Da
piccola giocavo con le bambole come tutte le bambine della mia età. Anzi, non è
esatto, in realtà giocavo con UNA bambola in particolare: sempre e solo lei,
Patatina; molte di voi se la ricorderanno, la bambola paffutella con i capelli
ricci e biondi e gli occhioni azzurri. La portavo dappertutto, d’inverno la
vestivo con abiti invernali, d’estate con quelli estivi, a Carnevale la
mascheravo e truccavo, prima di andare a dormire le davo la buonanotte e tutte
le mattine il buongiorno. Le avevo pure tagliato i capelli per sperimentare una
nuova acconciatura, tanto ricrescono, pensavo.
Ma
non si può dire che giocassi propriamente a madre e figlia, a dire il vero non
ho mai avuto, da che mi ricordi, il sogno di formare una famiglia, di sposarmi,
di mettere al mondo figli. Le mie amichette giocavano a moglie e marito, a
sposarsi, a formare famiglie numerose con minimo tre figli. Io mi annoiavo a
fare questo tipo di gioco. Preferivo quelli da tavolo, giocare a dama, o quelli
tipo Scarabeo in cui si devono formare le parole con le lettere a disposizione.
Più di tutti amavo leggere o passeggiare in mezzo alla natura pensando ai fatti
miei (sono cresciuta in un paesino e per un periodo ho abitato in una casa al
limitare della campagna).
Il
mio sogno era fare l’attrice. Recitare. In alternativa, fare la veterinaria.
Non
ho cambiato gusti, da allora. Ancora oggi mi piacciono i film, leggere,
passeggiare in mezzo alla natura e amo gli animali. Mi piace la solitudine per
scelta, l’avere tempo e luoghi per me sola. Non penso che in una famiglia
numerosa mi sarei sentita a mio agio, di conseguenza, non ho mai desiderato
avere una famiglia numerosa.
Così
non mi sono mai nemmeno realmente immaginata a formare una famiglia e si può
dire che nella mia vita si siano sempre e solo avverate quelle cose che in
qualche modo avevo già anche prima immaginato.
A
ripensarci oggi credo che Patatina fosse in effetti qualcosa di diverso dalla
mia bambina per gioco, probabilmente il mio alter ego, colei sulla quale
progettavo desideri e sogni e in qualche modo plasmavo la mia personalità o, più semplicemente, la mia amichetta.
Crescendo
le cose non sono cambiate. A un certo punto ho pensato di volermi sposare come
tutti, ma la cosa è durata solo un attimo, il tempo di rendermi conto che a me
di certe convenzioni sociali non importava proprio niente.
Piuttosto
ho sempre cercato l’amore, ossia un compagno di vita che condividesse la mia
stessa visione dell’esistenza e del rapporto di coppia.
Mi
sono resa conto molto presto di non provare alcun desiderio di voler diventare
madre. Non è esatto dire che i bambini non mi piacciano, diciamo che ci sono
quelli che trovo simpatici e tenerissimi e altri che mi lasciano indifferente
(un po’ come le persone adulte, del resto, non è che perché sono bambini
dovrebbero piacermi tutti per forza). Non provo tutta questa tenerezza quando
li vedo, mentre, al contrario, sono sempre impazzita di curiosità per le altre
specie animali. Non posso farci niente, sono fatta così. Se vedo una signora
col passeggino e un cagnetto al guinzaglio, mi viene spontaneo fermarmi per
fare i complimenti al cane e secondariamente al bambino.
Solo
un paio di volte mi è capitato di conoscere bambini così deliziosi, dolci,
intelligenti da pensare che forse sarebbe stato bello diventare madre... a
patto che mi fosse venuto un bambino esattamente come quello.
Insomma,
detto in altre parole, non ho quel che si definisce abbastanza impropriamente
“istinto materno” (dico impropriamente perché pare che molte donne lo
sviluppino solo DOPO essere diventate madri e che non sia affatto scontato
provarlo); per questo ho sempre avuto le idee abbastanza chiare: non voglio
avere figli.
Parole
come: gravidanza, pancione, nottate, allattamento, pianti, pannolini, poppate,
pappette, passeggino, parco giochi, festicciole di compleanno mi hanno sempre
provocato reazioni allergiche.
