lunedì 30 dicembre 2013

Una mia brevissima considerazione sempre sul caso Simonsen


Perché i sostenitori della sperimentazione animale hanno evidenziato gli insulti di qualche scemo spostando così il discorso dal vero dibattito che è quello (o almeno dovrebbe essere) della liceità o meno di usare e uccidere migliaia di esseri senzienti provocandogli sofferenze atroci? Perché hanno voluto farci apparire (ci provano da sempre, in realtà) come dei violenti, aggressivi, sadici, cinici, quando la vera violenza reale è quella che si effettua dentro i laboratori?
Perché in tutto questa battage mediatico ci siamo dimenticati delle vere vittime della sperimentazione animale - tra cui non è certo la ragazza malata, ammalatasi per pura sfortuna - le quali vengono fatte ammalare appositamente?
Semplice.
Perché l'unico punto su cui i pro-vivisezione sono davvero in difficoltà, quello difficilmente difendibile, quello inaccettabile oramai per la maggior parte della collettività rimane, al solito, quello etico, che è, guarda caso, quello su cui noi battiamo sempre ed anche quello che riconoscono non esser in grado di controbattere efficacemente.
Per cui hanno spostato efficacemente il piano del discorso - debbo ammettere riuscendoci - dall'insostenibilità etica della vivisezione, all'insostenibilità etica degli insulti alla ragazza. Strumentalizzando vergognosamente le immagini sofferenti di Caterina, strumentalizzando la sua malattia e la sua speranza di guarire. Ma del resto da chi non si fa scrupolo di usare esseri senzienti come fossero cose, non è che c'è da aspettarsi molto di più.
Gli insulti e gli auguri di morte, come già detto, li condanniamo anche noi, ma nulla c'entrano con la giustificazione, di per ciò solo, della vivisezione. 
Per favore, siamo furbi, riportiamo la discussione sul tema che ci sta a cuore: la difesa degli animali uccisi nei laboratori, l'insostenibilità etica della vivisezione. 
L'operazione mediatica che i pro-test hanno provato a fare è questa: facciamo apparire gli animalisti come violenti, quindi li condanniamo eticamente, e quindi, per sillogismo, definiamo ingiusta anche la loro condanna della vivisezione.
Eh no! Se anche chi ha insultato Caterina ha mostrato di non avere rispetto per una malata, questo non significa che allora, di default, la vivisezione diventi per magia accettabile eticamente. 
Sempre una vergogna dell'umanità rimane.

domenica 29 dicembre 2013

Il fine non giustifica i mezzi: una risposta a Caterina Simonsen


(Due esseri senzienti con la stessa voglia di vivere, riposano insieme)

di Veganzetta, Gallinae in Fabula, Manifesto Antispecista, Mappa Vegana Italiana, Forum Etici, Campagne per gli Animali, Ippoasi, Dariavegan, Progetto Vivere Vegan, Veganierranti

Vivere nonostante i problemi di salute che l’affliggono non deve essere facile per Caterina, e a lei, contrariamente a quello che è accaduto sul web, va la nostra solidarietà di antispecisti. Avere 25 anni e non poter godere appieno della vita, e dipendere da macchinari e farmaci è una tragedia personale, alla quale però Caterina Simonsen ha voluto rispondere avallando una tragedia collettiva.
La tragedia collettiva di cui parliamo è la vivisezione o sperimentazione animale, come preferiscono definirla coloro che la difendono, comunque la si voglia chiamare, facciamo riferimento a una vergogna per l’umanità tutta, una pratica a cui soggiace un concetto allucinante: il fine giustifica i mezzi; qualunque scelta o azione è lecita pur di ottenere un risultato utile o positivo per chi la compie.
Caterina dice di amare gli Animali, è vegetariana (cosa lodevole), si fa fotografare abbracciata al suo compagno canino, studia per diventare una veterinaria, insomma la si potrebbe definire una persona a cui stanno a cuore gli Animali, allo stesso tempo per far fronte alla sua situazione difficilissima, e umanamente comprensibile, non esita a utilizzare metodologie derivanti dallo sfruttamento degli Animali. Ma chi non lo farebbe se fosse al suo posto? Ben pochi avrebbero il coraggio di spingere la propria coerenza personale sino a tali limiti. Se quindi di comprensione e di empatia si può parlare in questo caso, non possiamo, in tutta onestà, condividere il suo appello in favore della strage di milioni di Animali in nome di un “bene supremo” che sarebbe la salute umana (e nello specifico la sua).
Non possiamo e non vogliamo condividere un appello che trasforma una persona umana affetta da rare patologie in uno spot vivente pro-vivisezione, divenendo lei stessa strumento propagandistico (si spera del tutto inconsapevolmente, ma dubitare è lecito) nelle mani di chi gli altri è abituato a strumentalizzarli – a usarli - quotidianamente; e ciò perché siamo assolutamente convinte/i che mai i fini possano giustificare i mezzi. Perché se ciò accadesse, se tale paradigma divenisse consuetudine universalmente condivisa (ma forse lo è già), non ci sarebbe limite alla violenza, alla sofferenza e al dominio sull’altro. Molti in ambito animalista hanno accomunato le pratiche mediche naziste inflitte agli ebrei ai protocolli sperimentali con l’utilizzo di Animali, se il paragone può sembrare esagerato o retorico (ma del resto adeguato alla situazione visto e considerato che la stessa Caterina ha usato pubblicamente il termine “nazi-animalisti”), a sgombrare il campo dagli indugi basterebbe elencare le numerose conoscenze mediche, biochimiche e fisiologiche, le sostanze chimiche, che ancora oggi vengono utilizzate per il “bene supremo” umano, e che sono derivanti da torture inflitte agli ebrei nei campi di concentramento e sterminio nazisti: come il comune test di Clauberg sulla fertilità (per maggiori informazioni si legga: http://www.veganzetta.org/?p=3756), o sostanze di derivazione ormonale come il Progynon e il Proluton, largamente impiegate nei casi di sterilità e di rischio di aborto nella donne; sostanze che possono salvare la vita di un nascituro, o dare la gioia a una persona di avere un figlio. Chi siamo noi per giudicare delle persone che ricorrono a queste soluzioni nella speranza di guarire da una patologia che le ha colpite? Ma allo stesso modo chi siamo noi per giustificare i metodi raccapriccianti che hanno portato alla messa a punto di tali sostanze? Per Caterina le medicine che assume significano vivere, per molti altri esseri senzienti hanno significato dolore e morte. Caterina diviene vittima di malattie che possono, a oggi, essere curate solo con sostanze che hanno causato vittime non umane a migliaia: lei non ha colpa di tutto ciò. Ma ne diviene complice nel momento in cui decide di difendere pubblicamente tali metodi: non ne ha alcun diritto né come persona umana, né come malata. E’ questo il suo grande errore, ed è questo che non possiamo e non vogliamo condividere, e che anzi condanniamo fermamente. Nessun fine può giustificare i mezzi, nessuno oserebbe affermare ciò che afferma Caterina se le vittime sacrificali fossero i propri cari, la propria famiglia, o anche il proprio Cane (lo stesso della foto di cui si parlava prima, per esempio), questo perché saremmo colpiti nei nostri sentimenti, nei nostri affetti più profondi: meglio che accada ad altri, lontani, distanti da noi, diversi. In fin dei conti le vittime di Clauberg erano per i nazisti “solo ebrei”, quindi meno che umani, e le vittime dei farmaci che assume Caterina erano “solo animali”, quindi nemmeno umani.
Di sicuro molte persone si sentono più sicure perché protette da eserciti e da servizi segreti pronti a tutto pur di difendere un determinato modello di vita, anche a costo di torturare Umani, di imprigionarli, di ucciderli, di richiuderli ed espellerli come si fa con oggetti non desiderati. Ma ciò può essere sopportato solo da chi da queste vergogne trae giovamento, da chi ha la fortuna di trovarsi dalla parte del più forte. Ma a quale prezzo? Ci sarà mai fine a questo macello quotidiano che smembra Animali, Umani e il Pianeta stesso? E’ questo egoismo assurdo che abbiamo il dovere morale di sconfiggere, partendo da chi è l’ultimo degli ultimi: il non umano, vittima anche delle cure che salvano Caterina e in definitiva tutte/i noi.
Vorremmo vedere il sorriso di Caterina senza una maschera di plastica, ma allo stesso tempo vorremmo che tale sorriso non significasse lo strazio di milioni di altri esseri senzienti che hanno il suo stesso diritto a vivere una vita serena. Affermare che ora non si può fare altrimenti non può essere una giustificazione, sarebbe solo una resa ipocrita e una degradazione morale. Una scienza priva di un’adeguata riflessione etica è solo un’aberrazione della nostra propensione alla conoscenza, e può solo generare mostruosità, ingiustizie e dolore. La fine della sperimentazione sugli Animali non è una questione legata al superamento di necessità contingenti, ma è meramente una questione di volontà.
Per quanto esposto ci dissociamo da chi augura la morte a Caterina Simonsen, ma anche dalla sua presa di posizione a favore della tortura animale. 

