Il dandy de noantri (citazione azzeccatissima dall'articolo di Leonardo Caffo), alias Camillo Langone - cui in passato ho già dedicato un pensiero - torna a parlare della sua attività preferita: ossia mangiare animali.
Qualcuno, non ricordo chi, tempo addietro scrisse che bisognerebbe aver paura di incrociare il dandy nostrano per strada, ossessivamente votato com'è a mangiare tutto quel che si muove, senza distinzione alcuna.
Ci si potrebbe dilettare ad azzardare ipotesi in chiave psicanalitica sul perché il dandy senta questo bisogno costante di ribadire il suo bisogno di mangiar carne e di difendere strenuamente il carnivorismo, sulla sua propensione e gusto per il sangue, nonché sulla sua evidentissima teriofobia. Vorrebbe sterminare i piccioni, ad esempio, li trova sporchi e cattivi, da vivi, mentre non farebbe tanto lo schizzinoso qualora dovesse trovarseli nel piatto (non finirò mai di stupirmi sull'idiosincratico e paradossale atteggiamento che porta certuni a provare ribrezzo e schifo verso alcune specie di animali per poi mettersi tranquillamente in bocca pezzi sanguinolenti dei cadaveri di quegli stessi animali, così come non finirò mai di sorprendermi nel vedere signore impellicciate nell'atto di scansarsi schifate ed inorridite dall'innocuo cagnolino che ha malauguratamente osato sfiorare i lembi dell'indumento mortifero).
Non mi addentrerò in ipotesi freudiane. No. Ve le risparmio, anche perché, non avendo competenze adeguate in materia, al massimo servirebbero a farci fare due risate.
E comunque pare non ce ne sia bisogno, infatti la risposta alla giustificazione del carnivorismo Langone ce la fornisce di sua spontanea volontà. E nemmeno si è dovuto sforzare tanto, l'ha trovata invero già bella e confezionata ad hoc.
Lo ammetto, a me ora stanno per venire un sacco di dubbi: noi antispecisti stiamo tutto il giorno a scrivere sul perché sfruttare ed uccidere gli esseri viventi senzienti sia sbagliato, perdiamo tempo in discussioni estenuanti - filosofiche e non -, apriamo dibattiti, partecipiamo a conferenze, leggiamo saggi e testi di storia, economia, filosofia, antropologia per capire come e quando si è venuto a radicare lo specismo, ossia la consuetudine di sfruttare le altre specie decretandone di fatto la loro inferiorità; ci interroghiamo altresì per renderci conto del perché ed il percome si possa essere arrivati ad istituzionalizzare e normalizzare la violenza, quali mezzi e meccanismi abbiano reso possibile questa odierna "banalità del male" che prende la forma dello sfruttamento del vivente e della sua riduzione a cosa, ad oggetto, in una totale rimozione e negazione dell'empatia e della compassione. Convinti che solo la discussione, ma soprattutto la messa in discussione di ciò che appare come ovvio ed il sano esercizio della critica al reale, possa aprirci ed illuminarci a nuovi, mai definitivi, traguardi etici.
Ed invece la risposta è una sola, la "verità" (questo concetto che deve essere sempre gridato, espresso a caratteri cubitali) è una sola, ed è tutta lì, contenuta nella Bibbia.
Quindi, ci ricorda il dandy nostrano (casomai non ci avesse a sufficienza scassato i cosiddetti), l'uomo è carnivoro e gli animali devono essere mangiati perché così è scritto. Così sta scritto.
E dove? Ma nella Bibbia, ovviamente. Lo dice il Vecchio ed il Nuovo Testamento. Ce lo prescrive il Vangelo.
Ora, io non mi metterò certo a discettare sulle varie interpretazioni della Bibbia. Sui suoi livelli allegorici, simbolici ecc..
Vorrei far notare solo una cosa, una soltanto.
In moltissimi passaggi della Bibbia si fa anche riferimento, non solo alla consuetudine - che sarebbe specchio del volere divino - di nutrirsi di animali, ma anche a quella di possedere schiavi. Schiavi umani, sì.
Dunque, dovremmo ripristinare la schiavitù perché così ci prescrive la Bibbia?
E che dire degli altri orrori narrati nel Vecchio Testamento? E delle pratiche ritenute ormai dal mondo intero, chiesa compresa, ormai superate?
Mi domando quindi con quale arbitraria attitudine mentale dovremmo attenerci a talune prescrizioni (manco fosse una medicina) del Vecchio Testamento e rifiutarne invece altre perché considerate superate o non più in linea con il livello attualmente raggiunto del progresso morale.
Sono sicura che per Langone questa distinzione arbitraria non si pone affatto, in effetti qualcosa mi dice che lui non esiterebbe a rispettare alla lettera le prescrizioni veterotestamentarie; infatti è maschilista, omofobo, xenofobo: le donne dovrebbero fare figli anziché studiare, l'omosessualità spiace a Dio, gli immigrati devono restare a casa loro a morire di fame - perché sono musulmani ovviamente, quindi non in linea con le verità espresse dal cattolicesimo conservatore, lo stesso cui si ispira il dandy - le persone transessuali, i negri (lui li chiama così), le puttane sono persone con cui magari - si sa, l'uomo è facile a cadere in tentazione - si può passare qualche ora dopo il tramonto, ma guai ad ammetterlo di giorno, ché sono cose che si fanno, ma non si dicono! Insomma, qualcosa mi dice che a Sir Langone gli schiavi starebbero pure bene, guai però a mostrarli di giorno, ma sempre rigorosamente da tenere chiusi a chiave nella propria dimora profumata di incenso... ops profumata di arrosto dei più svariati esemplari delle varie specie animali.
È con grande soddisfazione ed entusiasmo che vi parlo oggi della nascita di ANIMAL Studies, "rivista trimestrale peer–review edita dalle edizioni scientifiche Novalogos che affronta da un punto di vista filosofico problemi di tipo etico, politico, scientifico e culturale legati al nostro complesso rapporto con la natura, con particolare attenzione alla questione del rapporto con gli animali non-umani. Oltre ad articoli di approfondimento e interviste ai protagonisti dei dibattiti nazionali e internazionali su tali tematiche, la rivista presenta al lettore un’aggiornata documentazione sull’argomento (libri, convegni, film ecc.) in un’apposita rubrica di recensioni, utile strumento di orientamento. La rivista si pone infine come luogo ideale di dibattito, offrendo ampio spazio ad interventi che discutono e problematizzano le tesi ed i contenuti pubblicati, in un’apposita sezione dedicata al confronto tra gli autori e tra autori e lettori. Animal Studies intende così proporre al lettore un panorama aggiornato e ampio delle diverse posizioni teoriche nella convinzione che solo la spassionata ricerca della verità possa condurre a soluzioni praticabili dei problemi posti e contribuire ad un reale avanzamento morale e civile della società contemporanea."