Il
solo pensiero di avere il mio corpo sformato da una gravidanza mi faceva
sentire depressa.
Più
di tutti mi ha sempre angosciata il pensiero di non essere più autonoma,
libera, di dover costantemente pensare a un’altra personcina che avrebbe
dipeso, per lo meno nei primi anni, in tutto e per tutto da me. Rinunciare a
dormire quanto mi pare, a viaggiare, a uscire, a fare tardi la sera, a
dedicarmi alle cose che più mi piacciono.
Sono
egoista, lo ammetto, non avrei mai voluto sacrificare la mia vita e le mie
priorità per mettere al mondo un altro essere vivente.
Tante
volte mi è capitato di ascoltare, senza invidia alcuna, i discorsi delle mie
amiche alle prese con la maternità: storie di stanchezza infinita, di notti
insonni, di pianti e preoccupazioni, di pannolini sporchi, rigurgitini di
latte, ruttini e smagliature. Non le ho mai invidiate. Mai, nemmeno una volta.
Alcune
volte le ho sentite dire: “se avessi saputo che era così, non lo avrei fatto”.
Questa
frase mi è sempre parsa un po' idiota. Come, “se avessi saputo”? Ma Dio
Santo, decidi di fare una cosa così importante come un figlio e non ti informi
prima su quello che ti aspetta? Ma che pensavi, che fosse come portare nel
passeggino il bambolotto con cui giocavi da piccola?
Mi
dicevano: ma l’amore che si prova supera tutto e poi tutte quelle cose lì del
fatto che diventare madre è un’esperienza talmente meravigliosa e unica da
compensare i sacrifici e tutto il resto; ma se io non sento questa cosa, se a
me non alletta provare questa esperienza, perché dovrei intraprendere
controvoglia questa strada? Non lo capivo.
Mi
dicevano: sì, ora non hai l’istinto materno, ma quando guarderai tuo figlio
negli occhi, a poco a poco ti verrà, non si diventa madre in un istante, ci
vorrà del tempo, ma poi capirai cosa vuol dire. Sì, rispondevo io, può essere,
ma perché devo andarmi a cercare una cosa che non mi convince affatto? Ma che
sta scritto da qualche parte che ogni donna deve diventare madre?
A
questa consapevolezza, come dire, intima, si sono andate ad aggiungere nel
corso degli anni tutta una serie di motivazioni razionali.
Viviamo
in un mondo sovrappopolato in cui c’è tanta povertà e ci sono tanti bambini
orfani, che non hanno alcun futuro. Se proprio un domani mi dovessi pentire di
non aver messo al mondo figli, ho sempre pensato, potrei adottarne uno.
Farei un’opera buona e soddisferei questo eventuale improvviso desiderio.
Poiché
quando dicevo che non volevo figli mi guardavano come se fossi un’aliena (più
le donne che gli uomini, devo dire) ho iniziato a interrogarmi più a fondo
sulla questione e sui miei sentimenti e ho capito che in fondo non ero affatto
la sola, che come me c’erano tante altre donne, solo che a differenza di me non
riuscivano ad ammetterlo e si facevano condizionare dalle convenzioni e
aspettative sociali.
Mi
sono resa conto che la nostra società funziona in un certo modo al riguardo e
che praticamente ti spinge a questa cosa della maternità già da quando sei
piccola. Come se ci si volesse assicurare il ricambio generazionale, il che lo
capirei, se non fosse che, per l’appunto, siamo in sovrannumero abbondante e
stiamo distruggendo le risorse del pianeta che ci ospita.
Basta
entrare in un qualsiasi negozio di giocattoli per rendersi conto che le bambine
vengono spinte a diventare madri sin dalla più tenera età, come se si trattasse
di un percorso obbligato, come se il loro fosse un ruolo predestinato e
ineludibile. Sugli scaffali si trovano piccole bambole che sono riproduzioni di
neonati in fasce, biberon, cambio di pannolini e vestitini e poi passeggini,
carrozzine e tutto il resto. Cucinette per giocare a fare la piccola massaia e
per preparare tanti piccoli pranzetti ai piccoli bambini-bambolotti.
