A Barry
Riflettevo
su quanto alcune esperienze o eventi, seppur minimi, spostino punti
fermi, alterino equilibri, modifichino percezioni. La nostra identità -
qualsiasi cosa voglia dire - è un caleidoscopio in continuo divenire.
Destabilizzante, ma meraviglioso. Tutto muta, tutto diviene, tutto
cambia.
Poi ci sono certi incontri che hanno la potenza di un terremoto. A volte è questione di uno sguardo, altre di un gesto.
Gli incontri, non solo con l'altro, ma anche con le cose, con il mondo, e con parti di noi che si rivelano improvvisamente.
Anni fa mi colpì molto la lettura di Nadja di André Breton. E anche
quel testo, così ricco di aperture, sfumature, intersezioni con la magia
del non detto e dell'inesprimibile - ma che è il "vissuto" - fu un
incontro.
. Ma a me non importa, il riso è un'emozione forte, che apre tanti canali.
L’incontro con Barry – un minuscolo gattino di appena un
paio di giorni di vita, abbandonato dalla madre – non solo mi ha messa a contatto con
una parte di me che non avevo mai esplorato a sufficienza, ma soprattutto mi ha
svelato limiti e potenzialità del mio darmi all’altro; qualsiasi sia questo
altro.
Negli occhi chiusi, non ancora aperti al mondo, di un altro
essere che si è ritrovato completamente, totalmente nelle mie mani ho potuto
comprendere, o forse solo intuire, il senso dell’offrirsi, del darsi, del consegnarsi
incondizionatamente. Non il suo, che lo era per forza di cose – un cucciolo
indifeso è tautologicamente nelle mani di chi se ne prende cura – ma il mio.
Per una settimana mi sono presa cura di questo fragile
esserino sperando di salvargli la vita. Per una settimana l’ho allattato ogni
due ore, notti comprese. Praticamente non ho dormito quasi mai, se non a brevi
intervalli. La stanchezza, soprattutto i primi due giorni, era tanta, ma di più
la gioia incontenibile di vedere una vita che continua. Non so dirvi, non so
narrarvi il senso di totale struggimento nel tenere nelle mie mani questo
esserino minuscolo, talmente minuscolo che avevo paura di fargli male.
L’emozione, tra il quinto e il sesto giorno, di quelle due
fessurine che cominciavano ad aprirsi, lasciando intravedere il brillio ceruleo
dei suoi occhietti, timido, ma avido di curiosità, è quanto di più struggente
abbia mai vissuto.
E poi la cura nel sistemargli il giaciglio che gli avevo preparato, il controllare che fosse sempre al caldo, i giorni scanditi
da una routine e da gesti che si accavallano gli uni sugli altri, il tempo
fermo, le notti con la sveglia ogni due ore, le mani che tremano dal sonno, le
uscite frenetiche per non tardare il rientro a casa.
Il suo profumo, di vaniglia e di buono; la sua morbidezza,
il suono, appena percettibile, delle sue prime fusa, le sue zampette che si
muovono ritmicamente in quella specie di “danza”, l'imprinting a spremere il latte dalle
mammelle di mamma gatta, che tutti i gatti
continuano poi a fare anche da adulti; il suo pianto appena sveglio e il suo
placarsi a poco a poco una volta sazio.
I suoi primi (e ultimi) raggi del sole, sotto a cui si è
teneramente addormentato quando già stava cominciando ad andarsene.
Tutto sembrava procedere nel migliore dei modi, ma
improvvisamente qualcosa è andato storto e, dopo affannati e affannosi
tentativi di salvarlo (veterinario, ricovero in clinica ecc.), Barry è morto.
“Barry non ce l’ha fatta”, queste le parole riferitemi per
telefono dalla clinica in cui era stato ricoverato d’urgenza.
A seguire quel “Barry non ce l’ha fatta” - un momento che segna qualcosa, che marca e separa il prima dal dopo - un turbinio di emozioni e
sensazioni contrastanti che davvero non saprei descrivere se non per accenni:
senso di colpa, senso di perdita devastante, consapevolezza dell’ineluttabile,
continuo rimuginare e indagare, percorrendoli a ritroso, sui meccanismi di
causa-effetto (se non avessi fatto quello/avrei dovuto agire così/e se invece
di/sarebbe stato meglio ecc. ecc.). Un dolore immenso che non avrei mai
immaginato e che non so spiegarmi nemmeno oggi.
La volontà di razionalizzare e gli sforzi di accettazione
dell’evento che vengono risospinti indietro dall’ondata irrazionale del dolore
e dell’angoscia.
Sopra a tutto la sensazione ineludibile della perdita del
senso, la consapevolezza di una morte iniqua, dell’inanità di ogni nostro
sforzo, speranza e immaginazione.
Eppure lo sapevo già che la vita, in sé, non ha alcun senso
e che siamo noi, eventualmente, a dovergliene attribuire uno. Che è quello che sto tentando di fare.
Ecco, se la brevissima vita di Barry ha avuto un senso
allora non può che esser stato quello di avermi voluto insegnare qualcosa. Consapevole del fatto che questo insegnamento è quanto di meglio io, a posteriori, possa attribuire a qualcosa che, in sé, ripeto, un senso non ce l'ha affatto.
Il
senso che io ho scelto di attribuire a questo evento - e perché è così che l'ho vissuto sin dall'inizio - è nel dare, nel darci, incondizionatamente. Nello spenderci - nel gioco
delle nostre esistenze - in ciò che ci appassiona, negli altri, per gli altri,
per noi stessi. Senza retorica, ma semplicemente, umilmente, nel vissuto di
ogni istante.
Non servono gesti eclatanti, non è di questo che sto
parlando. Basta un esser-ci, nelle cose, nel mondo, negli altri e soprattutto
con-gli-altri.
Per incontro, quello che ho appena narrato con Barry o con
l’immagine di un gesto che ho visto compiere, intendo proprio l’accadere,
l’evento, l’epifania, la rivelazione, il terremoto che sposta baricentri e
richiede che tutto ritrovi un nuovo assesto. Destabilizzante, sì, come scrivevo
all’inizio. Ma anche assolutamente meraviglioso.
Comunque le cose accadono, semplicemente, e spesso al di fuori delle nostra oggettiva responsabilità e visibilità, ma poi siamo noi che le ricostituiamo come fatti quasi sempre inserendole in un rapporto spazio-temporale di causa ed effetto, che è la maniera in cui la nostra mente è abituata a rappresentarsi la realtà. Siamo noi che attraverso il racconto, questo che ho appena fatto, le disponiamo in un certo ordine e gli attribuiamo senso e significati.
Ma esiste qualcosa, al di là di tutto questo narrare, che elude la possibilità stessa della parola e che si configura come evento interiore, come vissuto irriducibile ad ogni rappresentazione, ma solo esperibile in quanto puro "sentire".