Il primo numero, disponibile da novembre, tratterà il tema "Politiche della Natura" e sarà curato dal filosofo Marco Maurizi, il secondo dedicato alla scienza e agli animali, curato da Mimma Bruni conterrà, invece, un inedito di Tom Regan. I numeri successivi tratteranno altri argomenti specifici, ognuno più interessante dell'altro.
Chiunque fosse interessato a leggerci potrà sottoscrivere un abbonamento, il cui costo e modalità si trova nel link sottostante:
Grazie a tutto coloro che si sono dati immensamente da fare per realizzarla, in particolare a MarcoMaurizi, LeonardoCaffo e alle Edizioni Novalogos e ovviamente grazie in anticipo a tutti quelli tra voi che dopo averci seguito con costanza negli ultimi mesi su Asinus Novus decideranno di seguire anche la nostra neo-nata rivista.
Qualcuno ogni tanto si chiede (e si risponde): ma gli animali sono antispecisti? Perché se non lo sono, allora non c'è ragione per cui lo si debba essere noi.
La mia risposta è: sì. Gli animali sono naturalmente antispecisti, o meglio, sono a-specisti poiché nella storia della loro evoluzione lo specismo non si è mai venuto a strutturare.
Innanzitutto vediamo in cosa consista lo specismo: molti erroneamente ritengono che esso sia quel pregiudizio morale che ci fa considerare le altre specie inferiori e quindi nella convinzione di questa loro presunta inferiorità si formerebbe, giustificherebbe e legittimerebbe la prassi del loro sfruttamento. Questo assunto però non spiega affatto dove si formi l'idea dell'inferiorità delle altre specie rispetto a quella umana (a meno che non si abbia una visione rigorosamente cattolica secondo la quale solo gli esseri umani sarebbero dotati di un'anima mentre tutto il resto del creato è messo a loro disposizione affinché se ne servano).
La verità è che si confonde la causa con l'effetto. Non è vero che gli animali sono sfruttati perché inferiori, è esattamente il contrario, ossia li consideriamo inferiori proprio perché viviamo all'interno di una cultura in cui essi, gli animali, sono ridotti a cose, sono sfruttati.
Ora, le altre specie animali - tranne quella umana, appunto - non possono dirsi speciste perché, sebbene alcune per motivi di necessità legati alla loro natura siano predatrici, di certo non allevano, sfruttano o usano per esperimenti le prede che uccidono. Non considerano inferiori le loro prede, né le trattano come oggetti, semplicemente le cacciano per nutrirsene. Quindi lo specismo in natura non esiste. Esso è essenzialmente una prassi della cultura umana perché è la maniera in cui storicamente l'uomo ha sottomesso, schiavizzato, imparato a sfruttare altri esseri viventi (animali ed uomini compresi) per accumulare risorse a proprio esclusivo vantaggio.
Lo specismo, al di fuori della Storia, non si dà. Esso è la storia dello sfruttamento del vivente da parte dell'uomo ed è ascrivibile solo all'interno della cultura umana.
Allo stesso modo calpestare una formica per sbaglio, non significhi che si sia specisti e che sia impossibile quindi divenire antispecisti perché tanto capiterà sempre che qualche animale muoia per mano nostra. Un conto è uccidere un vivente per sbaglio, un altro è agire lo sfruttamento per fini economici e culturali.
Quindi chi asserisce che essere antispecisti sia impossibile, non ha capito un punto fondamentale.
L'antispecismo è quella teoria e prassi che lotta per de-costruire il sistema dello sfruttamento del senziente, un sistema che si è andato configurando storicamente, antropologicamente, politicamente nel corso dei secoli.
L'antispecismo non vuole annullare le diversità tra specie, ché esse rimangono incontestabili (il leone predatore continuerà sempre a mangiare la gazzella preda), né aspira a realizzare una sorta di utopia edenica in cui la pecora giacerà accanto al lupo ed il serpente accanto al topo e non ci sarà più dolore. No, affatto. Il ciclo della nascita-distruzione-vita-morte continuerà indisturbato. Quello che l'antispecismo si propone di abbattere è lo sfruttamento del vivente che si è andato strutturando storicamente, politicamente.
E poiché esso è una prassi politica, è solo mettendone in discussione gli assunti base che lo si potrà decostruire.
Dividere il mondo in buoni (prede, agnelli ecc.) e cattivi (predatori, vivisettori, cacciatori ecc.) non serve a nulla. Questa divisione così astratta è del tutto arbitraria perché in realtà è solo entro certe precise dinamiche di sistema che si viene a configurare. Il nemico è il sistema, non il leone predatore o la persona che mangia carne perché vittima anch'essa del sistema.
Spero mi si perdoni l’estrema sintesi di questo breve articolo – quasi
una didascalia – ma del resto sono argomenti che sono stati già
ampliamente ed originalmente trattati da Marco Maurizi nel suo “Al di là
della natura” e che io mi sono limitata a riprendere in parte per
provare a dare una risposta alla domanda posta nel titolo
(dell’articolo).
Ho sempre pensato che un film per essere interessante debba possedere i
seguenti requisiti: raccontare una storia particolare capace al contempo
di farsi paradigmatica, ossia di elevarsi a considerazioni di carattere universale sconfinando così dal contesto specifico in
cui è adattata e poi la forma più congeniale per raccontarla, una forma
che sia in grado di esaltarla visivamente e tale da rendere le immagini
autonome, valenti di per sé, ove il dialogo possa al massimo arrivare
ad arricchire, ma mai a sostituire.
Intendiamoci una volta per tutte su cosa si debba intendere per "maltrattamento".
Ogni tanto salta fuori qualche video - girato quasi sempre da attivisti infiltrati, qualche volta da membri del personale che decidono di licenziarsi poiché si scoprono incapaci di sopportare un simile lavoro - a documentare episodi di sadismo, violenza, percosse, privazioni ecc.; tutti fatti che avvengono nei vari allevamenti, mattatoi ecc. ad opera di "sadici" inservienti che infieriscono sui poveri animali. E ogni volta video del genere suscitano grande sdegno e scalpore, non solo tra i difensori dei diritti degli animali, ma anche tra chi continua a considerare "normale" e lecito mangiare la carne (o il pesce, le uova, il latte, vale a dire tutti i "prodotti" dello sfruttamento animale).
Un paio di anni fa ci fu ad esempio il caso di quell'allevamento di bovini in Ohio: un video mostrò scene di inaudita violenza sui poveri animali e tutto il mondo si scosse. Ovviamente l'imprenditore di turno si giustifica asserendo di non essere al corrente del fatto che nel suo allevamento avvengano o siano avvenuti simili episodi, quindi si provvede a denunciare ed allontanare il singolo (o i singoli) responsabile, magari si paga un'onerosa multa e tutto continua più o meno esattamente come prima. Talvolta tali allevamenti, in seguito alle proteste ed indignazione pubblica, vengono chiusi, ma il sistema di allevamento e sfruttamento continua indisturbato altrove, fuori dall'occhio delle telecamere.