Nei
parchi si vedono queste piccole mammine in miniatura che trascinano passeggini
in miniatura e che sgridano o coccolano i loro bambolotti in miniatura. Giocano
a fare le mamme. Si preparano per il ruolo che la società ha scelto per loro.
Slogan
pubblicitari ci avvertono che “mamma è bello”, che “non c’è nulla di più sexy
di una mamma col pancione” (ma quando mai? Ma che c’è di sexy in un corpo
deforme, nelle gambe con le varicose, i piedi gonfi, i labbroni e la peluria in
eccesso?).
Esiste
inoltre un vero e proprio business legato alla maternità e all’infanzia. Una
miriade di prodotti che da sola costituisce un quarto dell’ammontare del Pil di
un paese.
Ora,
non vorrei essere fraintesa. Non sto dicendo che tutte le donne che decidono di
fare figli stiano rispondendo come automi a determinati input sociali, sono
però sicura che moltissime donne non hanno piena consapevolezza di cosa
significhi mettere al mondo un figlio.
Innanzitutto
l’espressione “fare un bambino” è ingannevole perché quello che chiami bambino
prima o poi diventerà un uomo e quindi è un uomo (o donna), insomma, un essere
vivente che stai mettendo al mondo.
Fermiamoci
un attimo a riflettere sull’implicazione di tale frase: mettere al mondo un
essere vivente.
Sicuri
che in assoluto la vita sia il dono migliore che si possa fare?
Io
ho rispetto per la vita, nutro un profondo rispetto per ogni essere vivente,
cionondimeno non dimentico la lezione fondamentale e cioè che dare la vita è in
primo luogo condannare alla morte e prima ancora a invecchiare, ammalarsi,
soffrire (se tutto va bene).
Direte:
sì, vabbè, hai scoperto l’acqua calda. No, non ho scoperto l’acqua calda, ma ho
scoperto semplicemente che vivere per alcuni non è tutta questa gran cosa (e lo
dico da ottimista, da una che vede sempre il bicchiere mezzo pieno). C’è gente
là fuori che maledice ogni mattina l’istante in cui si rende conto di essere
viva, c’è gente che soffre dannatamente dei mali più improbabili, gente che non
ama vivere. Perché io dovrei decidere questo per altri, perché dovrei assumermi
la responsabilità di prendere una creatura indifesa, che non ha colpe e
gettarla nella mischia di questo mondo di cui non si capisce una beneamata
mazza?
Non
so, mi pare veramente di un egocentrismo assurdo voler riprodurre i propri
geni, come se davvero il mondo, l’universo ne avessero bisogno.
Cioè,
rendiamoci conto, in fondo la gente si riproduce perché non accetta l’idea di
morire, di veder svanire nel nulla la propria esistenza, perché, semplicemente,
non accetta, teme, odia la morte e però allo stesso tempo condanna qualcun
altro a questa stessa angoscia? Ma che è, ci facciamo i dispetti? Poiché
qualcuno ha condannato me a morire, allora tiè, farò lo stesso mettendo al
mondo un figlio? Se ami la vita, non riprodurla.
Mi
colpì molto una riflessione di Thomas Mann che è ne La montagna incantata: la
vita è come una sorta di tumore che cresce, una superfetazione. Proprio così.
Vedo il pianeta terra come un corpo felice e improvvisamente tutte queste vite
che nascono e che sono come tanti tumori che invadono e distruggono questo
corpo. Perché? Che senso ha?
Quindi
ho capito che in realtà quella che credevo fosse una mia forma di egoismo,
ossia non voler i figli, non è nulla rispetto alla forma di egoismo mille volte
più elevata di voler mettere al mondo un altro essere vivente solo per poter
soddisfare un proprio desiderio, che spesso non è neanche proprio, ma indotto
dalla società dei consumi (o dalle religioni o comunque da convenzioni
culturali).
Per
non parlare di alcune motivazioni assurde del fare i figli che purtroppo mi è
capitato di sentire: faccio i figli così almeno quando sarò vecchia avrò
qualcuno che si occupa di me. Faccio figli così almeno non mi sentirò più sola.
Faccio figli perché un matrimonio non è completo senza un bambino. Faccio figli
perché così mi realizzo come donna.
Mah.
Non voglio giudicare nessuno. E però chiedo anche di non essere giudicata io. E
invece purtroppo la mia dichiarazione di non voler esser madre suona ancora
così atipica in questa società che subito vengo tacciata di essere arida,
incapace di sentimenti, anormale, nella migliore delle ipotesi, bizzarra.
Un’altra
cosa che ho sempre trovato ridicola è che, indipendentemente dal volerlo o
meno, si definisce “madre” solo chi procrea biologicamente. Invece ho capito
che la maternità è, tutto sommato, una condizione che può sperimentare
chiunque.
Nella
mia vita ho fatto altre scelte, scelte diverse da quelle della maggioranza. Ho
adottato degli animali trovati abbandonati, feriti o comunque in situazioni di
pericolo. E non perché cercassi dei sostituti a dei figli, che non ho mai
consapevolmente voluto, appunto, ma proprio perché ho sempre avuto questa
empatia estesa verso le altre specie, questo amore per gli animali.
Probabilmente
non sarà come partorire un figlio proprio, ma posso dire che amo queste
creature non di meno di quanto una madre qualsiasi ami i propri figli.
Alla
fine questo sentimento della maternità di cui tanti blaterano non è per forza
quella cosa che ti fa desiderare di circondarti di pannolini e biberon, si può
provare in maniera estesa in quanto forma peculiare di amore, si possono amare
figli di altri, bambini orfani, animali, senza necessariamente assumersi
l’enorme responsabilità di mettere al mondo un altro ammasso di cellule che poi
diventerà una persona adulta.
In
fondo, se io non ho voluto figli, non è perché non amo abbastanza la vita, come
pensano alcuni, ma proprio perché amo ed ho rispetto della vita più di tanti
altri.
Questo
scritto/sfogo non vuole essere tuttavia un atto di accusa verso chi
consapevolmente, o anche no, ha voluto fare figli, è felice di averli fatti e
li ama. Se chi mi sta accanto è felice, sono felice anche io, a prescindere da
quanti figli abbia.
Vorrei
però che le donne riuscissero a uscir fuori da certi schemi, stereotipi,
condizionamenti sociali, religiosi e culturali perché purtroppo intorno a me
scorgo anche tanta infelicità, scorgo persone che hanno fatto figli tanto per
aderire a determinati modelli convenzionali di famiglia o come punto di arrivo
di un percorso ritenuto a torto obbligato (fidanzamento, matrimonio, figli) e
che se ne lamentano in continuazione. Si lamentano di non aver tempo, di essere
stanche, di aver rinunciato al lavoro o a questo e quell’altro. Persone che si
fanno il mazzo per poter mantenere due, tre figli.
Facile
risponder loro: ma chi te l’ha fatto fare? Ovvio che l’hanno fatto senza
rendersi conto fino in fondo di tutte le implicazioni che il mettere al mondo
un figlio comporta.
Soprattutto,
la cosa che più di tutte mi rattrista è vedere donne che veramente non si
sentono realizzate se non fanno figli, ricorrono alla fecondanzione assistita,
alla procreazione artificiale, si sottopongono a tremila esami e tutto e solo
perché qualcuno gli ha messo in testa che una donna che non diventa madre non è
una donna pienamente realizzata.
Ci
sono uomini che continuano a dire che mai nessuna donna è bella quanto una
donna incinta.
Ma
che state dicendo? Capisco che la maternità, per chi lo desideri, sia
un’esperienza bellissima, ma non vi rendete conto di quanto questi stereotipi
condizionino le donne e le facciano sentire in difetto se poi non riusciranno,
per qualche motivo, a diventare madri?
Mica tutte hanno avuto le idee chiare come me, ce ne sono alcune che si
ammalano di depressione, che si sentono dimezzate, incapaci di valere solo
perché non sono diventate madri.
Donne,
ribellatevi, non è così, voi valete in quanto persone e non in quanto madri o
mogli o professioniste.
Poi,
ci sarebbe da parlare del ruolo pesantissimo che la religione occupa in tutto
ciò. Magari un’altra volta.