giovedì 1 novembre 2012

Il circolo ermeneutico applicato all’animalismo: una liberazione parziale per arrivare a quella totale e decostruzione del sistema partendo dall’assunzione della responsabilità del singolo?



Pubblicato anche su Asinus Novus.
Per circolo ermeneutico si intende il procedimento di interpretazione dei testi che mette in correlazione il tutto con le singole parti; in origine l’ermeneutica designava l’interpretazione testuale della Bibbia, poi è stata estesa ad indicare l’interpretazione di qualsiasi testo ed è nata una vera e propria teoria della critica letteraria ermeneutica, a partire dalle intuizioni di Wilhelm Dilthey di fine ottocento.
Secondo Dilthey per comprendere un testo nella sua complessità (diciamo il suo significato o i suoi significati) è necessario comprenderne le singole parti, tuttavia esse possono essere intuite e comprese solo se si ha anche una conoscenza almeno generale o superficiale dell’opera nella sua intierezza, ma per avere questa comprensione complessiva del tutto, ecco che si rende necessaria la comprensione delle singole parti. Si viene così ad instaurare questo circolo per cui, più si comprende il significato (simbolico, metaforico, allegorico) di una singola parte e più si fa chiarezza sul significato complessivo dell’opera, mentre al contempo, procedendo con l’intuizione complessiva, anche le singole parti risultano più chiare ed intelligibili. Diciamo che quella che si viene ad instaurare nel circolo è una sorta di sinergia fra il tutto e le sue parti ai fini della comprensione. Il metodo di critica letteraria di impostazione ermeneutica ha poi conosciuto altre rivisitazioni che, pur accettando il principio basilare che ogni testo sia portatore di un significato da scoprire, ritengono che si debba tener conto anche delle intenzioni dell’autore (E.D. Hirsch ad esempio fu un sostenitore di questa tesi). Così essa, la critica ermeneutica, si arricchisce, prende a prestito o si fonde con intuizioni di altre teorie, come ad esempio quella che contempla, ai fini della comprensione di un testo, l’orizzonte di attesa del lettore ed in generale la non prescindibilità dalla sua esperienza e vita interiore (Reader-Response Criticism). Il filosofo tedesco Gadamer, prendendo spunto da queste elaborazioni teoriche di critica letteraria ed unendovi intuizioni della filosofia esistenzialistica di Heidegger giunge poi a formulare una teoria ermeneutica che sposta l’attività interpretativa al di là dei testi, verso l’esperienza stessa dell’esistenza. Sostiene quindi che non sono soltanto i testi ad essere soggetti ad un’interpretazione, ma ogni esperienza stessa della vita.
Perché ho parlato della critica ermeneutica (facendo, invero, un riassuntino piuttosto striminzito, e mi perdoneranno gli studiosi di letteratura e critica letteraria), ma soprattutto, cosa c’entra ciò con l’animalismo? L’osservazione della realtà, in particolare di alcuni sui fenomeni (qui mi riferisco appunto a quelli relativi all’animalismo) e la comprensione sempre parziale che abbiamo di essa (e di essi) mi ha fatto scattare l’associazione con l’ermeneutica. In particolare mi è capitato nei giorni scorsi di riflettere su quanto moltissime persone diano prova di una sempre maggiore empatia, apertura, sensibilità verso gli animali - o almeno alcune specie -  e comincino a mostrarsi insofferenti verso le loro condizioni in determinati contesti.
La comprensione di questo silenzioso ed invisibile sterminio però non è totale, ma parziale, appunto, quindi incompleta - ciò che noi definiamo “animalismo” a metà - e soprattutto è viziata da un’assenza totale di analisi oppure un’analisi imperfetta della cause che lo determinano alla radice; si tende cioè comunemente a credere che esistano uomini cattivi che sfuttano e maltrattano gli animali e questo perché li considerano semplicemente inferiori oppure sono indifferenti ed insensibili alla loro sofferenza, senza domandarsi quando è cominciato tutto questo, se è sempre stato così e perché. Comunque sia, ferma restando questa analisi assai superficiale o del tutto assente della prassi dello sfruttamento del vivente (che è analisi delle strutture socio-economiche delle società che si sono succedute nella storia, fino ad arrivare alla nostra attuale) moltissime persone cominciano a mostrare segni di disagio di fronte alla vista di alcuni animali in gabbia e si dichiarano ad esempio contrarie