Ieri è stato diffuso un altro video girato all'interno di un altro allevamento, ancora una volta negli Stati Uniti, più precisamente in California (ricordiamo che dagli USA proviene la percentuale maggiore di carne esportata in tutto il mondo); girato da attivisti animalisti, anche qui le immagini che si vedono sono raccappriccianti: mucche incapaci di reggersi in piedi, mucche con arti piegati a causa dell'eccessiva immobilità, sofferenti di prolassi all'utero e con le mammelle deformate a causa dello sfruttamento intensivo cui sono sottoposte per la produzione del latte, mucche tirate per la coda, pungolate con bastoni elettrici, prese a calci e... non voglio soffermarmi su altri particolari (il video non lo metto, ma chiunque vuole potrà trovarlo sui principali quotidiani online o su FB. Suppongo anche LaVeraBestia provvederà ad inserirlo).
Allora, è arrivato il momento di chiarire una cosa, anzi due: quelle sevizie non sono affatto l'eccezione, episodi simili - ovviamente tenuti all'oscuro delle telecamere, quindi all'oscuro del mondo, del consumatore ignaro (ma ignaro mica tanto, oggi, con i mezzi di informazione a disposizione, ignaro è chi vuole continuare ad esserlo) - avvengono quotidianamente. Gli animali sfruttati oltre ogni limite spesso non ce la fanno nemmeno a reggersi in piedi, durante i trasporti verso i mattatoi svengono, crollano letteralmente gli uni sugli altri, gli si rompono gli arti e gli inservienti che se ne occupano, un po' per questioni di tempo - il servizio per rendere il massimo di denaro deve essere velocizzato e reso efficiente al massimo, esattamente come in una catena di montaggio - non stanno tanto ad usare le maniere gentili (tanto è "merce" destinata al macello, no?), per loro si tratta semplicemente di oggetti ed è anzi la loro psiche ad effettuare quello spostamento percettivo tale da far sì che gli animali vengano considerati tali, solo come cose; si tratta di una vera e propria difesa della mente altrimenti svolgere mansioni del genere tutto il santo giorno sarebbe intollerabile. Anche il vivisettore che opera per forza di cose sarà necessario che si illuda che l'animale non soffra, oppure che si convinca di far ciò per un bene superiore (ma quale bene superiore potrà mai giustificare la sofferenza di altri esseri? Forse che il loro dolore è minore di quello che si pretenderebbe di curare?). Così un animale recalcitrante, un animale che non cammina velocemente come dovrebbe (e se non cammina velocemente è perché ha perso l'uso ottimale degli arti a causa della lunga immobilità e per le condizioni in cui viene tenuto) viene preso a calci, punito, strattonato, pungolato, irriso, deriso, umiliato, picchiato, violentato e così via.
Chi di voi si illude che simili comportamenti crudeli e violenti siano l'eccezione (eccezione che sarà prontamente denunciata e poi condannata) si sbaglia. L'eccezione sta nel diffondere il filmato. Un fatto, questo sì, piuttosto raro perché nei mattatoi, negli stabulari dove si effettua la sperimentazione animale, negli allevamenti non si permette a nessuno di entrare e girare video. Qualche giornalista ottiene raramente il permesso (e ovviamente sarà facile in quell'occasione mostrare che tutto si svolge per il meglio), ma provate voi a chiedere di visitare uno qualsiasi di questi posti (specialmente gli stabulari dove si effettua la sperimentazione animale ed i mattatoi) e vedrete cosa vi verrà risposto. Quindi l'eccezione è la diffusione del video, ma non certo il maltrattamento in sé, che è pratica quotidiana.
E qui veniamo al secondo punto, ossia su cosa si debba infine intendere per maltrattamento, superando quali limiti è lecito parlare di maltrattamento. Vi sbagliate di grosso se pensate che esso consista solo ed unicamente in azioni di arbitraria sporadica violenza da parte di alcuni inservienti particolarmente sadici. Vi sbagliate se pensate che maltrattare significhi esclusivamente prendere a calci, a bastonate, pungolare elettricamente. Violenza è tutto ciò che viola la vita dell'altro. Fisicamente e psicologicamente. Maltrattamento è anche soltanto tenere un animale costretto ad una vita innaturale, chiuso dentro un box senza la possibilità di correre libero nei prati, di uscire all'aria aperta, di muoversi, di vivere secondo quelle caratteristiche di specie che gli sono proprie. Pure se la mucca da latte venisse ogni giorno accarezzata anziché essere picchiata, già il sempre stare lì, rinchiusa, costretta ad essere ingravidata artificialmente - e, una volta partorito il vitellino, separata da lui (con grande disperazione di entrambi, disperazione documentata: sia la mucca, che il vitellino piangono per giorni e giorni dopo la forzosa separazione) - già questo soltanto ("soltanto"? Ma chi può dire "soltanto"?" Anche il solo costringere un animale in gabbia è atto di inaudita violenza, enorme e grave!) è sufficiente per poter parlare di maltrattamento.
Se qualcuno vi tenesse chiusi in una gabbia, vi sfruttasse, in attesa comunque e sempre di essere macellati, come definireste la vostra esistenza? Ed il comportamento di chi vi costringe a ciò? Non vi sentireste un pochino maltrattati?
Il maltrattamento comincia nel momento esatto in cui un animale da allevamento (da macello o per la produzione del latte, uova ecc.) viene al mondo. La sua è una non-vita. Il maltrattamento è l'unica realtà della sua non-esistenza che egli potrà mai conoscere.
Come impedire tutto ciò? Smettendo di mangiare gli animali e di considerarli come oggetti. Sostenendo una sperimentazione farmacologica e ricerca alternative, comprando abiti ed accessori in materiali non derivati dallo sfruttamento animale. Informandosi. Divenendo consapevoli.
Quindi a me fanno solo ridere quei titoli che inneggiano a caratteri cubitali: "scoperti e rivelati episodi di maltrattamento grazie ad un video che mostra come... ".
Il maltrattamento è insito nella semplica parola "allevamento", "macello", "sperimentazione animale".
Ovunque ci giriamo c'è maltrattamento degli animali. Ovunque. Nelle piazze dove si vedono i cavalli trainare le carrozze per turisti, nelle vetrine dove sono esposti abiti ed accessori in pelle, nelle farmacie ove si vendono farmaci sperimentati sulla pelle di esseri indifesi, nei supermercati dove si vendono i loro corpi fatti a pezzi.
Maltrattamento è tutto ciò che concerne lo sfruttamento.
Non fatevi ingannare, non esiste uno sfruttamento etico, è un ossimoro. E, soprattutto, lo sfruttamento del vivente NON è necessario, se non a chi ci guadagna sopra.
E mi fanno ridere le attuali dichiarazioni della McDonald's a non rifornirsi più in quell'allevamento della California di cui sopra.
Forse la McDonald's - ed i suoi consumatori - credono che invece gli animali negli altri allevamenti - ma destinati comunque tutti al macello - facciano una vita migliore? Ma come si può avere la faccia così tosta? Semplice. Lo richiede la dura legge del mercato. Mentire, negare la verità, spacciare l'orrore come cosa buona e sana. Tanto prima o poi, a forza di continuare a ripetere gli stessi slogan menzogneri, la gente finirà per crederci.
Così anche stavolta ci sarà chi crederà che la McDonald's è una multinazionale etica perché compra carne proveniente solo da quegli allevamenti e mattatoi in cui gli animali vengono trattati bene. Ma allevamenti e mattatoi (e stabulari per la sperimentazione animale) in cui gli animali sono trattati bene non esistono. In tutti vi è maltrattamento, violenza, orrore, sfruttamento.
La
differenza tra animalismo, zoofilia, antispecismo, ambientalismo dovrebbe
essere scontata, ma di fatto non lo è per tutti e quindi proverò a dare
sinteticamente alcune delucidazioni in merito. (1)
L’ambientalismo
mira a ripristinare e/o mantenere l’equilibrio dell’ecosistema (sia locale che
globale). In poche parole gli ambientalisti non sono contro la caccia, la
pesca, lo sfruttamento delle risorse del pianeta (compresi gli animali) di
default, ma limitatamente al pericolo che queste attività possano mettere a
rischio alcune specie, danneggiare l’equilibrio flora/fauna o causare
inquinamento (inquinamento falde acquifere, dell’aria ecc.). All’ambientalismo
non interessa la singola vita in sé, a patto che la specie cui appartiene non
sia a rischio d’estinzione. La pesca, la caccia, gli allevamenti debbono poter
essere sostenibili, ossia appunto non creare scompensi a livello di
mantenimento dell’equilibrio ecologico. La pesca e la caccia selvaggia invece
non vanno bene. Questa è anche ad esempio la politica di Greenpeace che si
premura di salvare le balene e di sensibilizzare la gente ad acquistare tonno
pescato in maniera sostenibile. Ovviamente anche molti ambientalisti vedono di
buon occhio la scelta vegetariana o vegana, ed anzi consigliano di ridurre il consumo
di prodotti animali, ma non ritengono che mangiare animali sia assolutamente
sbagliato. Agli ambientalisti interessa il benessere del pianeta nel complesso,
ma se lo sfruttamento e morte della singola vita non incide su questo, allora
non ha importanza. Uccidere una formica, visto che non mette a rischio la
specie, è un male minore. Così allevare polli o vitelli. Purché appunto, lo si
faccia in maniera sostenibile (ossia tale da non smottare il terreno su cui si
tiene in equilibrio il pianeta). Conosco tantissime persone che si definiscono ambientaliste e di fatto si preoccupano tantissimo degli effetti delle loro azioni cercando di ridurre il più possibile l'impatto del loro stile di vita sull'ambiente: fanno la raccolta differenziata, non sprecano le risorse idriche, sono contro il nucleare, usano poco o niente la macchina, si interessano alle energie alternative ecc. però continuano ad indossare scarpe in pelle, a portare i loro figli allo zoo, a mangiare carne e pesce (pure se magari sarà carne "biologica" o pesce pescato in maniera sostenibile): queste persone sono ambientaliste, ma non animaliste. Mi sembra ovvio che invece l'animalista autentico non potrà non essere anche ambientalista perché se la sua battaglia è quella finalizzata a vedere un giorno tutti gli animali liberi nel loro habitat, ci terrà a preservare questo habitat, così come il proprio. Il mantenimento dell'ecosistema in condizioni sane ed ottimali è necessario per preservare la vita della fauna e della flora, finanche del più piccolo insetto, visto che tutto è correlato. La regola numero uno dell'ambiente è che tutto è correlato.
L’animalismo
a sua volta viene spesso confuso con quell’atteggiamento di cura e protezione
verso determinate specie - in genere le cosiddette specie d’affezione, ma
potrebbe includerne anche altre, come i rettili ad esempio - che è tipico
invece della zoofilia (ossia, amore per gli animali). L’amore per gli
animali o, come spesso accade, per il proprio animale, non necessariamente
collima con un’istanza di liberazione. Anzi, la vecchietta che tiene il
canarino in gabbia è sicurissima di riversare su di lui tutto il proprio
affetto; così come la signora che veste il cagnolino con abiti firmati e gli
mette persino gli stivaletti per non fargli sporcare le zampette, è la stessa
che poi una volta a casa si aprirà la confezione di prosciutto per prepararsi
un bel panino. E il ragazzo che acquista il pitone in un negozio e lo tiene
chiuso dentro una teca dandogli topolini vivi in pasto e che giurerebbe di
amare alla follia il proprio animale, può dirsi animalista? Ovvio che no!
La
gattara che ama i gatti, ma mangia il pollo, è animalista? No, sempre e ancora
no!
Il
cacciatore che si dichiara amante degli animali (quelli cui spara!), dei propri
cani da caccia e rispettoso della natura, può dirsi animalista? Non fatemi
ridere, per favore!
Chi
pratica equitazione e si sacrifica ogni giorno (con la pioggia, la neve, il
vento, il sole, la nebbia) per montare, strigliare, nutrire il proprio cavallo
- il proprio cavallo che adora alla follia e per il quale darebbe la propria
vita - è animalista? No, se poi va a casa e mangia altri animali o se sostiene
attività come il palio e si veste con scarpe di pelle.
Già
il verbo “amare” viene usato spesso a sproposito, confondendosi con la cura
spesso ossessiva, con il possesso verso un altro essere, con la gelosia al fine
di preservare l’unicità di una relazione, ma comunque sia, amare il proprio
animale o una determinata specie non è animalismo, bensì zoofilia.Tanti
si definiscono amanti degli animali, ma ad approfondire un pochino scopriamo
che essi amano solo determinate specie: cani, gatti, criceti, furetti ed altre
cosiddette d’affezione o anche ammirano i grandi felini, i primati e si
accontentano di soddisfare il proprio amore osservandoli con meraviglia da
dietro le sbarre: quelle dellle gabbie in cui questi esseri viventi sono
rinchiusi affinché gente ignara della complessità del termine “amare” possa
dire: “ooohhh, quanto amo le tigri, sono i miei animali preferiti!”.
Questo NON è animalismo! È zoofilia.
L’animalismo
invece, e qui veniamo al punto, è quella pratica e prassi che mira alla
liberazione degli animali, alla fine del loro sfruttamento e all’ottenimento
dei loro diritti ad essere rispettati, tutelati ecc.; va da sé che un vero
animalista non mangerà quegli esseri senzienti che mira a liberare. Né
incentiverà - anzi, si darà da fare per abolirle definitivamente - tutte quelle
pratiche ed attività in cui l’animale è ridotto a cosa, a mera risorsa
rinnovabile: quindi dirà no ai circhi, ad ogni tipo di allevamento, alla
sperimentazione animale, agli acquari, agli zoo ecc..
Il
limite dell’animalismo è che esso in genere non mira ad una trasformazione
radicale della società, ma pretenderrebbe di abolire lo sfruttamento degli
animali pur lasciando inalterato il sistema vigente, convinto che basterà
informare e sensibilizzare la massa sulla sofferenza degli animali per far sì
che essa smetta di sfruttare gli animali. In poche parole spererebbe - in
buonissima fede, ché qui non si vuole certo biasimare chi si adopera per tale
nobilissimo ideale - di riuscire ad aprire tutte le gabbie una volta che avrà
avuto luogo un’evoluzione di tipo morale per cui ogni individuo si renderà
conto che non ha diritto di uccidere le altre specie. Per l’animalista lo
sfruttamento degli animali è un pregiudizio morale, quel pregiudizio nato in seno
alla cultura in cui è nato per cui viene dato per scontato e considerato
“normale” cibarsi o sfruttare le altre specie. Ora, in parte ha ragione.
Verissimo che la prassi di sfruttare gli animali è culturale, ma è altrettanto
ingenuo pensare di estirparla semplicemente prendendone atto.
Ed
è qui che entra finalmente in gioco l’antispecismo. L’antispecismo va
oltre l’istanza di liberazione degli animali tutti - ché non discrimina tra animali umani e non umani, cosa che
invece l’animalista potrebbe fare, con quel suo spesso macchiarsi di razzismo e
pregiudizio verso altri popoli, in primis verso la propria specie
d’appartenenza, lasciando emergere tratti di una misantropia nemmeno troppo
velata, lanciandosi in invettive di odio verso altri umani che egli additerebbe
come responsabili della pratica di maltrattare gli animali, alla ricerca di un
capro espiatorio verso il quale riversare tutta la propria rabbia, amarezza,
delusione - mira infatti a decostruire radicalmente l’intero sistema entro il
quale - nel corso dei secoli, quindi da una prospettiva che è storica, sociale,
antropologica e politica insieme - lo sfruttamento del vivente si è
strutturato.
Che
significa? Ve lo spiego con un esempio. Molti si ostinano a non voler
riconoscere Michela Vittoria Brambilla come animalista. Così come a non voler
credere possibile un animalismo di una certa destra liberista. Invece
secondo me un animalismo di destra di questo tipo è possibilissimo. Ma non
l’antispecismo. L’animalismo infatti, come abbiamo visto, mira a liberare gli
animali non umani, pur pensando ingenuamente di poter lasciare inalterato
l’attuale sistema capitalista entro il quale avviene e si è radicata la prassi
dello sfruttamento del vivente. Non è quindi affatto inusuale vedere animalisti
fautori e sostenitori del libero mercato e del capitalismo più sfrenato. Così
si inneggia a non abbandonare i cuccioli dall’alto della proprie torre d’avorio
dove tutto rimane inalterato. Si propugna lo stile di vita vegano in
ottemperanza alle regole del libero mercato. Si vorrebbero liberare tutte le
gabbie e poi fotografare il successo con l’ennesimo prodotto tecnologico per
produrre il quale migliaia di operai sono stati sfruttati. Come si può pensare
di liberare gli animali, sostenendo al contempo lo sfruttamento della forza
lavoro? Per l’animalista ingenuo non c’è contraddizione in questo. O meglio,
forse non la vede, oppure se ne disinteressa. Molti animalisti odiano la specie
umana, la stessa
cui appartengono, ritenendola la causa di tutto il male che c’è nel mondo. In
realtà, così come dalla relazione tra due persone si viene a costituire un
terzo elemento che è l’essenza peculiare di ogni relazione, così quella radice
di ogni male che è lo sfruttamento normalizzato del senziente è nata
dall’interazione di una serie di fattori non strettamenti riconducibili alla
semplice azione diretta del singolo. Quindi non basterà convincere il singolo
(e la somma dei tanti singoli) ad abbandonare determinate pratiche per abolire
lo sfruttamento del senziente. Esso, lo sfruttamento, non è la somma di due +
due, è qualcosa di più che deve essere analizzato alla radice e quindi messo in
discussione. Il punto è che mettere in discussione ciò che appare a tutti come
ovvio è un compito difficilissimo. Compito che l’antispecismo si prefigge come
concreto, possibile, valido, necessario. Non siamo matti. Noi semplicemente
mettiamo in discussione questo sistema che ha normalizzato la follia della
violenza.
All’ultima
manifestazione animalista cui ho partecipato due persone su tre avevano
l’iPhone. Certo, l’animalista dirà che nessun animale è stato ucciso per
realizzare tale oggetto tecnologico. Non è fatto di pelle animale, né di osso o
altro.
L’antispecista
radicale (non estremista, bensì appunto radicale, ossia che cerca di andare alle
radici della questione) che è in me però non può tollerare la vista di un
oggetto che è simbolo del capitalismo e consumismo attuale. La Apple è un
marchio sporco, sporchissimo. Di recente si è scoperto che in alcuni
stabilimenti asiatici gli operai venivano costretti a turni di lavoro
durissimi, sottopagati, non tutelati dai diritti sindacali. Dico la Apple
perché è il primo marchio che mi viene in mente. Ma potrei dirne altri.
Come
si può definirsi antispecisti se poi con i propri acquisti si contribuisce allo
sfruttamento del vivente? Ora, sia chiaro, io non intendo biasimare nessuno,
ché qui nessuno di noi è puro, né le azioni di nessuno potrebbero mai dirsi ad
“impatto zero”. Sono sicura che anche io contribuisco attraverso i miei
acquisti allo sfruttamento di esseri viventi. Quando compro le scarpette in
eco-pelle “made in china” ad esempio avrò evitato di partecipare dell
sfruttamento degli animali, ma sicuramente avrò incrementato lo sfruttamento
del lavoro minorile o femminile in quei paesi in cui non è regolamentato (in
Cina, appunto).
Quello
che sto dicendo di dire è che però essere antispecisti significa essere
consapevoli di questa complessa realtà di sfruttamento e volerla cambiare,
destrutturare, decostruire. La visione antispecista è lungimirante, certo,
alcuni, anzi molti, la definiscono utopica, idealista, donchisciottesca. Chi ci
definisce così magari è altrettanto indignato, ma finisce per rassegnarsi, il
che equivale a dire ad accettare. Si rende quindi complice in prima persona del
sistema che egli stesso depreca volentieri. Chi ha i mezzi per fare, ma non
agisce, si rende egli stesso colpevole.
Voler
cambiare il sistema basato sullo sfruttamento del vivente non è utopico,
affatto. Così come l’essere umano è riuscito a mettere su un certo tipo di
società, ha anche le potenzialità per distruggerla o cambiarla.
Chi
si rassegna non è che diviene più adulto perché ha finalmente compreso le dure
leggi della realtà, semplicemente ha scelto la via più comoda, quella
dell’ignavia, del mantenimento dello status quo. Ha scelto, per comodità, di
stare dalla parte del Potere perché il Potere ha sempre in vista il
mantenimento dello status quo.
L’opposizione,
la lotta verrà quindi sempre additata come ribellione giovanile, come
estremismo, tutti trucchetti semantici messi in atto dalla propaganda per mettere a tacere chi invece ha
consapevolezza politica e desiderio di agire per imprimere un cambiamento.
Diffidate
- mi rivolgo soprattutto ai giovani - di chi vi dice: “devi mettere la testa
a posto, devi accettare la realtà”.
Mai
omologarsi, mai accettare, sempre dubitare di tutto, sempre mettere tutto in
discussione. Solo così ci si potrà allenare per il sano esercizio della critica
del reale.
Vorranno
sempre darvela a bere, ché la realtà è immodificabile e che prima la si accetta
e prima si vive felici. No, prima la si accetta e prima si muore. In gabbia.
Nella
gabbia di questa società che noi stessi abbiamo collaborato ad erigere. Ma così
come abbiamo avuto la chiave per chiuderci dentro, abbiamo anche quella per
aprirla. Basta sapere di che pasta siamo fatti!
(1) Ovviamente i confini entro i quali ho rinchiuso le categorie degli animalisti, ambientalisti, zoofili, antispecisti sono propedeutici ad un'estrema sintesi che qui ho voluto fare, quindi arbitrari, non corrispondenti - se non a grandi linee appunto - alla complessità dei fenomeni teorici e pratici che essi rappresentano. Io, ad esempio, sono sia animalista che antispecista, ovviamente anche ambientalista nel senso che ho a cuore il benessere del pianeta tutto, ma vi includo quello di ogni singola vita e, in una certa misura, sono anche zoofila perché nutro un affetto sconfinato per i "miei" gatti e cane, senza che esso però vada a discapito di tutti gli altri. Anzi, direi che in me l'animalismo prima ed antispecismo poi è stata la conseguente evoluzione di un immaturo atteggiamento zoofilo. Da bambina amavo gli animali infatti, principalmente i cani, ma mangiavo altre specie. Insomma, come sempre la realtà è infinitamente complessa e credo che pochi quanto me detestino le approssimazioni e le riduzioni terminologiche, ma talvolta non si può fare a meno di usarle, soprattutto per evidenziare differenze. Quello che è importante è sforzarsi di evolversi, di superare i confini, di lasciare che alcuni atteggiamenti acerbi poi abbiano tempo e modi di farsi più maturi e consapevoli.
Candidato agli Oscar 2012 come miglior film straniero, Monsieur Lazhar di Philippe Falardeau, è un film delicato ed intenso al tempo stesso. Intenso perché mette in scena ben
due drammi – con i loro strascichi di dolore e conseguenze -, delicato
perché le emozioni e la psicologia dei personaggi emergono e si
delineano a poco a poco grazie ad un attento studio che privilegia
l’approccio naturalistico anziché la messa in risalto degli elementi
artificiosamente drammaturgici in quanto tali.
Fuori
è una bella giornata e mi farebbe bene fare una passeggiata in una Roma
deserta. Oh sì, specialmente in questa Roma deserta. Ma in questo periodo, oh
sì, specialmente, in questo periodo, quando mi viene voglia di scrivere non
posso rimandare, ho come una strana urgenza. E pazienza, la passeggiata
aspetterà.
Non
che i miei pensieri siano sempre meritevoli di essere condivisi, infatti, forse
per la primissima volta in vita mia, senza finzione, posso dire di scrivere più
per me che per gli altri. Se poi chi si troverà a passare di qui trovasse
questi pensieri degni di approfondimento, beh, benvenuto.
A
14 anni mi hanno fatto leggere Il Piccolo Principe, in francese. Un testo
semplice per imparare la lingua, adatto ai principianti (io ho frequentato il liceo
linguistico) e per di più non banale, denso di riflessioni. O almeno questo è
quanto mi si diceva all’epoca. A dire il vero a me Il Piccolo Principe non è
che abbia mai fatto impazzire. O forse non è neanche del tutto vero. Non
saprei, trovavo che fosse una bella storia, impreziosita da quei bei disegni,
ma non un capolavoro. C’è che forse a 14 anni avevo già letti tanti classici e
quindi le mie esigenze erano piuttosto alte. Non lo dico per vantarmene, ma è
la verità. Quando hai letto Delitto e Castigo, hai letto tutto, pensavo. E, in
effetti, continuo in parte a pensarlo ancora oggi. Comunque mi hanno sempre
dato fastidio quei libri cult che piacciono a tutti, di quelli che le ragazzine
regalano ai loro fidanzatini per far veder loro quanto sono sensibili e
“strane”, e “pazze” ed “originali”: libri come Siddharta, per capirci. E Il
Piccolo Principe, appunto. “Un concentrato di poesia”, “un libro cooosì
poetico”. Mah. Certo, sono letture di formazione, adatte agli adolescenti.
Eppure Grandi Speranze, Il giovane Holden, così come I turbamenti del giovane
Törless sono romanzi che rimangono non privi di sorprese pure se letti in età
più adulta, sono letture polisemantiche in cui, anzi, i dialoghi e le scene
mutano il loro valore, spessore, significato a seconda della testa di chi
legge. Il Piccolo Principeno. Non è uno di questi. Fatto sta che all’epoca
pensavo di dover fingere che il libro di Saint-Exupéry mi piacesse perché
sapevo che quello avrebbe dovuto essere il giudizio di una ragazzina come me,
della mia età. E la cosa mi faceva sentire a disagio, un po’ perché fingere mi
ha sempre fatto sentire a disagio, un po’ perché sforzarmi di provare certi
sentimenti per aderire ad un concetto di “normalità” mi faceva sentire ancora
più disattata, proprio come Mersault, il protagonista de Lo Straniero (questo
sì che era un romanzo che mi era piaciuto davvero!), un po’ perché pensavo che
in me ci fosse una mancanza, che fossi priva della capacità di commuovermi ed
apprezzare le avventure del biondo principino. Ora non fraintendetemi, non è
che non mi fosse simpatico, non è che non mi fosse piaciuto leggerlo, ma l’ho
sempre trovato stucchevole, forzato, plasticosamente poetico.
Comunque
poi lo rilessi negli anni a venire, più volte ed una l’ho persino regalato. Ero
a corto di idee.
Vi
sto parlando del principino biondo per via della famosa scena con la volpe.
Quella che tutti amano e che tutti si commuovono a leggere perché parla del
valore dell’amicizia.
L’altro
giorno una ragazza l’ha citata su un blog e così mi è tornata in mente. E
insieme uno strano fastidio. La verità è che quella scena è il trionfo
dell’avarizia dell’empatia. La volpe dice al principe: “Tu, fino ad
ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho
bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe
uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno
dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.”.
Sorvolando sul termine “addomesticare” che, così come lo intende
la volpe significa “creare dei legami”, è proprio il concetto di empatia e
riconoscimento dell’altro in quanto individuo unico in virtù di un legame di
amicizia e quindi limitato che mi lascia perplessa. Ora il messaggio metaforico è in fondo
molto semplice e bello - appunto si riferisce all’amicizia e al tempo che
richiede per conoscere l’altro, per fare in modo che da due individui si formi
quel cosiddetto terzo elemento che non è la somma dell’uno e dell’altro, ma
un qualcosa di più, di unico e possibile solo nell’incontro tra quelle due
specifiche persone perché se al posto di una ce ne fosse stata un’altra non
sarebbe stato la stessa cosa, ma un’altra ancora; e quindi è dell’unicità
dell’individuo e insieme dell’amicizia tra due specifici individui che parla
Saint-Exupéry - e forse non ha senso andare a scavare così a fondo, eppure quel
“Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi
addomestichi, noi avremo bisogno uno dell'altro” mi ha fatto
inevitabilmente pensare all’amore che la gente prova per il proprio animale e
per gli animali d’affezione in genere, mentre tutti gli altri rimangono invisibili.
Conosco persone che si farebbero togliere un rene pur di curare il loro cane o
gatto, ma che non si degnano di portare due croccantini ad un randagio
palesemente in difficoltà. Per non parlare di tutti gli altri invisibili, quelli lontano
dagli occhi, lontano dal cuore che sono rinchiusi nei macelli, negli
allevamenti, negli stabulari, nelle gabbie dei circhi e degli zoo.
Questo
concetto di empatia limitata ad un solo individuo - nello specifico quello con
cui si instaura una relazione amicale o con cui è possibile intravederne gli
sviluppi - a me non piace, trovo che sia di un’aridità infinita. Sì, è molto
bello che la volpe poi impari a riconoscere le sfumature del biondo dei capelli
del principino e a riconoscere i suoi passi e che trovi gioia in questo,
nell’attenderlo, nell’unicità di questa relazione e che il principino impari a
fare altrettanto, ma di tutto il resto delle volpi, dei bambini, di ogni
“altro”, che ne è? Che ognuno dovrà arrangiarsi a trovarsi qualcun altro che
l’addomestichi affinché diventi per lui unico al mondo? E quindi dovremmo
vivere ognuno a comparti stagni sotto una campana di vetro con l’ossigeno
limitato al soffio dell’uno sull’altro?
“L’essenziale
è invisibile agli occhi” dirà ancora la volpe. “È il tempo che tu hai
perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. Già.
Ma
chi dedicherà del tempo a tutti gli invisibili del mondo? Essi dunque
non conteranno mai niente perché nessuno si è mai soffermato ad osservare
quella particolare scintilla di vita nei loro occhi? Non mi piace, non mi piace
questo concetto espresso da Saint-Exupéry. È un invito a chiudere il cerchio
dell’empatia, un invito a considerare solo colui con cui si instaura una
relazione di tipo affettivo, un invito a considerare il bisogno che l’uno ha
dell’altro come presupposto fondante dell’amicizia o dell’amore. “Se tu mi
addomestichi... io sarò per te unica al mondo.” dice la volpe. E invece no.
Non
c’è alcun bisogno di “addomesticare” per poter riconoscere l’altro come unico
al mondo. Unico è ogni singolo individuo, animale, uomo che pure non incrocierà
mai il nostro sguardo.
Pensateci
cari signori e signore che amate tanto il vostro cagnolino, ma che non degnate
nemmeno di uno sguardo l’ennesimo piccione trovato ferito sul ciglio di un
marciapiede. Io non ho mai addomesticato quel piccione, eppure gli ho dedicato
il mio tempo. E ora non è più unico di altri. Sono anche tutti gli altri ad essere
sempre stati unici.
Ed è per questo che ho potuto vederlo mentre continuava a
restare invisibile al resto del mondo.
Citando
il capolavoro cronenberghiano, è una storia di violenza o una Storia della Violenza quella
cui hanno assistito i numerosi passanti in Times Square?
Può
la Polizia sparare a freddo decine di colpi su un uomo reo soltanto di essere
stato fermato mentre fumava uno spinello e di aver tirato fuori un coltello
mentre gli si intimava di tirar fuori i documenti? Non sapremo mai la sua
versione dei fatti, se il suo tentativo di fuga dalla polizia sia stato dovuto
alla paura di essere scoperto magari senza permesso di soggiorno o se la sua
sia stata un’istintiva reazione al timore di finire in carcere per il possesso
di droga o chissà cos’altro. Quello che sappiamo è che lo si sarebbe potuto
fermare in mille altri modi, senza bisogno di sparargli al petto e di
ucciderlo. Non aveva un mitra con il quale avrebbe potuto compiere quel che si
chiama un “mass murder”, era armato solamente di un coltello, oggetto dal quale
avrebbe potuto essere disarmato con un po’ di accortezza; al limite, ecco, gli
si sarebbe potuto sparare alla gambe. Senza considerare che sparare così tutti
quel colpi in una delle più popolari e frequentate piazze di New York, a
quell’ora del giorno, avrebbe potuto ferire anche qualche passante e causare
altri morti.
Cronenberg
nel suo film parla di un “seme della violenza” che sarebbe inestricabilmente
radicato nell’anima della cultura americana, quella cultura edificata
sull’usuparzione delle terre, sulla colonizzazione più spregiudicata, sui miti
dell’efficienza e dell’utilitarismo conditi in buona parte dalla salsa acida
del calvinismo più rigido e spietato, quello secondo il quale il successo nella
vita è sintomo ineludibile di Grazia, mentre la disgrazia, la povertà, la
malattia sono le stimmate della perdizione, i segni evidenti di una
predeterminazione senza appello.
Il
concetto di Stato assistenziale non esiste nella cultura americana, l’homeless,
lo storpio, chi perde il lavoro, chi non ha i soldi per pagarsi l’assicurazione
sulla salute, chi cade in disgrazia è il marchiato a vista che merita di essere
allontanato dalla comunità, così come lo “strano”, il “diverso”, colui che la
domenica non partecipa del rito del “barbecue” in giardino con allegra
famigliola al seguito è qualcuno dal quale è meglio stare alla larga.
La
difesa della proprietà privata - che tradotta in gergo calvinista è il premio
del duro lavoro, l’evidenza della grazia ricevuta espletata attraverso la
faticosa conquista di ogni millimetro di terreno e di ogni aspetto della natura
(animali compresi) il cui unico scopo è quello di essere “sfruttata e
custodita” dall’uomo per realizzare il regno di Dio in terra - finanche con la propria vita, o... come
accade molto più spesso, a discapito di quella altrui, è il simbolo di un
accanimento nel voler a tutti i costi mantenere e proteggere un risultato il
cui valore, più è difeso con i denti e più rimane dubbio agli occhi del resto
del mondo.
La
verità è che la storia degli Stati Uniti comincia sotto il segno di una
violenza e di uno sterminio (quello degli Indiani d’America) e prosegue con una
politica aggressiva e di sopraffazione finalizzata all’estensione dei propri
domini economici, politici, culturali. Nato in un paese dalla radici così
profondamente contaminate ogni Americano, come suggerisce l’amara parabola di
Tom Stall/Viggo Mortensen, porterà nel corpo i segni ineludibili della
violenza. Una violenza dalla quale ci si può riscattare e discostare - o che si
può camuffare, rimuovere, finanche legittimare, certo - ma di cui resterà sempre una traccia, come cicatrice
indelebile, sotto la pelle: una malattia in limine, incubata, pronta a
manifestarsi alla prima occasione di minaccia delle proprie difese immunitarie.
Il
diverso, il povero, l’immigrato è l’elemento estraneo che deve essere assorbito
dal sistema oppure espulso, come un virus malefico. Ma quel che gli Americani
non hanno capito è che loro stessi sono portatori di quel virus della violenza
dal quale cercano ad ogni modo di difendersi.
Sogno
da una vita di fare un viaggio negli States, uno di quelli in auto lungo quelle
strade lunghissime che tagliano le vaste praterie, ma il pensiero di potermi
trovare un giorno nel posto sbagliato al momento sbagliato in uno stato in cui
vige la pena di morte sinceramente mi atterrisce. Il segno della grazia divina
non è tanto visibile sulla mia fronte, piuttosto ho lo stigma di chi pende
dalla parte di tutti i diseredati, gli oppressi, gli indifesi del mondo; e non
perché io lo sia, ma perché è lì che scelgo di stare ogni giorno.
Si chiama Fishlove Photographic Project (ne sono venuta a conoscenza leggendo un articolo di Marina Berati pubblicato su questo sito)
ed è una campagna nata quattro anni fa da un’idea dell’attrice Greta
Scacchi e dello sceneggiatore Nicky Röhl per promuovere e diffondere il
concetto di “pesca sostenibile”. Gli autori sostengono che
bisognerebbe incentivare quella pesca che viene praticata con metodi
meno invasivi e nel rispetto delle specie protette in via d’estinzione.
Il tutto per salvaguardare la biodiversità degli oceani...
San Lorenzo, io lo so perché tanto di
stelle per l'aria tranquilla arde e cade, perché si gran pianto nel
concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto: l'uccisero: cadde tra i spini; ella aveva nel becco un
insetto: la cena dei suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che
tende quel verme a quel cielo lontano; e il suo nido è nell'ombra,
che attende, che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo
nido: l'uccisero: disse: Perdono; e restò negli aperti occhi un
grido: portava due bambole in dono.
Ora là, nella casa romita, lo
aspettano, aspettano in vano: egli immobile, attonito, addita le
bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall'alto dei
mondi sereni, infinito, immortale, oh! d'un pianto di stelle lo
inondi quest'atomo opaco del Male!
Giovanni Pascoli
Questa del Pascoli è una delle mie poesie preferite, sin da quando ero bambina e mia madre me la recitava a memoria spiegandomene il significato, raccontandomi di come nella poesia si facesse un'analogia tra l'iniqua morte del padre del poeta (avvenuta appunto il dieci agosto) e quella della rondine, entrambi uccisi da un colpo di fucile e di come egli immaginasse che "le stelle cadenti", particolarmente visibili appunto nella notte di San Lorenzo, fossero le lacrime versate dal Cielo ad inondare la terra, definita "atomo opaco del male".
Solo oggi però ne "comprendo" e "vivo" pienamente il senso.
E quando penso alla straziante agonia di tutte le creature che attendono, che pigolano sempre più piano,tutto intorno e dentro di me si spegne e muore. La mia anima un piccolo puntino che si fa sempre più opaco fino a scomparire. E non c'è più "io", io sono tutte quelle creature che pigolano e attendono, io sono la rondine uccisa ed i suoi piccoli, io sono il poeta ragazzo che si strazia per la morte del padre (uno dei tanti lutti che Pascoli visse, la sua esistenza segnata come fu dalla perdita di tanti familiari), io sono la stella che si spegne, io sono la casa dove la tragedia si consuma, sono il pianto e la disperazione, ciò che è ineludibile. L'impossibilità di ogni gesto e senso.
Questo che segue è un pezzo che ho scritto più per me che non per altri, anzi esclusivamente per me, com'è che si dice, tanto per mettere nero su bianco certi pensieri e così sperare di dargli una forma, di renderli qualcosa di più di emozioni inintelligibili, pure se di fatto è diretto ad una persona a me molto cara. Una persona che avrebbe potuto essere mia sorella, tanto siamo unite, ma non lo è, una persona che è comunque più di un'amica anche per il legame di sangue che ci lega. Mia cugina, in poche parole. Non credo legga il mio blog. Sa che da qualche parte del web ho un blog, ma così presa com'è dalle cose della sua vita non naviga che il necessario, giusto per cercare qualcosa di utile. Perché lo posto qui? Perché sono stanca di censurare i miei scritti, soprattutto quelli intimissimi come questi, e perché tanto confido nel fatto che in questi giorni di pre-ferragosto sarà già tanto se mi leggeranno quattro persone, quindi posso espormi un po' più del solito. Insomma, che ve ne freghi o meno, io lo lascio qui questo mio scritto, anche come segno di questo periodo particolare che sto vivendo. Un segnalibro, diciamo così.
Buona lettura. :-)
Da leggere magari ascoltando il pezzo sotto: (in questo periodo sono, come si suol dire, in fissa con i Placebo; il mio scritto l'ho steso ascoltando a ripetizione ossessivo-compulsiva: Battle for the sun, Black-eyed, Every you, every me, For what it's worth, Song to say goodbye, Twenty years e quello di cui ho messo il link, il mio preferito del momento.)
**** **** ****
A
volte ho dubitato di te, del tuo complesso spessore che invece mi sono sempre
ostinata a volerti riconoscere. In questi anni ci siamo così tanto perse di
vista. Così tanto da non sapere più se l’immagine che ho conservato di te nei
miei pensieri sia mai davvero esistita.
Poi
invece ecco che torni a sorprendermi. E realizzo che se c’è una persona al
mondo che mi conoscere davvero bene, quella sei tu. Non nel senso di sapere
tutto proprio tutto di me. Sai bene che io conservo dei segreti, che ci sono
cose di me che non rivelerò mai a nessuno e non per disonestà, ma per pudore.
Però la tua maniera di rispettare i miei silenzi e il mio “essere con la testa
tra le nuvole” - quando sapevi benissimo che non ero affatto sulle nuvole,
ma dentro di me, giù in qualche posto dal nome impronunciabile perché un nome
non ce lo può avere - seppure spezzata a volte dalla curiosità che emergeva a
tratti sul tuo viso, è anche quella una maniera di starmi e stare vicine. E
soprattutto, nessuna più di te è mai riuscita ad interpretare le mie tante
espressioni, i miei sguardi, persino - anzi, soprattutto quelli - involontari,
non controllati, non mediati e quindi più autenticamente rivelatori. Ti ricordi
quella volta a Bologna quando ti feci scendere in quella stazione di servizio per
chiedere informazioni? