire classica quando rimane attualissima nonostante parli di
fenomeni legati a un’altra epoca, ossia quando è facile ravvisare analogie tra
il passato che si racconta e il presente che si vive; quel che una buona
traduzione dovrebbe saper fare è proprio restituirne lo spirito originario in
maniera tale da non perderne il valore ancora attuale.
Penso che il lettore di oggi abbia tutto da guadagnare da una buona traduzione di alcuni classici scritti in una lingua ormai di difficile comprensione, anche se sempre di italiano stiamo parlando. Per questo, personalmente, ho ben accolto l'operazione di traduzione di Busi.
E
voi che ne pensate? Decameron tradotto oppure no?
5 commenti:
Mmm, ammetto che quando ho letto "traduzione del Decameron" ho storto il naso, ma hai argomentato molto bene nel tuo post e un po' mi sono ricreduto.
In effetti, è importante che un'opera sia leggibile senza che si perda il suo contenuto.
In ogni caso, ciò che ho letto del Decameron (non molto), lo ricordo come impegnativo, certo, ma non troppo.
L'ideale forse sarebbe un'edizione con testo a fronte, in modo da poter permettere la lettura del testo originale di Boccaccio, e magari allo stesso tempo dare un'occhiata alla traduzione moderna ( o viceversa).
Ottimo articolo ;)
Rita, quella di Busi è un'operazione commerciale ed è sotto questa luce che do la mia benedizione a Busi. Se dovessi invece vederla dal punto di vista letterario, mbè, non mi sembra altro che un'operazione commerciale. Io non sono un purista, né tantomento un puritano. Non concepisco la letteratura come una cosa sacra, non l'ho mai presa sul serio, ci sono capitato per puro caso. Non la prendeva sul serio nemmeno Boccaccio (Busi sì, ma questo ora non c'entra).
Il Decamerone è un'opera aperta a tutto, lo è sempre stata. L'hanno riadattata verbalmente nella tradizione orale e letterariamente, l'hanno anche adattata al cinema, con Pasolini. Un po' come le riscritture del Pinocchio.
Ma l'idea di Busi non ha nulla di artistico. Non mira affatto a rimettere in gioco il Decamerone. E' solo un servizio (un servigio?) al lettore. E poi come attualizzare quell'opera? Oltre a perdere tutto lo stile di Boccaccio, come rendere una scena trecentesca? Sostituiamo i calessi con una Fiat Punto? I cavalli cogli scooter? Ma allora non varrebbe la pena, dico a Busi, di mettersi sì a lavorare sul Decamerone ma per riscriverlo alla moderna, reinventarlo? fare, per dirla alla Manganelli, un libro parallelo?
In più faccio notare che la scrittura boccaccesca, per sua natura, mira alla morte di sé stessa, alla finitezza, proprio perché costruita sul verba volant del tempo. Una delle sue leve sta nell'essere esauribile col volgere degli anni, di essere consumabile e moritura. Anche i riferimenti cronistici hanno l'obiettivo di attualizzare, la sua lingua nasce dal vivo. Boccaccio non scriveva per i posteri. Scriveva storie per i vivi. Noi lettori di oggi, in quanto posteri, valiamo come morti. E la traduzione del Decamerone ci toglie le forme, lo stile, la lingua, la vita del testo per darci quello che i lettori vogliono: le storielle e i contenuti (perché sono le cose che, ahimè, non costa fatica capire).
Di Busi mi fa specie leggere che abbia detto che sarebbe ora di riscrivere Il seminario perché il vocabolario bla bla. Uno perché il primo capitolo di quel romanzo, Barbino, sono pagine bellissime. Due perché poco tempo fa un Busi da poco estromesso dall'Isola dei famosi diceva che se lui nel suo Seminario utilizzava ottantamila parole e la gente non lo capiva perché ne sapeva a malapena due-trecento, non era colpa sua. Non ci poteva fare niente.
Lo dice in questo treno di video su youtube: http://www.youtube.com/watch?v=Y1XblAYWDIU
Dinamo, l'intervista stava sul Venerdì di Repubblica (o su D? Mi viene un dubbio, l'ho letta a casa dei miei e poiché ho sfogliato entrambe le riviste ora non ricordo più dove fosse esattamente) e mi è parsa convicente.
Del suo Seminario ha detto proprio così, che sarebbe ora di riscriverlo, che oggi insomma non userebbe più alcuni termini.
In quanto alla traduzione del Boccaccio, non credo che intenda sostituire il calesse con la Fiat, solo appunto fare una sorta di parafrasi dei passaggi più oscuri, tradurre quei termini che oggi non si usano più, rendere la lettura più accattivante, più scorrevole. Non si tratta, a quanto ho capito, di uno stravolgimento totale. Bisognerebbe leggerla comunque, io magari un'occhiata gliela do, tanto l'originale comunque me lo ricordo abbastanza bene e penso di avere modo di capire se questa traduzione sia valida o meno.
In quanto all'operazione commerciale, e beh, sicuramente sarà così, però alla fine bado al risultato.
Sì, capisco il discorso della scrittura di Boccaccio che era lingua viva e diretta ai suoi contemporanei, ma, appunto, se oggi però la maggior parte delle persone non è più in grado di cogliere certe squisitezze linguistiche, certe arditezze, modi di dire, che senso ha leggerla? Perde proprio il senso, no?
Dunque, tanto vale cercare di recuperarla provando a rendere in un italiano attuale quelle che erano le sfumature linguistiche dell'epoca. Difficile, ma non impossibile.
Ripeto, io l'operazione in sé la trovo interessante, poi ovviamente tutto dipenderà dal risultato.
Enrico,
sì, col testo a fronte non sarebbe male.
Un po' impegnativo lo è il Decameron, dipende comunque dalle novelle, in quanto la lingua variava a seconda del contenuto e dei personaggi.
C'è anche da dire che dopo un po' uno ci prende la mano, si impara insomma a seguire il testo, però credo sia vera l'obiezione che muove Busi e cioè che oggi nessuno ride più leggendolo, mentre ai suoi tempi faceva ridere.
Rita, per come la vedo io, il Decameron una volta scritto è quello lì. Ci si può lavorare parallelamente. Si può commentare, si può ripassare al setaccio filologico, si può farne la parafrasi, gli si possono applicare quelle sanguisughe degli apparati critici e si può riscrivere.
Quella di Busi è una sorta di parafrasi. Un bigino. Non sono affatto contrario che lo faccia, ma credo sia giusto chimare le cose col loro nome perché poi essendo Busi l'autore e standoci in mezzo la pubblicità, il marketing ecc, si rischia di fare confusione.
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