Saluti antispecisti.

Veganzetta, Gallinae in Fabula, Manifesto antispecista, Mappa Vegana Italiana, Forum Etici, Campagne per gli Animali, Ippoasi, Dariavegan, Progetto Vivere Vegan, Veganierranti.

venerdì 27 dicembre 2013

La Fatiscenza di Mauro Cappiello: la prigione del vivere



Un ragazzo conduce un’esistenza tranquilla e abitudinaria all’interno di un bagno. Tutto ciò di cui ha bisogno si trova tra le pareti di questa stanza piuttosto angusta. Ogni mattina il suono della sveglia lo riconduce a un eterno presente sempre uguale a sé stesso, scandito da gesti e lavori consuetudinari che mantengono l’ordine di quel microcosmo. Il lieve accenno di sgomento al risveglio – appena un’increspatura a turbare la quiete, come un sintomo che non appena si manifesti già scompare – si dissolve nell’esecuzione rasserenante del proprio dovere.
Ma un giorno accade qualcosa che ha dell’incredibile: dalle profondità dello scarico del lavandino si diffonde una voce che coinvolge il ragazzo in uno strano dialogo sulla natura delle cose e lo invita a lasciare la stanza per mettersi alla ricerca della conoscenza.
Il ragazzo appare inizialmente infastidito, poi incuriosito, infine, anche se pieno di timori e dubbi, si decide ad uscire.
Scoprirà così la realtà del mondo al di fuori della stanza.
La Fatiscenza, secondo mediometraggio del giovane Mauro Cappiello - già autore del precedente “L’oscuro cammino dell’inconscio” in cui la suggestione di atmosfere decisamente lynchiane è al servizio di riflessioni metafisiche e anticipa quelli che saranno gli stilemi e le tematiche più rappresentative dei suoi lavori futuri, come ad esempio nel lungometraggio Tatami, autoprodotto con un’etichetta chiamata Charyòt Film – riesce a catturare l’attenzione dello spettatore sin dai primissimi secondi in piano-sequenza per poi mantenere un continuo stato di tensione fino all’apertura, in ogni senso, della scena finale.
L’ambientazione claustrofobica iniziale nella stanza da bagno riflette la condizione esistenziale del protagonista che vive in catene inconsapevole di esserlo: sei uno schiavo, gli dice la voce che esce dallo scarico del lavandino, tutto ciò che ti circonda è la tua patetica prigione. Molteplici sono i riferimenti che è possibile cogliere in quest’opera, solo apparentemente surreale, in realtà direi paradigmatica della condizione umana: dal mito della caverna di Platone (evidente laddove il ragazzo ammette di scorgere talvolta strani luccichii al di là della porta, attraverso il buco della serratura), ai tanti rimandi cinefili, uno su tutti la scoperta della vera realtà in Matrix dopo che l’assunzione della pillola rossa ha permesso lo strappo del Velo di Maya, ma anche il crollo del mondo di cartapesta in The Truman Show.
Se le due opere succitate portano avanti un discorso più specificamente metafisico, quasi mistico, direi – si svela l’inganno per accedere alla vera realtà – ne La Fatiscenza invece riescono a fondersi diversi piani di lettura: si passa dall’elemento intimista a quello più propriamente filosofico, dall’esistenziale al metafisico e persino al sociale (innegabilmente la squallida routine lavorativa del ragazzo all’interno del bagno riecheggia l’automatismo delle tante esistenze condotte al solo fine di vivere per lavorare e non viceversa).
Qui comunque la cifra del vero vivere sembra mancare non tanto – non solo! – per la mancanza di consapevolezza del protagonista di trovarsi in una sorta di prigione, quanto per la paura stessa di abbandonare quello che sembra essere un luogo sicuro. Così che la vera gabbia risulta essere alla fine l’imposizione delle proprie paure, la presunta impossibilità del superarle. Paura del vivere che è nell’esser coscienti della propria decadenza fisica (eccola la vera fatiscenza!). Se vivere è riconoscimento del morire un po’ ogni giorno, allora il rifiuto della vita è il rifiuto della morte, un rifiuto che però paradossalmente conduce alla morte-in-vita, alla schiavitù di un’esistenza ingabbiata nelle proprie paure e quindi a una morte assolutamente precoce. Solo liberandosi della paura di morire, si impara davvero a vivere.
L’apertura della porta del bagno e il procedere alla scoperta di ciò che si trova al di fuori non sarà allora tanto la conquista della conoscenza ultima o la rivelazione di chissà quale verità – del resto il ragazzo lo dichiara esplicitamente alla voce, a lui non interessa dare un senso alla propria esistenza, non gli interessano quelle cose – quanto l’acquisizione di un desiderio fino a quel momento sopito: vivere senza più timore di morire, senza più l’angoscia opprimente della propria finitudine e corruttibilità fisica,  ossia aprirsi alla qualità epifenomenica del presente.
La Fatiscenza non è quindi un’opera che ha pretese teleologiche, ma al contrario indica una via nel presente per aprirsi al manifestarsi della realtà dopo aver reciso le sbarre di quella prigione che è la decadenza fisica. Solo smettendo di preoccuparsi per la propria incolumità, ci si apre all’esperienza del sublime.


Le bellissime note di Takemitsu (composte originariamente per La donna di sabbia) sostengono i vari momenti del film, conferendogli una particolare eleganza e atmosfere noir impreziosiscono gli elementi surreali di fondo, il tutto confermando la padronanza registica di Mauro Cappiello, del resto già annunciata nel suo primo lavoro: un autore che, da cinefila quale sono, suggerisco senz’altro di tenere sott’occhio e magari di cominciare a conoscere proprio a partire da questo piccolo gioiello che è La Fatiscenza. 

Note tecniche

Regia: Mauro Cappiello
Soggetto: Mauro Cappiello
Sceneggiatura: Mauro Cappiello e Fabio Divietri
Operatore di ripresa: Antonio Iurino
Interpreti: Mauro Cappiello e Fabio Divietri

martedì 24 dicembre 2013

Stati generali dell'antispecismo



di Leonardo Caffo

Questo è il mio primo post su Gallinae in Fabula. Chi mi conosce, o ha lavorato con me, sa che, contrariamente a ciò che molti pensano, la maggior parte dei progetti che ho contribuito a fondare, pensare, e via dicendo, non mi ha mai visto troppo protagonista (penso ad Asinus Novus, che ho fondato con Marco Maurizi, e basta vedere quanti articoli miei sono stati pubblicati negli anni). Mi sembra che l'importanza di tutto ciò sia, più che altro, fare emergere nuove voci - diverse prospettive - spesso inascoltate o inadatte ad altri contesti: ed è così che, fortunatamente, il panorama antispecista si è arricchito di autorevoli commentatori prima sconosciuti o quasi: penso a Serena Contardi, Antonio Volpe, Rita Ciatti, Leonora Pigliucci, Alessandra Colla, Andrea Romeo... e anche qui l'elenco è lungo. E piano piano sentiremo parlare sempre più di loro, e di altri che ancora non conosciamo, ma cominciano a problematizzare la questione animale con la loro testa.


Scrivo questo mio post, breve, perché gli ultimi anni hanno condotto a un contrasto, troppo spesso forte, tra diverse posizioni antispeciste: complice anche la mia partecipazione al dibattito, i toni, spesso, sono stati sgradevoli e poco filosofici. Ma in un qualche senso abbiamo dimenticato l'obiettivo comune che è, era e resta, quello della liberazione animale. Credo che ci sia da chiedere scusa a tutti gli attivisti, ma soprattutto a tutti gli animali, per questa perdita di rotta.

Scrivo questa pubblica lettera, umilmente, per chiamare a raccolta per il 2014 "Gli stati generali dell'antispecismo": un cantiere aperto di lavoro comune, tra antispecisti politici, deboli, animalisti, liberazionisti, attivisti e filosofi, volto a costruire insieme un edifico comune, in un territorio sicuro. Credo che i tempi siano maturi per lavorare insieme, rispettosamente, e far sentire la voce degli animali attraverso la nostra - verso un ripensamento complessivo delle categorie politiche attuali.

Dal 2014 mi impegnerò personalmente, attraverso conferenze ed eventi, a promuovere quanto qui ho brevemente abbozzato: chiedo a chiunque volesse partecipare, come associazione o singolo, a questo evento di scrivere a gallinainfabula@gmail.com - per cominciare questo laboratorio dell'antispecismo.

Qui ci sarà la lista aggiornata di attivisti e associazioni, e degli eventi che avranno aderito - basterà poi mettere come banner, o dove si preferisce (locandine, ecc.), il logo semplice con cui è aperta questa lettera.

In questi anni, dalla redazione di Liberazioni alla fondazione di Asinus Novus, fino alla direzione di Animal Studies - la conoscenza di tanti attivisti, in giro per l'Italia e per l'Europa, l'amicizia meravigliosa con le amiche di questo nuovo progetto che è Gallinae in Fabula - mi sono convinto che è possibile, davvero, provare non soltanto a "dire" la liberazione animale ma anche a "farla".

Spero che, anche se per adesso sono stato breve, molti aderiranno a questa iniziativa - l'anno prossimo, quello che sta per iniziare, potrebbe davvero essere diverso - ma dobbiamo essere uniti, e sulla base di un nucleo comune antiautoritario, libertario e antispecista.

Attendo vostre,

buona liberazione a tutte/i.

lunedì 23 dicembre 2013

La bontà illogica



Nel saggio Crimini in tempo di pace di Filippi e Trasatti ho trovato questo passo tratto da un testo di Grossman e siccome mi è piaciuto particolarmente lo trascrivo qui; un augurio a modo mio di buon Natale, a tutti voi.
È vero, viviamo in un'epoca folle (o forse tutte le epoche lo sono state a modo loro) in cui tutto sembra perdere senso, eppure continuo a credere che l'unica salvezza possibile, se mai ce ne possa essere una, sia quella di tenere in vita, preservare e valorizzare a mo' di testimonianza i piccoli grandi gesti di "bontà illogica" o "bontà spicciola", come li chiama Grossman:
"La gente comune ha nel cuore l'amore per gli esseri viventi, ama la vita e ne ha cura [...]. E dunque oltre al bene grande e minaccioso [quello propugnato dallo Stato e dalle sue istituzioni] esiste la bontà di tutti i giorni. La bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, la bontà del soldato che fa bere dalla sua borraccia un nemico ferito, la bontà della gioventù che ha pietà della vecchiaia, la bontà del contadino che nasconde un vecchio Ebreo nel fienile [...]. È la bontà dell'uomo per l'altro uomo, una bontà senza testimoni, senza grandi teorie. La bontà illogica, potremmo chiamarla [...]. A ben pensarci, però, ci si accorge che la bontà illogica, fortuita del singolo uomo, è eterna. Che si estende a tutto quanto è vivo, al topo o a un ramo che un passante si ferma a sistemare perché possa attecchire meglio al tronco. In quest'epoca tremenda, un'epoca di follie commesse nel nome della gloria di Stati nazioni o del bene universale, e in cui gli uomini non sembrano più uomini ma fremono come rami d'albero e sono come la pietra che frana e trascina con sé le altre pietre riempendo fosse e burroni, in quest'epoca di terrore e di follia insensata, la bontà spicciola, granello radioattivo nella vita, non è scomparsa".

martedì 17 dicembre 2013

Tacchini in fuga (Free Birds) di Jimmy Hayward: l'antispecismo raccontato ai bambini (ma non solo!)


Reggie è un tacchino consapevole del triste destino cui la sua specie è condannata: essere allevati e ingrassati per finire sulle tavole degli umani in occasione delle tante festività, in particolare quella del Ringraziamento. In svariate occasioni prova ad aprire gli occhi ai suoi compagni sulla realtà in cui sono immersi, ma essi preferiscono cullarsi nell’illusione che tutto ciò che li circonda sia buonissimo mais e che quando gli esseri umani vengono a prenderli in ultimo sia per condurli in quel posto magico che è il paradiso dei tacchini.
Dopo l’ennesimo tentativo fallimentare Reggie viene scacciato dal suo gruppo, fino a che, per una serie di coincidenze fortuite, non viene catturato e destinato a essere il tacchino graziato dal Presidente degli Stati Uniti in occasione della festa del Ringraziamento.
Si ritrova così a vivere un’esistenza privilegiata in cui scopre tutti gli agi della specie umana: camere da letto, comodi divani, calde pantofole, televisione e pizza a domicilio.
 
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lunedì 9 dicembre 2013

Ribellione non è rivoluzione




Si potrebbero documentare centinaia di casi di animali che hanno tentato la fuga dagli allevamenti o da altri innumerevoli luoghi di reclusione quali zoo, circhi e quant’altro; così come di eclatanti tentativi di sottrarsi al dominio ribellandosi e aggredendo i loro aguzzini (domatori o addetti ai pasti, agli spostamenti ecc.), talvolta anche ferendoli gravemente e, raramente, provocandone addirittura la morte.
Esiste un saggio, purtroppo non ancora tradotto in italiano, di Jason Hribal, dal titolo “Fear of the animal planet: the hidden history of animal resistance” che raccoglie molti di questi episodi di ribellione, raccontando le varie forme di resistenza e “disobbedienza” che animali reclusi e vessati hanno deliberatamente messo in atto contro chi li schiavizza. Non si tratta di casi isolati e fortuiti, ma di ripetuti e talvolta anche pianificati ed elaborati tentativi di sottrarsi alla condizione di schiavitù in cui sono stati relegati dalla nascita o dopo essere stati catturati in natura.
Da tutti questi esempi se ne evince la piena consapevolezza degli animali di essere stati coercitivamente privati della libertà, così come la capacità di riconoscere nel domatore, allevatore ecc. l’artefice della loro oppressione. Ciò è importante per ribadire che essi non sono passivi al dominio, bensì tentano in ogni modo di ribellarvisi e sottrarvisi. 

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lunedì 2 dicembre 2013

Sono quella che sono (autodedica)

Sono quella che sono.
Un caso inconcepibile
come ogni caso.
In fondo avrei potuto avere
altri antenati,
e così avrei preso il volo
da un altro nido,
così da sotto un altro tronco
sarei strisciata fuori in squame.
Nel guardaroba della natura
c’è un mucchio di costumi:
di ragno, gabbiano, topo campagnolo.
Ognuno calza subito a pennello
e docilmente è indossato
finché non si consuma.
Anch’io non ho scelto,
ma non mi lamento.
Potevo essere qualcuno
molto meno a parte.
Qualcuno d’un formicaio, banco, sciame ronzante,
una scheggia di paesaggio sbattuta dal vento.
Qualcuno molto meno fortunato,
allevato per farne una pelliccia,
per il pranzo della festa,
qualcosa che nuota sotto un vetrino.
Un albero conficcato nella terra,
a cui si avvicina un incendio.
Un filo d’erba calpestato
dal corso di incomprensibili eventi.
Uno nato sotto una cattiva stella,
buona per altri.
E se nella gente destassi spavento,
o solo avversione,
o solo pietà?
Se al mondo fossi venuta
nella tribù sbagliata
e avessi tutte le strade precluse?
La sorte, finora,
mi è stata benigna.
Poteva non essermi dato
Il ricordo dei momenti lieti.
Poteva essermi tolta
L’inclinazione a confrontare.
Potevo essere me stessa – ma senza stupore,
e ciò vorrebbe dire
qualcuno di totalmente diverso.

Wislawa Szymborska

sabato 30 novembre 2013

Allo specchio




"Conosciamo noi stessi solo fin dove
siamo stati messi alla prova.
Ve lo dico
dal mio cuore sconosciuto.
"

(Wislawa Szymborska)

Quanta verità in queste parole. Solo le esperienze della vita ci portano man mano a rivelare a noi stessi chi siamo. Così ci scopriamo spesso più forti e duri di quel che sospettavamo, o, al contrario, più pavidi e fragili.
E mi viene in mente quel capolavoro della letteratura che è Lord Jim di Conrad, dove l'eroe si scopre non abbastanza eroe e lotta per riappacificare quell'ideale del sé tradito dalla bruciante scoperta dei suoi limiti e fallimenti.

giovedì 28 novembre 2013

La liberazione degli animali come atto politico? Conversazione con gli attivisti di Essere Animali sulle strategie dell'azione diretta antispecista ed ecologista radicale

 

Gallinae in Fabula ha il piacere di annunciare un incontro con gli attivisti di Essere Animali, da diversi anni impegnati nella lotta antispecista, attraverso varie forme di impegno che vanno dalla sensibilizzazione tramite azioni dimostrative anche spettacolari, alle investigazioni nei luoghi di reclusione e sfruttamento, alle azioni di liberazione e salvataggio degli schiavi animali.

Nel corso della serata sarà presentata l'ultima investigazione, realizzata negli allevamenti di visoni italiani, e sarà proiettato un nuovo filmato esclusivo proposto per la prima volta al pubblico.

Si parlerà di azione diretta - che dopo i fatti di Green Hill ha visto un'entusiasmante diffusione anche internazionale - per avviare, a partire dalle esperienze dei protagonisti, un proficuo dibattito pubblico sulle varie strategie in campo; e per compiere un'analisi dei contesti e delle diverse finalità che ogni azione si prefigge, cercando di far luce su tutti i punti nodali in vista di una pratica sempre più di massa, incisiva e politicamente efficace:

Come si organizza e pianifica un’investigazione e una liberazione? Cosa cambia se la liberazione è segreta o compiuta alla luce del sole, a volto scoperto? Quali gli obiettivi raggiungibili nell'immediato? Serve "soltanto" a salvare alcune vite individuali, strappandole dall’orrore quotidiano che le opprime, o si inquadra entro un'autentica prospettiva d'azione politica?

A seguire aperitivo cruelty free. 

L'incontro si terrà il 13 dicembre presso la Città dell'Altra Economia, a Roma, alle ore 20,00. Non serve prenotazione.

Vi aspettiamo!

domenica 24 novembre 2013

Quella violenza che non immagineresti mai...



Le varie investigazioni sotto copertura effettuate negli allevamenti ci mostrano che gli episodi di intollerabile violenza nei confronti degli animali sono tutt'altro che rari, anzi, si può dire che in una certa misura essi costituiscano la "normalità".
Non credo tuttavia che abbiamo a che fare con dei sadici o con dei "mostri" ("mostro" è solo un termine che usiamo per tracciare un confine netto tra noi e l'indicibilmente "altro" che commette una violenza che non ci riguarda), bensì con persone che mettono in atto dei precisi meccanismi psicologici di riduzione del vivente a "cosa" perché è solo convincendosi che quegli esseri che stanno "maneggiando" siano oggetti che troveranno il coraggio e la forza di continuare a svolgere quel lavoro. Un lavoro che massacra migliaia di animali non umani e che abbrutisce gli esecutori di tale scempio.
Nel loro infierire contro quei corpi indifesi è evidente la manifestazione di una forma di rabbia e frustrazione interiore che li porta a denigrarli e violentarli sempre di più perché solo denigrando e violentando il vivente lo si riduce a "cosa".

giovedì 21 novembre 2013

La morte in vita

"La violenza che pervade il mondo è una tragica manifestazione della paura, dell'insicurezza strutturale dell'essere e dell'essere in un mondo che è sempre più insicuro e violento.
La circolarità del male come conseguenza del dramma dell'essere senza sapere il perché e senza conoscere il senso della morte, che arriva sempre e sempre troppo presto. Il problema non è quando, ma perché arriva. Maledetta morte e, se la vita è morte, allora perché arriva la maledetta esistenza che è riducibile a coscienza di morte?
"

(Vittorino Andreoli - La quarta sorella)

venerdì 15 novembre 2013

Spigolature (7)


Si può - ed è anzi doveroso farlo - discutere sul sistema che permette e crea professioni come quella del vivisettore, del macellaio ecc., ma rispetto a chi impugna il coltello, mi pare evidente che l'animale ha comunque meno scelta, è comunque il soggetto oppresso per eccellenza, colui che subisce il dominio in assoluto.

È per questo che continuo a pensare che l'oppressione degli animali non umani, per quanto connessa a quella degli animali umani, abbia una sua specificità (nei metodi e culturale, ossia che riguarda la maniera in cui noi comunque culturalmente ci consideriamo al di sopra degli animali non umani) di cui bisogna tener conto.

Siamo tutti oppressi, vero, ma l'animale non umano è soggetto oppresso per eccellenza in quanto non ha possibilità alcuna di ribellarsi al dominio. Quando ci prova (ci sono tanti casi di animali che tentano di fuggire dalle gabbie, di ribellarsi all'aguzzino, vedasi tentativi da parte degli animali nei circhi, negli allevamenti ecc.) il suo rimane comunque un tentativo quasi sempre fallimentare.
Gli animali non impugnano coltelli, né fucili (il che potrebbe essere una parafrasi de "Il maiale non fa la rivoluzione").

