di Leonora Pigliucci
La farmaceutica Menarini di Pomezia è sotto pacifico assedio animalista da giorni.
Una mobilitazione massiccia e spontanea, senza sigle, scattata dopo la
notizia dell’arrivo di 8 cani che sarebbero stati vivisezionati nei
laboratori dell’azienda.
Questa, che già da mesi è nel mirino degli attivisti della zona, dopo
due giorni di presidio ininterrotto di fronte ai suoi cancelli, ha
tentato di placare gli animi con un impegno formale a cedere gli animali
in questione.
Si tratta di un episodio che a nemmeno un
anno dalla liberazione dei beagle di Green Hill al culmine di una
manifestazione, il 28 aprile scorso, suggerisce molte valutazioni.
Innanzitutto che c’è una leva consistente di attivisti pronta ad agire,
con indubbia generosità, non appena il momento si fa proficuo, che è in
grado di sovvertire consuetudini e tattiche comprovate per lanciarsi con
testa e cuore in azioni ardite dai risvolti imprevedibili.
Poi, che al di là dei conflitti ideologici, che in questi ultimi mesi
confondono e ottundono la creatività di un movimento altrimenti
straripante di potenzialità, quando si apre uno spiraglio di liberazione
quella maggioranza agisce compatta e fraterna, ed è capace di
raggiungere risultati storici.
Chi solo pochi giorni fa avrebbe
immaginato che una potentissima industria farmaceutica di calibro
internazionale come la Menarini si sarebbe docilmente fatta assoggettare
da un manipolo di ragazzi accorsi alla spicciolata, di notte, sotto la
pioggia, senza autorizzazione né coordinamento a bloccare col proprio
corpo tutti i furgoni di passaggio, per realizzare l’impresa assurda di
impedire l’ingresso nei laboratori di 8 cavie regolarmente acquistate e
fatte arrivare dall’estero?
Eppure a quanto pare quei visionari ce l’hanno fatta. E si è reso palese
come il liberazionismo animalista e l’azione diretta a viso scoperto
inizino a fare davvero paura a chi campa sula sofferenza degli animali.
La dice lunga la reazione del consiglio
di amministrazione della Menarini che, nel comunicato della “resa”, non
solo indica la propria disponibilità a salvare i cani, ma, elemento
davvero nuovo, afferma di non voler più sperimentare sugli animali, come
prescritto però dalla legge, e auspica perciò di poter ricevere presto
indicazioni in questo senso da parte della politica.
Siamo, allora, di fronte ad un inedito cedimento strutturale
dell’impianto legittimante la sperimentazione animale, ad un’apertura
nella quale si legge, neanche troppo tra le righe, il riconoscimento da
parte di coloro che la praticano dell’inamissibilità etica della
sperimentazione animale; ad un atteggiamento sulla difensiva che non
potrà che rafforzare le proteste future. Il movimento (ancora senza
sigle, nessuna associazione in testa) non vuole sprecare l’occasione, e
porterà avanti un presidio a oltranza, sempre di fronte alla Menarini,
perché i riflettori restino accesi sulla vicenda, ma utilizzandola
stavolta a megafono, perché quanto prima si imponga un ripensamento a
livello europeo, che dallo spiraglio della farmaceutica italiana dia
modo di scardinare l’edificio intero della vivisezione.
Le adesioni al presidio si stanno moltiplicando, di ora in ora, da tutto il Paese.
In questo frangente scoppiettante bisogna
essere molto distratti per non accorgersi che non sono i piccoli passi
della Lav, o l’accidentato percorso dei diritti animali in ambito
legislativo, quelli che stanno agendo contagiosamente sulla mentalità di
un’opinione pubblica sempre più coinvolta dal destino animale, ma lo
spontaneismo più sincero, declinato in azioni di vera e propria
disobbedienza civile che, finalmente con qualche efficacia, erodono la
consuetudine all’indifferenza per lo sfruttamento animale su cui poggia
tutto.
