Pubblicato anche su Asinus Novus.
Ieri ho partecipato ad un incontro tra
gli attivisti di Roma e dintorni, sia singoli che appartenenti a varie
associazioni. Un incontro organizzato da Grazia Mordenti, che
sentitamente ringrazio, la quale ha avvertito l’esigenza di fare alcuni
chiarimenti, nonché il punto della situazione, dopo i recenti fatti
avvenuti a Correzzana durante la manifestazione contro la Harlan (su
cui, peraltro, continuano ad esserci pareri discordanti perché non si è
capito bene quali fossero le cause che hanno generato gli effetti resi
noti e sulle quali, non essendo stata presente, non posso pronunciarmi).
La questione che è stata urgentemente posta ieri però mi è sembrata
sostanzialmente ridursi ad una e questo mi ha lasciato un po’ l’amaro in
bocca perché mi ha dato l’impressione che, per quanto tutti i
partecipanti siano mossi da un sincero entusiasmo e volontà di
realizzare qualcosa di davvero significativo per la liberazione, ci sia
carenza di preparazione teorica e di consapevolezza in merito agli
obiettivi a lungo termine. E questo, secondo me, è gravissimo. Non si
può fare attivismo cieco perché sarebbe come menare le mani senza sapere
cosa si sta colpendo. E non basta dire che si è tutti impegnati per la
liberazione animale se prima non si capisce in cosa consista questa
liberazione. Prego chi legge di proseguire oltre senza darmi della
supponente in maniera affrettata: io sono con tutti voi, io sono con
chiunque voglia liberare gli animali umani e non umani dalle strutture
del dominio, ma ieri si sono evidenziati alcuni errori troppo grossolani
che mi preme mettere in luce, non già per criticare e basta (ché io non
sono nessuno e non sono portatrice di nessuna verità), ma per costruire
insieme qualcosa di significativamente solido e duraturo nel tempo ed
anche per riportare comunque umilmente le mie impressioni.
Qualcosa che davvero possa proseguire nel segno di una società nuova,
finalmente liberata e quindi libera, e non che sia soltanto il far
chiudere un singolo allevamento per mere questioni amministrative (com’è
stato per Green Hill).
Come prima cosa ieri, sempre facendo
riferimento a quanto avvenuto a Correzzana il 20 ottobre scorso, la
maggioranza dei presenti si è dichiarata unanime nell’accogliere nella
galassia attivismo (più che mai variegata ed ognuna con precise modalità
di strategie) qualsiasi persona manifesti una seppure minima
sensibilità animalista, senza tener conto dell’appartenenza politica. Si
è ridotta insomma, a mio avviso abbastanza gravemente, la questione
dell’antispecismo politico, ad una mera questione di tesseramento
partitico. E, cosa ancor più grave, si è parlato di fascismo solo
connotandolo come quella ideologia mussoliniana di cui, purtroppo, la
storia del nostro paese (e non solo) è stata protagonista. Non è così.
Il fascismo non è stato solo un limitato e triste periodo della nostra
Storia, bensì è qualcosa che perdura ancora oggi nella sua estensione
del termine ogni qual volta si attuano i dispositivi di dominio ed
oppressione dell’altro. Persino i più aggiornati dizionari oggi
riportano il doppio significato del termine “fascismo”. Quindi, fascista
non è di default chi è iscritto alla destra piuttosto che alla
sinistra, bensì colui che riproduce e conferma determinati meccanismi di
dominio, quale sia lo schieramento politico cui appartiene. Fascista è
chi a casa, nel privato, tiranneggia la propria compagna o compagno
(ché il fascismo non è solo di segno maschile, pure se spesso coincide
con il fallocentrismo e maschilismo), chi mostra o mette in atto
atteggiamenti e comportamenti razzisti viziati dal pregiudizio, chi
riconosce un principio di autorità superiore, chi nei fatti si appella
appunto ad un certo autoritarismo per far valere il proprio potere e
dominio. Inoltre, la politica non è solo una questione di tesseramento
partitico, ma è l’agire in società, è qualsiasi azione sia volta ad un
cambiamento dell’assetto sociale o intenda anche metterlo solo in
discussione. Criticare l’assetto vigente è già fare politica. Il pensare
è un atto politico. Il parlare e lo scrivere sono atti politici (per
questo i regimi totalitari vietano persino l’esprimere pareri
discordanti e mettono in atto una propaganda per dirottare ed incanalare
il pensiero, indebolendone o soffocandone del tutto quella capacità
volta ad un’elaborazione critica). Quindi, dispiace sentir dire che
l’attivismo non debba essere politico o debba superare la politica,
perché l’attivismo è per sua natura esso stesso politico.