ad alcune pratiche o forme di commercio quali: l’uso degli animali nei circhi, la caccia, gli zoo, la produzione di pellicce, la sperimentazione animale, questo pur continuando ad ignorare la complessità, l’enormità e l’ingiustizia dello sfruttamento animale nella sua totalità, così come ignorando la necessità di estirpare tali pratiche alla radice, essendo esse solo la punta di un iceberg. Molte persone infatti, pur deprecando l’uso degli animali nei circhi, continuano tranquillamente a nutrirsi dei corpi animali, incapaci di estendere la loro riflessione sullo sfruttamento dal particolare all’universale, incapaci quindi di realizzare quel circolo ermeneutico della comprensione di cui sopra. Ovvio che la detenzione e sfruttamento di animali selvatici quali quelli usati ad esempio nei circhi suscita più indignazione rispetto a quella dei maiali, vitelli o mucche alla quale la nostra cultura ci ha invece abituato sin da bambini e quindi l’abbiamo mentalmente “normalizzata”.
Si continua a dire che la liberazione animale deve essere totale e che il singolo, pur essendo direttamente implicato e responsabile della sua partecipazione al sistema di sfruttamento, non può essere colpevolizzato più di tanto perché incapace di comprendere l’atto criminale delle proprie scelte, essendo assuefatto alla violenza sugli animali sin dalla nascita, una violenza che poi nella società è occultata, rimossa, negata o comunque normalizzata. Si continua a dire, e ne sono del resto convintissima anche io, che fare proselitismo o rompere le scatole al prossimo per indurlo a diventare vegano è inutile per una serie di ragioni: primo, perché raramente funziona come approccio, a meno che la persona non abbia già in nuce una coscienza di rispetto verso tutti i viventi, secondo perché comunque dal momento che lo sfruttamento del vivente (sia della animale umano che non umano) è una prassi insita nel sistema, diffusa così capillarmente da permeare praticamente tutti i settori della società, diventa impossibile abolirla se non si scardinano alla base quelle strutture che la permettono. In questo senso lottare per l’abolizione, ad esempio, delle pellicce o convincere sempre più persone a diventare vegane potrebbe sembrare una lotta solo parziale in quanto lascerebbe inalterato il sistema di sfruttamento, un sistema che comunque andrebbe avanti e si perpetuerebbe in altri campi. Quindi ancora accusare il singolo operaio che lavora in un macello diventerebbe vano in quanto non è lui l’artefice, ma solo l’esecutore materiale di una prassi macroscopica, solo una piccola vite che consente l’ingranaggio.
Il fine dell’antispecismo è dunque quello di decostruire la società della prevaricazione e sfruttamento del più debole alla radice.
Tuttavia ho notato che insistendo a ragionare in quest’ottica comincia a diventare un po’ tutto troppo astratto. Il singolo mangiatore di carne non ha colpe, il contadino che uccide il maiale non ha colpe, la signora che acquista la pelliccia non ha colpe. La colpa è del sistema, come fosse un’entità superiore, quasi divina nella sua astrattezza. Eppure il sistema non è mica astratto, visto che la gente e gli animali ci muoiono realmente, concretamente. Un po’ di responsabilità all’azienda che produce le pellicce gliela vogliamo dare oppure anch’essa è astratta? Un po’ di responsabilità alle aziende farmaceutiche che sovvenzionano ed ordinano la sperimentazione sugli animali gliela vogliamo dare oppure no? Un po’ di responsabilità ai capi delle multinazionali che sfruttano donne, bambini, animali, gliela vogliamo dare oppure no? Sono persone queste che creano la società, mica automi, eh! Sono persone quelle che ordinano lo sterminio di migliaia di visoni per farci le pellicce, mica numeri, eh! Sono persone i responsabili e proprietari degli allevamenti, eh!  