Ed è miope la posizione di certo antispecismo politico, che nella
mancanza di una progettualità che vada oltre la liberazione animale,
nelle azioni cui stiamo assistendo e partecipando accoratamente, nella
centralità che lasciamo all’emozione per la sorte dei singoli animali,
nell’inadeguatezza al politically correct di certe campagne informative,
o nell’accondiscendenza generale all’azione indiretta nonviolenta ma
illegale, vede il segno del fallimento dell’animalismo contemporaneo.
Azioni giocate sul tempismo, l’emotività e
la casualità stanno costituendo di fronte a chi sfrutta gli animali,
anche ad interi colossi industriali, le sembianze di un nemico
imbattibile, una minaccia costante, un disastro per l’immagine pubblica,
un intralcio pesante che già da tempo preoccupata i rappresentanti
delle case farmaceutiche. Questi hanno infatti sottolineato più volte
come il traffico aereo degli animali da laboratorio (spesso si tratta di
macachi catturati nel Borneo) sia così estesamente sotto attacco da
parte di attivisti internazionali che spesso ne va del normale
svolgimento delle attività. In quest’occasione, sono gli sperimentatori
italiani a vedere la faccenda complicarsi proprio a causa di recenti
vittorie animaliste, ovvero per la sospensione dell’attività da parte
dell’allevamento di Montichiari, posto sotto sequestro dopo la denuncia
degli attivisti che hanno liberato i cani.
E’ per questo che la Menarini ha dovuto ordinare gli animali
dall’estero, allungando l’iter da compiere per averli e le spese, ma
sopratutto esponendosi ad una visibilità che in questo momento non
vorrebbe e che sta diventando soffocante.
La tattica animalista, d’altra parte, affonda le radici in una tradizione nobile di battaglie vittoriose.
Gene Sharp in The politics of Nonviolent action
racconta di lotte per la giustizia del passato, di donne e di
minoranze, cui la storiografia ufficiale non ha riconosciuto la dignità
di rivoluzioni, non tanto perché queste non contenessero un
significativo potenziale sovversivo, o non siano state responsabili di
piccoli e grandi balzi in avanti della civiltà umana, ma per una sorta
di pregiudizio in favore della violenza, che ha restituito ai giorni
nostri il termine rivoluzione come sinonimo di azione di massa,
belligerante ed armata. Esiste invece, dice Sharp, una lunga tradizione
di battaglie vinte dai piccoli, che sta alle spalle di Gandhi e che nel
Mahatma ha trovato una messa a sistema definitiva o quantomeno fondante.
Sharp in certe pagine sembra descrivere i
passi del movimento animalista di oggi: illustra come sia necessaria
l’abnegazione di chi a viso scoperto, e a proprio rischio e pericolo,
sfidi una consuetudine fatta di inequità per farne emergere la
contraddizioni con il presunto e preteso progresso morale della società
contemporanea, che scompagini le carte della normalità, che, con
comportamento personale ineccepibile, rovesci il tavolo sulla faccia di
chi impone la sua legge ingiusta, che dia segno di solidarietà
spiazzante, mescolandosi ed identificandosi con gli ultimi umiliati e
calpestati, mentre disdegna il proprio privilegio. In questo caso quello
di esseri umani occidentali, inebetiti da una finta libertà che nella
sostanza non tollera fughe dalla gerarchie imposta all’esistente.
Stavolta è il pregiudizio specista,
anch’esso violento, che fa di quella animalista una rivoluzione
nascosta, misconosciuta e spesso derisa, di cui non si comprende ancora
appieno la natura politica, mentre essa, pacificamente e
silenziosamente, sta svuotando le fondamenta stesse del nostro mondo,
negando, coi fatti, quell’antropocentrismo ormai privo di senso, che non
regge più nulla.
Ma stavolta, a quanto pare, il momento è quello giusto.