Chiarito questo primo punto, mi preme
definirne un altro, ossia cosa si debba intendere per liberazione
animale e per antispecismo. Mi pare che ieri si sia fatta una certa
fatica a comunicare proprio perché non è stata stabilita inizialmente
una chiarezza terminologica, essenziale invece quando si comunica,
altrimenti se io dico “frutto” intendendo “mela”, mentre l’altro intende
“pera” è ovvio che non ci si potrà mai comprendere. Solo una ragazza ad
un certo punto (non ricordo il nome) ha sollecitato di far chiarezza su
questo punto, ma mi è parso che tutti avessero troppa ansia di
concentrarsi solo sull’attivismo pratico, intendendolo come
completamente avulso da qualsivoglia teoria a monte (altro errore, ma ci
arriverò dopo). Per capire meglio cosa significa liberazione animale
(sia dell’animale umano, che non umano, ed è così che io la intendo,
chiariamolo definitivamente una volta per tutte) bisogna compiere lo
sforzo di immaginarsi una rivoluzione culturale davvero di proporzioni
statrosferiche, forse davvero superiore a quella copernicana. Secondo me
non abbiamo nemmeno ancora veramente l’idea di cosa significhi, non più
di quanto un uomo del 1700 avrebbe potuto immaginare la nostra attuale
società digitale. Eppure stiamo lavorando per questo. L’antispecismo,
ossia quella teoria e prassi che si propone di abbattere lo specismo,
intende proprio, come obiettivo ultimo, a lungo termine, realizzare una
società in cui parole come dominio, oppressione, sfruttamento,
schiavitù, discriminazione, sessismo, omofobia, razzismo, fascismo
quindi nel suo senso più ampio, non significhino più nulla, se non il
racconto residuale di qualcosa avvenuto tanto tempo fa ed ora
completamente spazzato via. Non ha senso, in questa nuova società
definirsi di destra o di sinistra semplicemente perché ormai termini
inadeguati ed astorici nel rappresentare il nuovo stato di cose. Per
combattere l’attuale specismo/antropocentrismo (termine in chi racchiudo
tutto ciò che ho espresso sopra, quindi lo sfruttamento come prassi, il
dominio, l’oppressione, la concezione di una società del potere
distribuito piramidalmente – metaforicamente e magnificamente
rappresentato attraverso l’immagine del famoso grattacielo di
Horkheimer) bisogna aver ben chiari in mente quali siano i nostri
obiettivi finali quindi, ossia quelli che porteranno alla decostruzione
di quella prassi che si è andata strutturando nei secoli e che ha
attraversato – cambiando nei modi, ma mai nella sostanza – più o meno
tutti i sistemi societari che si sono succeduti nella storia. Se non si
comprendono le cause che hanno portato all’attuale sistema (frutto o
risultante anche collaterale degli altri che lo hanno preceduto), non si
riuscirà nemmeno ad intravedere l’orizzonte verso cui tutti miriamo, se
non in maniera molto vaga ed aleatoria. Come se ci si incamminasse
lungo un sentiero senza aver chiara la destinazione finale. Ho avuto
l’impressione che la maggior parte dei presenti ieri non avesse ben
chiaro in mente cosa sia lo specismo in quanto effetto dei dispositivi
di dominio antropocentrici che via via si sono andati strutturando nella
storia; così come è emersa l’idea abbastanza diffusa che il sistema sia
la semplice somma degli individui. Ora io nei giorni scorso ho scritto
proprio un articolo in cui spiego che responsabile del sistema è anche
il singolo, ma non in maniera automatica come si potrebbe
tendenzialmente credere, essendo le dinamiche del dominio qualcosa di
infinitamente più complesso del semplice atto dell’acquistare o meno il
prodotto di una determinata azienda o multinazionale. Il singolo è
responsabile, sì, ma non è la causa dello specismo, è uno dei suoi
effetti (e per questo io insisto sul recupero della parola etica e sul
percorrimento di un’evoluzione anche etica dell’umanità, diciamo
parallelamente ad altre strategie; sia chiaro che io non considero lo
specismo come frutto di un pregiudizio morale, ma ritengo che ci si
possa appellare anche alla morale e consapevolezza del singolo per
smantellarlo e per questo responsabilizzare il singolo, ossia renderlo
consapevole, fargli comprendere l’interazione complessa del tutto – e
non colpevolizzarlo o aggredirlo – , ritengo possa essere una strada da
percorrere, quanto meno non dannosa). Le forme di dominio ed
oppressione, paradossalmente, se pure si abolissero i macelli e gli
allevamenti, potrebbero continuare in altre e ben più sottili forme.
Faccio un esempio assai banale, ma utile a comprendere cosa sto dicendo:
in tutta sincerità noi possiamo dire che l’abolizionismo abbia
definitivamente spazzato via la schiavità umana? Provate a rispondere.
Certo, non esistono più gli schiavi con la catena al piede, non esiste
più il commercio dei singoli africani venduti all’uomo bianco come
merce, ma la schiavitù è ben lungi dall’essere scomparsa: essa è
presente in forme assai più subdole e sottili; essa è presente fra gli
operai degli stabilimenti in Cina costretti a lavorare 12 ore al giorno
per una paga da fame; essa è presente fra i ragazzi sfruttati nei
call-center per una paga irrisoria e senza garanzie a lungo termine;
essa è presente intimamente in tutti coloro che si convincono che si
debba accettare di essere sottopagati e sfruttati (magari lavorando
anche gratis) perché è “meglio di niente”. Il lavoro è schiavitù. E
quando parlo di lavoro non mi riferisco certo alle nobili attività,
teoriche e pratiche, che l’essere umano è in grado di svolgere, bensì al
circolo dei bisogni indotti artificialmente ed artificiosamente dal
sistema per costringere il singolo a vivere per produrre e consumare.
Questa è schiavitù. Ed il fine ultimo che si pone la liberazione animale
è quello di eliminarla una volte per tutte. Vivere per lavorare facendo
del denaro il metro di tutto è schiavitù. Ed accettare questo come se
fosse un dato di fatto inoppugnabile è schiavitù mentale, ancor peggiore
di quella materiale perché impedisce di immaginare uno stato di cose
diverso, perché induce il singolo alla rassegnazione rendendolo incapace
di intravedere una via di fuga.
Premesso quanto sopra detto, se c’è da
andare a liberare un cane rinchiuso dentro una struttura, a me non
importa se insieme a me viene il ragazzo con la tessera di Casa Pound o
quello appena uscito da un centro sociale perché in quel preciso
contestuale contingente obiettivo conta di portare a termine ciò che ci
si è prefissi come scopo immediato (aprire la singola gabbia), ma che
non ci si dimentichi che la liberazione animale è ben altro e che
liberare i cani, ma inneggiare contro l’immigrato o i Rom, in realtà
significa remare contro l’obiettivo ultimo e disperdere le proprie
energie perché l’effetto del cane in gabbia è causato dal dominio ed
oppressione dell’altro da sé (sia esso cane, gatto o extracomunitario).
Attenzione però a non commettere l’errore
di pensare che dunque solo chi è di sinistra o simpatizzante comunista
possa farsi promotore di una liberazione totale, semplicemente perché,
come ho chiarito sopra, non è detto che chi frequenta certi ambienti di
sinistra non possa manifestare comportamenti ugualmente fascisti. Quindi
non si tratta di escludere alcuni da altri, quando di stabilire quale
debba essere l’ideologia migliore per arrivare alla liberazione animale e
questa non può essere che una sola: quella che contempla la fine di
ogni dominio ed oppressione e che smantelli l’antropocentrismo.
Allora, mettiamola così, a manifestare
contro la singola forma di sfruttamento animale (tipo contro la
vivisezione ad esempio) o a presidiare il singolo allevamento, circo
ecc. per me può venire chiunque, anche chi ha il panino col prosciutto
dentro la borsetta o chi prova odio verso una determinata etnia, ma che
sappia che ciò non potrà funzionare in vista di una liberazione totale.
Perché non me la sentirei di scacciare chi mangia il prosciutto o chi è
razzista? Intanto perché scacciandolo do prova io per prima di
quell’atteggiamento di autoritaria esclusione che è fascismo inteso
nella sua accezione più profonda, secondo poi perché (forse sono
ingenua) immagino che chi mostra una certa apertura e sensibilità verso
l’animale non umano, abbia dentro di sé i presupposti per poter superare
i limiti angusti del proprio pensiero che lo portano ad essere razzista
(o maschilista, omofobo). Intendiamoci: a me fa orrore camminare a
fianco a chi è omofobo o razzista, ma se lo allontano divento io stessa
artefice di quel fascismo che tanto deploro; se invece lo avvicino, mi
lascio avvicinare, magari gli mostro il paradosso del voler liberare il
cane ed al contempo inneggiare all’odio verso i Rom (per dirne una) o
verso l’omosessuale, magari contribuisco a fargli comprendere i limiti
del suo pensiero. Ho fiducia in quel metodo ermeneutico applicato alla
comprensione della schiavitù animale di cui parlavo nell’articolo
precedente.
Ultima cosa e poi chiudo: ieri quasi
tutti i presenti hanno dato prova di una certa resistenza al solo sentir
parlare di teoria. Come se l’attivismo fosse altro e dovesse essere
completamente avulso dalla filosofia e pensiero teorico. Questo è un
errore gravissimo. Ultimamente io ho parlato spesso dell’esigenza di
dover fare attivismo, ho invitato a scendere sulla strada, ma sempre
secondariamente e dopo aver acquisito una certa preparazione teorica. Se
io imparo a guidare ma non conosco il codice della strada, rischio di
andare a schiantarmi al primo incrocio che trovo. E questo perché
guidare la macchina è qualcosa di molto più complesso del pigiare
l’acceleratore ed il freno all’occorrenza. Guidare è comprendere il
traffico e rispettarne il flusso secondo determinati parametri e per
questo mi serve prima uno studio teorico. Inoltre se la nostra cultura è
specista è anche perché, purtroppo, tutta la filosofia che ci ha
preceduto ha contribuito ad informare una certa idea di mondo (pensiamo
solo al peso che ha avuto la definizione dell’animale come automa di
Cartesio ed in generale la concezione meccanicistica della natura e del
suo essere una sorta di laboratorio nel quale dover sperimentare
qualsiasi fenomeno); quindi il pensiero non è meno importante
dell’azione, ma sempre la precede. Trovo, e me ne dispiaccio molto, che
ci sia molta impreparazione teorica nell’attivismo italiano (almeno di
Roma e dintorni, in generale dico, poi magari i singoli saranno pure
preparatissimi), che abbia prevalso il diffuso convincimento che basti
fare, agire, muoversi e che non serva elaborare prima una linea
strategica teorica. E questo è un errore secondo me.
Ma come fare per costruire insieme un
piano teorico se nemmeno risulta ben chiaro a tutti cosa significhi nel
profondo il termine “fascismo” e cosa sia la liberazione animale?
La vera domanda che mi e vi faccio adesso
è questa: può essere che si debba e possa accettare questa acerbità,
immaturità nel movimento (ossia accettarla come stadio del nostro
percorso volto alla liberazione finale) perché se continuiamo a fare
critica ed autocritica rischiamo di bloccare l’entusiasmo sul nascere e
di fermare questo ingrossamento delle fila che, anche sull’onda del
successo di Green Hill, si sta verificando? Ce lo domandavamo ieri io e
Leonora Pigliucci, dopo l’incontro (e la sollecito ad intervenire, non
appena potrà, così come sollecito Barbara Balsamo, anch'ella presente ieri, nonché tutti gli altri presenti). Ci siamo un po’ rese conto che questo ideale ultimo di
una società liberata non avverrà dopodomani e che nemmeno siamo in grado
di immaginarci come potrà essere una società davvero post-capitalista,
post-sfruttamento del vivente. Se ci fermiamo a riflettere troppo non
corriamo il rischio di perdere il treno? Al momento, in questo preciso
momento storico, la situazione è quella che è (ossia c’è impreparazione
teorica e scarsa capacità di immaginare cosa significhi veramente una
società libera), ossia c’è una visione alquanto miope di quei meccanismi
e di quelle cause che hanno nei millenni dato vita allo specismo: è
giusto prenderne atto e lavorare con questi pochi scarsi strumenti che
abbiamo, ossia avanzando a tastoni affetti da una certa miopia – consci
che ogni periodo storico ha i propri limiti – o dovremmo invece forzare
in direzione di una maggiore consapevolezza del movimento? Dovremmo
“educare” (ossia preparare teoricamente) gli attivisti? E come? A me la
parola “educare” fa un po’ venire in mente certi bruttissimi momenti del
passato. E a chi spetterebbe farlo, eventualmente, se continuano ad
esserci varie concezioni dell’antispecismo (antispecismo metafisico,
politico, debole ecc.)?
Come ho scritto sempre nel mio ultimo
articolo, a me le battaglie parziali stanno pure bene, purché però non
si perda di vista l’obiettivo finale e possano fungere, come nel circolo
ermeneutico, ad ampliare la comprensione dell’intero fenomeno nella sua
complessità; così come mi sta bene accogliere chi ha un’ideologia
politica diversa dalla mia, purché abbia chiaro in mente gli obiettivi
della nostra lotta, che debbono essere comuni. Perché se tizio pensa di
poter liberare gli animali non umani, cercando al contempo di salvare il
Capitale o di lasciare inalterati certi dispostivi di dominio perché
farebbero comodo alla sua ideologia personale, allora non stiamo affatto
combattendo la stessa battaglia e su questo c’è bisogno di far
chiarezza. Per fare un esempio pratico, se il cattolico filo-vaticano
viene a presidiare con me, mi sta bene, non voglio escluderlo, ma mi
pare evidente che il mio ideale ultimo, essendo quello di una società
libera dai dogmi, dai condizionamenti, NON verticistica, non omofoba,
non sessista, non maschilista, non potrà mai coincidere con la sua
ubbidienza ai principi della chiesa e del Vaticano o con la sua Fede in
unica verità, quella emanata dalla bibbia. Nel mio ideale di mondo
libero non c’è spazio per i dogmi, né per istituzioni dalla struttura
verticistica. Quindi, in sostanza, l’antispecismo in cui io credo, è
qualcosa di diverso da quello in cui crede il cattolico praticante
osservante, suppongo, ferma restando la sua sincerità nel rifiuto dello
sfruttamento degli animali ed il suo rispetto per i viventi senzienti.
Può essere comunque utile procedere insieme almeno per un primo tratto
di strada, almeno laddove i nostri obiettivi (limitati, parziali)
convergono, tenendo ben presente che le nostre visioni e concezioni del
mondo rimarrano profondamente diverse (e quindi, diverso anche l’ideale
di una società futura)?
Una certa visione ideologica che sostiene
il Capitale e la grossa finanza (non voglio parlare di destra perché
esiste anche una destra sociale avversa al Capitale) come può coincidere
con il mio ideale di liberazione animale? Allora, chi appartiene ad un
certo schieramento politico, può anche provare empatia per gli animali
non umani, essere contrario alla vivisezione, ma non potrà mai avere un
ideale di liberazione totale come lo intendo io perché la sua visione
miope lascerebbe inalterati certi dispositivi e meccanismi di dominio.
Mi sta bene che venga a manifestare con me, che si lotti insieme per
aprire concretamente qualche gabbia, ma che si chiaro che non stiamo
combattendo la stessa battaglia.
Che al momento possa bastare questo?
Procedere per un pezzettino di strada insieme, tutti quanti, senza
escludere nessuno e poi si vedrà? Che per questo preciso momento
storico, ancora acerbo ed impreparato teoricamente, basti intanto unire
le forze per raggiungere qualche obiettivo?
Beh, io ho fatto lo sforzo fin qui di porre queste domande. Ora, per favore, che qualcuno provi a darmi qualche risposta.
2 commenti:
La definizione che dai di fascismo mi piace. Certo, fascismo per me equivale a violenza. Quindi fascista è un altro modo di dire violento, prepotente, una persona che commette in qualche modo degli abusi nei confronti dell'altro.
E' soltanto il non voler (arbitrariamente) riconoscere nell'animale l'altro, che non fa vedere che mangiare carne o pesce, o formaggio, è un atto fascista.
Lo è.
Tanti "compagni" che cantano bella ciao con la salciccia nel panino. Fascisti, altro che compagni. La sottomissione dell'altro (più debole e indifeso), la costrizione in campi di prigionia, lo sterminio sistematico, richiama qualcosa...lager, allevamenti, quale sarebbe la differenza signori compagni antifascisti?
Esatto.
E infatti bisognerebbe farglielo capire ai compagni.
Purtroppo pare che il collegamento non sia così facile. Pensa che Steve Best ha detto che le resistenze maggiori in ambito accademico le ha trovate proprio da parte dei colleghi che si definivano di sinistra, progressisti e comunque antifascisti; ha detto che ogni volta che prova a sensibilizzarli sulla questione dello sfruttamento animale lo prendono in giro, lo ridicolizzano persino.
Assurdo, no?
Io dico sempre che si può essere compagni quando si va a votare, ma restare profondamente fascisti nell'animo quando ci si mette a tavola. E questa gente poi, se gli fai notare l'incongruenza, ti risponde pure che deve esserci libertà di scelta. E la libertà di scelta dell'animale dov'è, dico io? Dove va a finire? Che esempio di libertà è quello di toglierla ad un altro essere vivente?
Uno, giorni fa, mi ha risposto: "è un problema tuo". Mio??? Roba da matti... eh!
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