Ora, ferme restando che le intuizioni dell’antispecismo politico sono importantissime perché se non si capisce che lo specismo (o antropocentrismo) è una prassi che si è andata strutturando nei secoli economicamente, antropologicamente, economicamente, socialmente, quindi politicamente (intendo la politica come l’agire della specie umana in società) non centriamo il nocciolo della questione e restiamo all’interno di una dannosissima visione dicotomica dell’umanità per cui ci sarebbe persone buone ed altre cattive, fermo restando questo, dicevo, non sarei così sicura che per decostruire lo sfruttamento degli animali nella sua complessità non si possa e non si debba agire anche parzialmente. Ed ecco come mi è venuta in mente l’ermeneutica. Chi ci dà la certezza che quella persona che intanto ha intuito l’assoluta barbarie degli animali usati nei circhi non possa partire dall’analisi e comprensione di questo singolo elemento per arrivare ad una comprensione del macroscopico sistema di sfruttamento nella sua totalità? E chi lo dice che iniziando a premere politicamente per l’abolizione almeno intanto di determinate pratiche non si possa poi via via procedere ad ottenere sempre maggiori risultati perché per ogni modifica dell’assetto socio-economico-culturale corrisponde sempre anche un mutamento sociale? Chi lo dice che l’abolizione della caccia o della produzione delle pellicce non porti intanto a quelle modificazioni socio-culturali destinate a cambiare e a far evolvere la società nel profondo? Pensate soltanto a quanto è cambiata la nostra società dopo l’introduzione della legge del divorzio o altre simili, a quanto comportamenti che prima erano stigmatizzati poi sono stati pian piano accolti, accettati e questo ha comportato, nei decenni, un mutamento sostanziale della mentalità. Per dirla con J.G. Ballard, la psiche dell’individuo muta e si evolve di pari passo con l’ambiente che lo ospita. Chissà che sparendo dai nostri orizzonti, per l’intanto, alcune pratiche come la caccia, l’uso degli animali nei circhi, la produzione delle pellicce, ma anche il commercio di alimenti animali derivati da crudeltà massime quali il foie gras, le aragoste vive, le uova di batteria ecc. - non che il resto non lo sia, tuttavia ci sono pratiche che colpiscono l’immaginario più di altre ed è da lì, procedendo nel circolo ermeneutico, che magari si può partire a lavorare per giungere infine alla consapevolezza del tutto, alla comprensione di tutto questo orrore che ci circonda ed al suo conseguente rifiuto - non muti anche, proprio nel profondo della nostra psiche intendo, la nostra considerazione degli animali non umani?
Ho sentito l’esigenza di difendere anche queste lotte parziali perché troppo spesso sento dire che agire localmente sia inutile (ossia che sia inutile ad esempio lottare contro singole aziende come la Harlan o Green Hill o boicottare singoli prodotti come le pellicce, o il foie gras o andare a fare presidi contro il singolo circo), mentre invece - ferma restando l’analisi dello sfruttamento animale come prassi culturale sistemica e ferme restando l’individuazione delle sue cause e la sua origine storico-politica - poiché nessuno ha la verità in tasca su come procedere allo smantellamento del sistema di sfruttamento e nemmeno si può stare con le mani in mano adducendo a pretesto che il singolo non si può responsabilizzare perché la colpa è di questo fantomatico sistema - quasi fosse un’astrazione metafisica immanente ed immodificabile, oppure che per modificarlo bisognerà attendere chissà che - io riterrei che sia non solo opportuno, ma persino doveroso che intanto si lotti per abolire determinate pratiche, sia pure parzialmente, sia pure in riferimento a determinati contesti; che ci si auspichi la fine del capitalismo mi sembra ovvio in quanto esso è il sistema in cui lo sfruttamento degli animali ha trovato massima e più sofisticata applicazione, ma non è che si può pensare che esso si estingua o si trasformi in altro per spinte non endogene, ci vorrà pure che si intervenga attivamente dal suo interno, o no? Non è vero che non esistono responsabili, non è vero che il singolo non è responsabile, esso lo è quanto il sistema perché il sistema, fattivamente, concretamente, materialmente, è alimentato pure grazie a lui. Ora, io ho sempre detto che esso, il singolo, non va colpevolizzato o aggredito perché spesso nemmeno si rende conto di cosa ci sia dietro la fettina di carne che compra (e per “cosa ci sia dietro” non mi riferisco nemmeno tanto alla sua conoscenza delle condizioni in cui vengono tenuti gli animali o alla brutalità del loro trattamento, bensì a tutta la violenza rimossa, negata, normalizzata che sottende sempre l’atto di usare l’altro come oggetto, sia esso animale umano o non umano e questo perché lo sfruttamento del vivente è intriso nelle radici della nostra società e cultura); questo però non significa che esso non sia anche responsabile. Un conto è dire, non voglio puntarti il dito contro o definirti un mostro per il tuo partecipare della prassi dello sfruttamento (perché non ne sei consapevole ecc.), un altro però è negare che anche tu sia partecipe di questa situazione, che tu non abbia responsabilità.