venerdì 8 novembre 2013

Una breve riflessione sulla libertà



Ieri A Roma un elefante è riuscito a evadere dalla sua prigione, il circo, riuscendo ad assaporare, seppure brevemente, quel sogno indomito di libertà che si porta dentro da sempre.
Ha un’espressione lieta nelle due foto che circolano in rete, tutto intento a mangiucchiare i ramoscelli di erba selvatica del campo su cui si è messo allegramente a passeggiare, dirigendosi verso il mercato ortofrutticolo del rione di Porta Nona, forse, chissà, attratto dai colori variopinti della frutta di stagione.
Rispetto al povero cucciolo di giraffa Alexandre, anche lui evaso più di un anno fa dalla prigione-circo, e ucciso per una dose letale di sonnifero somministratagli nel tentativo di catturarlo, direi che all’elefante è andata apparentemente meglio, anche se non so quanto si possa considerare “meglio” la prospettiva di trascorrere il resto della sua vita in una prigione, costretto a eseguire umilianti numeri per sollazzare umani con il gusto dell’esercizio del potere sui più deboli e indifesi.
A fronte di tutti questi vari e ripetuti nel tempo tentativi degli animali di scappare dai luoghi della loro prigionia, ne ricavo l’assoluta certezza che essi sappiano bene cosa sia la libertà, pur essendone privati e persino quando nati in cattività: la annusano, la sognano, la cercano, vi aspirano continuamente. Come un desiderio genetico trasmesso di generazione in generazione, come un’impellente necessità etologica, seppure nati schiavi, essi sanno e cercano la loro libertà (che poi non è altro che poter esprimere e portare compimento tutte le loro potenzialità etologiche – fisiche e psicologiche – relative alla specie d’appartenenza).
Noi animali umani invece siamo schiavi dei nostri schemi mentali senza nemmeno rendercene conto, intrappolati in una ragnatela culturale che noi stessi abbiamo intessuto con le nostre mani (diceva Max Weber), eternamente servi di un potere che noi stessi contribuiamo ad alimentare e perpetrare.
Proprio ieri leggevo nelll’ultimo romanzo di Vittorino Andreoli, dal titolo La quarta sorella, una bella discussione proprio sul tema della libertà: una discussione condotta da tre diversi personaggi femminili che a turno enunciano le loro diverse tesi argomentandole ed elaborandole diffusamente.  Se ne evince che una visione distorta del concetto di libertà tende ad assimilare quest’ultima proprio al potere, o, peggio, ad identificarla con esso, in quanto si tende erroneamente a credere che più potere si abbia e più libertà di agire, intesa come una somma di privilegi e di possibilità di accedere a beni illimitati, si conquisti: “Io vedo dappertutto desiderio di potere e leggo questo bisogno come desiderio di libertà o di liberazione da soprusi e da imposizioni, dall’obbligo di obbedire, che invece dovrebbe caratterizzare la voglia di dipendenza. Il dipendente obbedisce, il potente comanda. (…) La storia dell’uomo, mie care sorelle, tende verso la libertà e la motivazione che lo spinge è la conquista del potere, altro che la dipendenza”.

Continua su Gallinae in Fabula.

Qui invece un breve dialogo sempre sul tema della libertà.

sabato 2 novembre 2013

Sulla violenza: facciamo un po' di chiarezza



 (Foto dall'album di EssereAnimali relativo alla recente liberazione a volto scoperto di due maialini)

Molta gente dichiara di amare gli animali.

I cacciatori dicono di amare la natura, anche se scaricano i loro fucili contro qualsiasi cosa si muova.
I bracconieri insistono che anche loro amano gli animali e sostengono che le tagliole che usano non sono troppo dolorose per gli sfortunati animali che vi restano intrappolati.
Persino i vivisettori millantano amore verso gli animali, insistendo che le torture cui sottopongono i nostri fratelli e sorelle sono necessarie per la salute umana.
L'egoismo e l'antropocentrismo delle convinzioni di cacciatori, bracconieri e vivisettori dovrebbe essere evidente anche per le persone che non si interessano di animali.

Ma per i liberatori, la visione di alcuni presunti "amanti degli animali", compresa quella dei membri di organizzazioni "umanitarie", è altrettanto ridicola.

Questi presunti amanti e difensori degli animali, sono degli ipocriti, per come la vedono i liberatori: torturare e uccidere animali nei laboratori è giustificabile, se si tratta di ricerca "necessaria", purché sia fatta in modo compassionevole.
Persino mangiare animali è accettabile, purché siano "macellati in modo umanitario".
Per i liberatori, che vedono gli animali come la propria famiglia, il concetto di "macellazione umanitaria" è un ossimoro, come "intelligence" militare.
I liberatori pensano che uccidere un essere innocente, umano o non umano, che non vuole morire non sia umanitario.


Gli animali non hanno bisogno di un movimento per l'educazione degli umani.
Hanno bisogno di un movimento per la liberazione animale!

Gli animali saranno rispettati o perché la gente li ama, o perché la gente avrà paura di quello che gli potrebbe accadere se non li si tratta con rispetto!
Questa è la regola che i liberatori usano per capire come gli umani trattano gli altri.
Poiché gli animali non possono ribellarsi all'aggressione e allo sfruttamento umano, sta ai liberatori farlo in vece loro.

Ci vuole tempo, per cambiare il nostro pensiero e comprendere quello dei liberatori.

Forse siete abituati a considerare come amici e membri della vostra famiglia soltanto gli esseri umani. Ma guardatevi intorno! Per il liberatore, ogni creatura che cammina, nuota, striscia o vola è una amico e fa parte della famiglia.
Piante, ruscelli, montagne, campi e laghi sono la casa di questa famiglia.
I liberatori trovano lì i propri affetti, tra gli esseri che considerano la propria famiglia.
"

(Screaming Wolf - Dichiarazione di guerra.)


La dichiarazione di cui sopra, molto diffusa tra gli animalisti, proviene da un testo anonimo pubblicato nel 1991 negli USA.
Chiunque si attivi per la liberazione animale dovrà prima o poi fare i conti con il complesso e dibattuto tema della violenza e ritengo che se ne dovrebbe parlare e discutere in maniera serena, senza pregiudizi o timori di sorta. Mi rendo altresì conto che formulare un’etica assolutista in questo senso è assai difficile poiché contesti e situazioni diverse richiedono talvolta soluzioni e approcci diversi.
Purtuttavia, sostengo, senza indugio alcuno, che noi attivisti dovremmo usare sempre e solo i metodi nonviolenti e della disobbedienza civile; nonviolenti - aggettivo che comprimo in un unico termine in quanto quello della “nonviolenza” è un concetto ben definito che racchiude una molteplicità di mezzi e contempla vere e proprie azioni strategiche: metodo che è stato dettagliatamente teorizzato, elaborato e messo in pratica da Gandhi – a sua volta ispirato dalle riflessioni contenute nel breve, ma denso saggio di Thoreau dal titolo “La disobbedienza civile” - ben distinto dal “pacifismo” in quanto la “nonviolenza” non indica appunto passività, bensì l’azione vera e propria, sebbene condotta senza ausilio di armi tradizionali, ma con l’esortazione a fare del proprio stesso corpo un’inedita arma di resistenza contro il potere e le ingiustizie sociali. 

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lunedì 28 ottobre 2013

Lottare contro il complesso d'inferiorità delle battaglie animaliste


Prima di pensare agli animali, pensiamo ai bambini che muoiono di fame.        Con tutti i problemi che ci sono nel mondo, ti vai a preoccupare di salvare uno scarafaggio?  
C’è la crisi, la gente non riesce ad arrivare a fine mese e voi pensate ai crostacei vivi sul ghiaccio?

Quante volte ci siamo sentiti rivolgere queste indisponenti domande? Tante, praticamente sempre.
Di recente è stato coniato un neologismo che va sotto il nome di “benaltrismo” e che sta ad indicare proprio il tentativo di depotenziare alcune problematiche invocando l’attenzione per altre che sarebbero ben più cogenti e urgenti.
Si tratta in realtà di una non argomentazione, alla quale tuttavia ci sentiamo chiamati a rispondere. Attaccati in questa maniera, messi all’angolo, ci troviamo a dover replicare in difesa, quasi a doverci giustificare, ricorrendo talvolta ai cosiddetti argomenti indiretti per nobilitare il tutto, come se inconsciamente soffrissimo di una sorta di complesso d’inferiorità relativo alla nostra battaglia, tale da richiedere a sostegno della sua rivendicazione tutta una serie di motivazioni aggiuntive e correlate.
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giovedì 24 ottobre 2013

Della vita e della morte

"La levatrice Elide gli aveva dato dieci lire per i giaggioli e poi altre dieci per farle vedere la pelata - lei era già tormentata dalla calvizie per conto suo e aveva un diritto naturale a vedere lo scempio fatto dalla tosatura e anche a sapere della faccenda della gatta e dei mici che non erano usciti.
"Per non farli morire bisognerebbe non farli mai nascere. Eh, le femmine! Altro che dare la vita! Una gatta fortunata!" buttò lì. La Elide non era mai stata simpatica a nessuno in frazione, ma era la sola levatrice e era brava per essere una che non aveva mai partorito. Barbino non si dimenticò mai più di quelle frasi, che presero a girargli per la testolina anche per molto tempo dopo che era stata risarcita dei suoi riccioli. Della gatta, dunque, non c'era più traccia, ma restavano i richiami fra la cosa e la cosa pensata, le dipendenze a distanza fra cose diverse troppo vicine, le confuse relazioni fra le parole dette e quelle taciute, la levatrice... non la Elide di Vighizzolo, la levatrice Conti di Montichiari... che l'aveva tirato fuori da sua madre - suo padre non aveva nemmeno voluto vedere il figlio, tanta era la delusione che fosse un altro maschio, una futura filandera con la paga fissa non gli sarebbe dispiaciuta - la levatrice che ora, con quelle frasi, sembrava stesse già parlando a uno che era morto o a uno di quei mici che non erano mai riusciti a far breccia da quel grembo. E che parte assegnare agli insetti che a loro volta di quella carogna si nutrivano, liberi e ignari, leggiadri? E la femmina, l'animale femmina che faceva nascere e faceva morire altri animali, attorno al quale girava tutto il mondo di chi c'è e non c'è più... E l'animale gatto maschio, che non era stato lì, con la gatta, morta da sola? L'animale maschio che è sempre assente da casa e che arriva solo per amministrare la giustizia del più forte, per punire, picchiare e, prima di scomparire daccapo, chiudere col catenaccio la porta dietro la quale aspetta la femmina-madre e insieme a fare quell'acre puzzetta notturna che la mattina strisciava sotto la porta e invadeva le delicate e onnivore narici di Barbino...
Ma tutto ciò dileguò presto dalle sensazioni di Barbino; ciò che rimase fu un'intuizione meravigliosa e definitiva: che quella gatta trasportata dalla corrente era stata fortunata poiché lui l'aveva scorta e guardata, perché lui l'aveva rimessa dentro al suo chiuso, al sicuro. Perché lui l'aveva non solo sentita ma pensata. Non solo vista e guardata, ma immaginata. Condivisa condividendosi. Fatta vivere di più. Viveva di più anche lui!
E adesso poteva come "riscattarla dal destino", vita, ruolo, morte e oblio di ogni apparizione umana in giro: ricordare la gatta per un po'. Lui poteva farla - sì - vivere oltre la sua carcassa e le acque che l'avevano portata via, per un po'. Mise il tempo alle strette, eppure lo dilatò.
"Per un po'" si disse a voce alta, e diventò il suo per sempre."

(Aldo Busi - Seminario sulla gioventù)

venerdì 18 ottobre 2013

Gallinae in Fabula



 “Se sei un uomo libero,
allora sei pronto a metterti in cammino
"
(H. D. Thoreau)


Ho il piacere di annunciarvi la nascita di un nuovo blog collettivo animalista/antispecista, di cui la sottoscritta, orgogliosamente, fa parte, insieme ad altre care persone. 

Se vi fa piacere, seguiteci e dateci una mano a diffonderlo. 
Ma vediamo un po' più da vicino di cosa ci occuperemo:

Cosa.
“Gallinae in fabula” è un progetto intellettuale animalista finalizzato alla divulgazione dell’antispecismo, e dei suoi principi, nelle società contemporanee. Riconoscendosi, ovviamente, nel rifiuto di ogni discriminazione nei confronti del vivente, e assumendo l’antiautoritarismo tra i suoi valori di base, il progetto ha tuttavia come finalità primaria la problematizzazione della liberazione animale e degli strumenti pratici atti a raggiungerla, per restituire agli animali il ruolo essenziale e centrale che spetta loro, ma che è stato troppo spesso confinato dalle attuali filosofie e teorie antispeciste.
“Gallinae in fabula” nasce dal desiderio di far dialogare, attraverso la costruzione di una teoria/prassi volta a ridisegnare una coesione interna nel movimento italiano, le diverse realtà/associazioni/coordinamenti, affinché l’obiettivo comune di liberazione animale (dove per animali, ovviamente, si intendono anche gli animali umani) possa essere perseguito a partire da strategie e sinergie che inquadrino i nuclei e principi comuni della costellazione di identità che condividono lo stesso obiettivo.
L’idea guida è che animalismo e antispecismo coincidano: inoltre, anti-specismo, come termine “negativo” (opposizione a qualcosa), è auspicabilmente una parola da superare in favore di “animalismo” (‘essere’ è essere per la vita di ogni animale) e delle sue connotazioni positive spesso coscientemente ignorate, o falsamente interpretate.

Contesto.

Negli ultimi anni, in Italia, il dibattito sull’attivismo e la filosofia animalista ha goduto di grande fermento. Scopo del progetto, complice la partecipazione di alcuni esponenti di tale dibattito, è lavorare ad un antispecismo (chiamato classicamente “morale” o, più recentemente, “debole”) che articoli le sue principali istanze intorno alle strategie immediate e future per la liberazione animale, una nuova concezione dell’animalità e un ripensato rapporto con gli animali non umani. Per questo, i principali progetti e punti su cui “Gallinae in fabula” si articola sono:

Il dialogo tra diverse associazioni e realtà animaliste e antispeciste volto all’individuazione di strategie comuni per la liberazione animale;
La problematizzazione della nozione di “animalità”;
Una nuova concezione degli studi di animal cognition volti alla “rottura” definitiva del falso confine “umano/altri animali”;
La promozione di incontri, eventi, manifestazioni di dialogo trasversale finalizzate alla divulgazione del pensiero animalista e antispecista;
La collaborazione con diverse associazioni, centri culturali, università e media volta alla diffusione delle ricerche teoriche sull’antispecismo e alle rispettive ricadute pratiche e politiche;
La divulgazione di pubblicazioni, articoli e libri finalizzati a far progredire le ricerche antispeciste, dai loro aspetti filosofici, psicologici e politici, fino a quelli antropologici, letterari e sociologici;
La ricerca del dialogo tra il movimento di liberazione animale italiano e le diverse realtà internazionali.


Chi siamo.

Pur riconoscendosi in una determinata visione dell’antispecismo, come teoria e prassi che deve conferire priorità assoluta alla liberazione animale, la redazione del blog – orizzontale e privo di gerarchie interne – si propone di far dialogare le diverse posizioni che lo compongono attraverso uno scambio civile che sappia stimolare negoziati concettuali tra diversi modi di intendere l’antispecismo o l’animalismo, anche, e soprattutto, dando vita ad un autentico, e ormai necessario, confronto tra lo specismo, e le sue istituzioni, e i movimenti rivoluzionari che ne rivendicano il superamento.

Perché.

Il progetto si chiama “Gallinae in fabula” perché crediamo che per liberare gli animali sia necessario anche riscattarli da tutti quei pregiudizi popolari che li vorrebbero stupidi, sporchi, aggressivi, o connotati di altri attributi negativi atti a caricaturizzarli e denigrarli senza scampo. La cultura del dominio si può e si deve cambiare anche attraverso il linguaggio, scardinando quei luoghi comuni e modi di dire attraverso cui, nel tempo, si è consolidata un’idea falsa, riduttiva e mistificatoria della reale natura dei soggetti oppressi. Le galline da sempre sono considerate stupide e inutilmente ciarliere, tanto che si ricorre a loro come metro di paragone ogni qualvolta si vuole sminuire o offendere l’intelligenza di una donna. Sono inoltre tra gli animali più sfruttati per fini alimentari, costrette a trascorrere la loro (non)esistenza in gabbiette talmente minuscole dove a malapena riescono a respirare. Ci è piaciuto poi giocare con la nota locuzione “lupus in fabula”, sostituendovi le galline per un rovesciamento semantico teso a riscattarle una volte per tutte dal falso mito che le condanna ad una perenne marginalità ed irrilevanza. Almeno la nostra vorremmo che fosse una favola a lieto fine, dove lupo e galline corrono insieme verso la libertà.
“Gallinae in fabula”, infine, perché noi della redazione, donne e non, siamo orgogliose e orgogliosi di prendere il nome comune di un animale, per la convinzione che solo capendo che la nostra natura e forma, ovvero i nostri corpi, sono intrecciati da un unico destino con gli “altri” animali, sia davvero possibile intraprendere quel percorso che chiamiamo “liberazione animale”.
La liberazione animale è, del resto, innanzitutto liberazione dell’animalità dell’umano: ritrovandoci animali che dunque siamo, ovvero facendo tutto nella prospettiva degli animali oppressi, e specchiandoci nella loro oppressione, la liberazione diverrà una rivoluzione necessaria, urgente, e concretamente realizzabile."

Per i progetti, articoli (presto ne pubblicheremo di nuovi) e quant'altro ci riguarderà potrete consultare direttamente il sito all'indirizzo: 

(Loghi e grafica sono di Michael Dall)

mercoledì 16 ottobre 2013

Caro Jonathan Coe, non mi freghi più!

Non so quanto vi interessi, ma sono arrivata alla conclusione che Jonathan Coe sia uno scrittore un po' sopravvalutato o quanto meno in discesa libera ormai da qualche anno.
"La famiglia Winshaw" mi era piaciuto tanto, e così anche "La banda dei brocchi" e "La casa del sonno", ma mi pare che poi sia andato avanti a forza di rendita, confidando su lettori ormai fedeli (tipo me), ma senza sapersi rinnovare o evolvere. Sa tutto di già visto, sentito, stantio, come se ricorresse a una formula di scrittura ormai inflazionata e svuotata della sua originaria energia.

Trovo che il suo principale punto di forza - creazione di personaggi e situazioni al limite tra l'ironia e il grottesco su sfondo storico-politico - negli ultimi lavori sia diventato anche il suo principale difetto. I protagonisti mancano di spessore, di credibilità, sembrano figurine di cartone; la spinta verso il grottesco è talmente eccessiva da sforare nella caricatura e l'ambientazione storico-politica appena accennata. Atmosfere poco caratterizzate.

Inoltre in quest'ultimo romanzo, "Expo 58", si affida alla formula collaudata di spy-story con annessa storia d'amore.
Peccato che già un anno fa McEwan, suo connazionale, aveva fatto la stessa cosa con Miele, ma con risultati di gran lunga migliori, anzi direi che non si possono proprio paragonare.
In "Expo 58" ci sono passaggi interessanti, ad esempio eccellente la descrizione di un poema sinfonico suonato a un concerto, narrato talmente bene da sembrare di udire le note musicali, ma il resto, stati d'animo, descrizioni di ambienti ecc. non riescono a imprimersi visivamente. 
La storia è debole, gli eventi si susseguono con un certo automatismo, la frase più degna di nota che ho trovato è questa: "Inoltre, talvolta non conosciamo fino in fondo la nostra natura. Non sappiamo bene chi siamo, finché non sopravviene una nuova circostanza a rivelarcela". Ecco... rendiamoci conto del livello.

Si tratta di una commedia, sì, per carità, ma superficialità e leggerezza non sono proprio la stessa cosa.
 
Devo ancora finire di leggerlo, mi mancano una cinquantina di pagine, dubito tuttavia di avere qualche sorpresa positiva che mi faccia cambiare idea. In tal caso, vi farò sapere.

Come per il precedente, "I segreti di Maxwell Sim" - il romanzo con il finale più abborracciato e improvvisato del secolo, della serie: non so come farlo finire e quindi ricorro all'ormai vecchio stra-abusato cliché metanarrativo del protagonista che è solo un personaggio fittizio uscito dalla penna di uno scrittore che a un certo punto si stanca di scrivere, o non vuole più scrivere o comunque sia non sa più cosa inventarsi perché tanto la vita continua e nessuna storia mai finisce bla bla bla bla - ho la netta sensazione di aver buttato i miei soldi. Triste perché mai di nessun libro vorrei dire di aver sprecato denaro.

venerdì 11 ottobre 2013

Visioni grottesche





Ieri sera sono stata a un evento culturale (presentazione nuova corrente pittorica denominata "effettismo"), ha parlato questo pittore molto bravo, il quale ha anche presentato un suo libro, un manuale di pittura rivolto ai principianti e poi a seguire un critico d'arte. Sono stati mostrati e "raccontati" alcuni dipinti appartenenti a questa corrente. Tutto molto interessante.
Alla fine, com'è sempre solitamente in questi eventi, è stato offerto un buffet.
Mi sono avvicinata timidamente già sapendo che al massimo avrei potuto mangiare qualche olivetta e infatti non mi sbagliavo: era tutto un tripudio di tramezzini e panini al prosciutto, salame, formaggio, maionese, gamberetti, salmone, mortadella e altri tipi di carne e derivati.
Mi sono messa da una parte a osservare tutte queste persone sensibili all'arte che si riempivano la bocca di parole come luce, colori, natura, chiaro-scuri, pennellate, emozioni, sentimenti, stati d'animo e poi al contempo di pezzi di cadaveri.
Le bocche spalancate, la frenesia del riempiersi il piatto, le spintonate e gomitate per accaparrarsi l'ultima pizzetta.
Più osservavo e più vedevo queste bocche spalancarsi e distorcersi in un ghigno grottesco mentre il suono delle parole appariva sempre più sovrastato da un incessante lavorìo delle mascelle simile al suono di una macina tritatutto.
Signore vestite bon ton – tic tac tic tac dei tacchi a spillo sul parquet - e signori in giacca e cravatta che fingevano di interessarsi ai dipinti – “il vino bianco non è male, hai provato il cornetto salato al prosciutto? Hmmmm, delizioso, dolcissimo, si scioglie in bocca” – l’ennesima finzione borghese che va in scena.

È in momenti come questi – in cui la vita mi appare nel pieno della sua falsità e illusorietà - che penso che l’antispecismo sia solo un’utopia e che alla fine l’unica cosa reale, vera, concreta che conti sia salvare più vite possibili.
Ma... salvate da cosa se poi si deve comunque morire?
Salvate da noi, stolti appartenenti alla specie umana che osiamo ostentare in maniera così tronfia la nostra presunta superiorità mentale e morale solo perché, con un pennello in mano, siamo capaci di riprodurre l’ombra di un pino in un viale assolato, eppure sordi al lamento di chi da quell’ombra sotto cui stava placidamente avvoltolandosi è stato brutalmente strappato.
Incapaci di vivere la placida beatitudine dei sensi, cerchiamo di riprodurre gli stessi “effetti” della natura, quando basterebbe semplicemente imparare a contemplare.
No, no, a noi non basta contemplare, osservare, fare il pieno di bellezza, noi dobbiamo possedere, bramare, distruggere e poi, incapaci di cogliere e apprezzare il vero, imitare, riprodurre, recitare. 

Ci crediamo elevati di spirito perché traiamo piacere dall'arte, ma disconosciamo la vera bellezza tentando volgarmente di riprodurla. 

A proposito di bellezza... c'è una frase nel film La Grande Bellezza di Sorrentino che mi ha molto colpito, semplice, ma vera: "la povertà non si racconta. Si vive".
La stessa riflessione può essere applicata alla vita, all'amore, all'arte. La vita non si racconta, ma si vive. L'amore non si racconta, ma si vive. L'arte non si racconta, ma si vive e così via. 

Eppure la nostra specie non fa che raccontarsi, autorappresentarsi, glorificarsi e innalzarsi. 

E invece non ci resta che sprofondare davanti agli occhi del cucciolo che con stupore, di fronte alla mannaia alzata su di lui, si domanda: perché?

mercoledì 9 ottobre 2013

A proposito del Decameron tradotto da Busi: una riflessione sulla traduzione





L’altro giorno ho letto che Aldo Busi ha tradotto il Decameron.
Tradotto, esattamente, dall’italiano all’italiano; o meglio, dall’italiano trecentesco, a quello attuale.

Beh, io ne sono felice e non vedo l’ora di ri-leggerlo.
Intervistato a proposito dell’opportunità o meno di riportare in un italiano più attuale i classici della letteratura, ha detto alcune cose che fanno molto riflettere (ne riporto più o meno il senso, non ho l’intervista sotto mano): i lettori coevi a Boccaccio ridevano a crepapelle quando leggevano le novelle contenute nel Decameron; non era un testo aulico, era un testo che ebbe una diffusione enorme tra il popolo, tanto che molte novelle furono rimaneggiate ed entrarono nell’immaginario popolare in diverse versioni; i lettori di oggi, posti di fronte al testo trecentesco, si annoiano, faticano, arrancano, non riescono a seguire la sintassi, non conoscono il significato di buona parte delle parole. Tanto che ormai è uno di questi testi che si studia solo all’università o che al massimo leggono gli appassionati, studiosi e ricercatori di letteratura. 

È un vero peccato che opere così immense non siano lette invece anche da chi legge solo per svago o per ingannare il tempo sull’autobus. Costoro potrebbero ricavarne un gran diletto e invece, per via della difficoltà del testo, rinunciano in partenza. E come dargli torto?
Io sono anni che mi riprometto di rileggere La Divina Commedia, ma dopo poche pagine, a forza di seguire le note, mi viene un gran mal di testa. L’ho studiata a suo tempo, così come il Decameron, per carità, si tratta di opere immense, ma che certamente non si leggono per svago, anzi, richiedono impegno e pazienza. Capisco la necessità di impegnarsi un minimo, ma se questo dovesse scoraggiare l'eventuale lettore, al punto da farlo demordere, chi ne perde è l'opera stessa, che non sarà mai letta.
Un buon romanzo - o novelle che siano - non deve annoiare. Mai. E Il Decameron, così come fu scritto all’epoca, annoia. Fidatevi.

Busi ha ragione. Non si tratta di essere ignoranti o meno, la lingua del Decameron oggi non è più parlata, di conseguenza ha bisogno di una traduzione.

Certamente l’opera di Boccaccio è un testo complesso che ha un suo valore proprio anche solo a livello formale, presenta sfumature e precisi registri linguistici scelti intenzionalmente a seconda del personaggio che si esprime. Se protagonista è un popolano, parla come tale e usa determinate espressioni popolari, se è un nobile anche il linguaggio si adegua e così via.
Sono consapevole, così come certamente lo è stato Busi, che una buona traduzione deve essere in grado di restituire tutti i registri linguistici, senza perdere la varietà lessicale, di stile, di sintassi ecc. delle novelle.
Ma questo più o meno è il compito di ogni traduttore.
In pratica non vedo perché debba essere considerato scandoloso tradurre dall’italiano all’italiano, quando riteniamo invece utile tradurre da una lingua straniera alla nostra.

Le lingue si evolvono, altrimenti oggi parleremmo ancora in volgare e scriveremmo in latino. Così come non riusciremmo a interpretare un testo latino (a meno che non abbiamo studiato latino) e quindi leggiamo gli autori classici in traduzione – e lo stesso per quegli autori stranieri come Shakespeare, Chaucer ecc. – non vedo cosa ci sia di male nel leggere una trasposizione più moderna del Decameron o anche della Divina Commedia.

Vero che ci sono le note sotto, ma andiamo, le note rendono la lettura faticosa, fanno perdere il ritmo (senza contare che sono scritte sempre in caratteri minuscoli, difficili proprio da decifrare, almeno per chi, come me, comincia ad accusare qualche problemino alla vista).

I puristi della lingua italiana (e io mi considero, guarda un po’, abbastanza una purista) storcono il naso perché dicono che ogni traduzione è un tradimento. Certo, lo sappiamo, questa diatriba tra traduzione sì e traduzione no è vecchissima e sono abbastanza d’accordo nel leggere, quando possibile, i testi in lingua originale, ma sfido qualsivoglia conoscitore della lingua inglese a leggere Shakespeare in originale senza dover ricorrere alle note.

Voglio dire, pur conoscendo approfonditamente una lingua – e noi lettori italiani dovremmo almeno conoscere la nostra – è sempre quella attuale che si usa, parla e legge, non quella del passato.
E, tra un lettore annoiato e appesantito dal Decameron in originale che lo mette via dopo tre pagine e un lettore che lo legge tradotto, ma appassionandosi pagina dopo pagina, ridendo e gustandone ogni tratto, sicuramente penso che Boccaccio stesso preferirebbe il secondo.

Meglio leggerla un’opera, anche se tradotta, piuttosto che non leggerla per niente.

Lo stesso Busi ad esempio riconosce che anche il suo romanzo d’esordio, Seminario sulla Gioventù, pubblicato nel 1984, necessiterebbe di una revisione perché oggi parliamo una lingua ancora diverse; certe espressioni e termini in voga negli anni ottanta, oggi sono ormai dimenticati, desueti e sicuramente tolgono freschezza al testo.

Credo che un buon traduttore dovrebbe fare dei distinguo tra termini obsoleti perché indicanti oggetti, fenomeni, condizioni, mode o comportamenti ecc. che proprio non esistono più (penso a mangianastri, giradischi ecc.), i quali ovviamente devono essere necessariamente lasciati invariati in quanto testimoni del passato, e quelli che invece si riferiscono a oggetti o fenomeni ancora attuali che però oggi vengono denominati in un altro modo; in questo secondo caso, è bene cambiarli, rinnovarli, riportando quelli attuali.

Ciò che importa è non tradire lo spirito e il senso profondo di un’opera.

Tornando al Decameron, lo spirito era goliardico ed è bene che riesca a far ridere ancora oggi; in quanto al fine, la raccolta di novelle aveva un valore certamente apotropaico e al contempo mirava a rifondare una società cavalleresca, in opposizione a quella mercantile che Boccaccio vedeva come fonte di ogni male (ricordiamo che la peste pare che si diffuse proprio attraverso una nave mercantile che sbarcò a Genova e che portò con sé topi che diffusero il contagio attraverso le pulci). Il commercio quindi è associato alla peste, la cui corruzione delle carni metaforicamente rappresenta la corruzione del genere umano nella società dei mercanti.

Diciamo che oggi il senso potrebbe essere quello di tentare di rifondare una società basata sui valori della solidarietà e dell’empatia, di contro a quella attuale che vede nel capitalismo, nel consumismo, nella logica della sopraffazione e del dominio i suoi fondamenti.
Un’opera si può definire classica quando rimane attualissima nonostante parli di fenomeni legati a un’altra epoca, ossia quando è facile ravvisare analogie tra il passato che si racconta e il presente che si vive; quel che una buona traduzione dovrebbe saper fare è proprio restituirne lo spirito originario in maniera tale da non perderne il valore ancora attuale.

Penso che il lettore di oggi abbia tutto da guadagnare da una buona traduzione di alcuni classici scritti in una lingua ormai di difficile comprensione, anche se sempre di italiano stiamo parlando. Per questo, personalmente, ho ben accolto l'operazione di traduzione di Busi.

E voi che ne pensate? Decameron tradotto oppure no?