Ogni volta che guardo uno dei tanti video testimoni delle orribili condizioni degli animali negli allevamenti e della loro uccisione, non posso pensare che anche il singolo non debba essere informato e responsabilizzato. Per la miseria, chi compra quegli astici vivi adagiati sul fondo di acquari piccolissimi che vedo ogni giorno quando vado al supermercato, con un cartellino del prezzo esposto sopra la vasca? Sono singole persone, mica il sistema nella sua astrattezza. Non posso credere che il manager in giacca e cravatta non si renda conto che sta acquistando un animale VIVO. Perché non dovrebbe essere responsabilizzato?
Perché dire che egli non ha colpe? Siamo d’accordo che aggredire verbalmente non paghi, ma organizzare presidi, manifestazioni, volantinaggi, dibattiti, invece può servire.
E siamo d’accordo che il sistema è immenso, ma per comprendere il meccanismo nella sua complessità credo sia utile partire - proprio come nel circolo ermeneutico applicato alla critica letteraria per l’analisi di un testo - intanto comprendere la mostruosità di certe pratiche e comportamenti, a partire anche, perché no, da quelle singole che, per qualche ragione, colpiscono di più l’immaginario collettivo. Che a volte non si tratta magari di “animalismo a metà”, ma solo di comprensione di una sola parte in attesa che venga intuito il tutto.
L’antispecismo politico ha individuato la questione alla radice, ma una strategia valida per cambiare il sistema non è stata ancora elaborata. E non credo che possiamo permetterci di scartare strategie a priori, credo invece che contestualizzare, partire da singoli elementi isolati, lavorare per abolire certe pratiche, quindi in una direzione anche parziale, possa al contempo servire per arrivare al compimento di una strategia anche globale.
La persona che comprende la barbarie dei circhi con animali ha intanto compreso un pezzettino di testo (per restare nell’analogia con la critica ermeneutica) e da lì potrebbe giungere all’individuazione e comprensione totale di ciò che determina il meccanismo dello sfruttamento nella sua totalità, quindi attivarsi per modificare l’assetto esistente.
Si dice che l’etica individuale non cambierà il sistema. Ma questo noi non lo sappiamo, né abbiamo alcuna certezza in merito (in fondo è solo dagli anni settanta che si parla di liberazione animale e solo negli ultimissimi decenni si è compreso che essa deve procedere di passo con quella umana), ma poi, non è che a forza di citare questo sistema come fosse appunto un qualcosa di ingegneristicamente astratto si corre il rischio di dimenticare il fatto che la Storia non è fatta solo di grandi eventi, grandi rivoluzioni, grandi sismi ecc., ma anche di singoli, anche di me, te, voi nel nostro ordinario quotidiano?
Non dobbiamo perdere di vista il fatto che i singoli non sono solo numeri e funzioni, i comportamenti e le scelte individuali non sono solo statistiche sociologiche, i fatti storici non soltanto accadimenti da analizzare con distacco.
Il sistema è fatto di vite singole, la Storia è fatta di vite ordinarie, infine gli animali muoiono e sono sfruttati perché ci sono manager che comprano aragoste, gentili signorine che comprano pellicce, dolci mammine che portano i bimbi al circo, adolescenti che frequentano i McDonalds. Di tutto questo non si può non tener conto, di tutto questo non si può non parlare, non si può fingere che il singolo non abbia responsabilità, non si può riportare sempre tutto ad un fantomatico sistema.
Con questo - ma chi ha letto i miei precedenti articoli lo sa già - non intendo dire che dovremmo colpevolizzare, aggredire, odiare i nostri simili, provare rabbia verso di loro, dividere l’umanità in buoni e cattivi, bensì spronare ad impegnarci sempre di più per informare, sensibilizzare, anche se ci sembrerà che sia inutile, che sia troppo poco, anche se ci risponderanno, ora, che è tutto vano perché le cose vanno avanti così da sempre. Il sistema siamo anche noi e questo è il momento di dirlo. Non è mai solo un accumulo di funzioni astratte. La Storia la fanno anche i singoli, come ben ci insegnava una scrittrice del calibro di Elsa Morante nel suo bellissimo romanzo “La Storia”.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

la storia la fanno solo i singoli (d'accordo su tutto)

Claudio ha detto...

Anche perché se non si considerano insieme le strutture del sistema e la coscienza del singolo, accade che magari si riesce a far abolire la carne e chiudere gli allevamenti, ma poi il singolo va al supermercato, la carne non la trova più, però gli va ancora, così partono le macellerie clandestine, e allora il problema non è risolto manco per niente.
Un po' come è accaduto per la schiavitù: il sistema la disapprova ufficialmente, ma siccome il modo di pensare collettivo e individuale non è cambiato, te la ritrovi sotto forme legalizzate o negli scantinati di Taiwan.

Rita ha detto...

Infatti.
Ma, soprattutto, io vedo il sistema come un ingranaggio fatto di singole parti che lavorano sinergicamente. Indebolendo alcune parti, tutto il sistema viene a traballare (se tolgo un bullone ad una macchina, qualcosa succede, l'ingranaggio si inceppa, la macchina magari si ferma).
Lo sfruttamento è causato dalla produzione, smantellando alcuni settori di questa produzione forse se ne problematizzano altri, in un effetto a catena (in economia avviene).
Non sottovaluterei la psiche del singolo e la sua reazione a determinati fenomeni che poi ne producono altri.
Prendi il caso di Green Hill, si è alzato un polverone a livello collettivo inaspettato e questo ha dato vita al dibattito sulla S.A. (ma sai che c'era gente che era convinta che la sperimentazione in Italia nemmeno avvenisse più?).
Soprattutto l'antispecismo è un pensiero giovane, rivoluzionario, non mi sentirei di escludere a priori determinate strategie.
La psiche (o la coscienza se preferisci) dell'individuo è plasmata dall'ambiente che lo circonda. Se modifichi l'ambiente, se avvengono modificazioni strutturali in esso, si modifica anche l'uomo.
Io sono una sostenitrice di questa teoria (hai mai letto Ballard? Ecco, per me lui era un genio).

Rita ha detto...

P.S.: ove, per modificare l'ambiente (ossia la società) serve anche, ovviamente, responsabilizzare il singolo sugli effetti delle proprie azioni e per indebolire alcuni settori della produzione serve di divulgare una controinformazione (contro rispetto a quella attuale che sostiene e sorregge lo sfruttamento). Qui entra in gioco, secondo me, la capacità del singolo di recepire, comprendere il peso delle proprie scelte perché poi l'ingranaggio è sostenuto da queste.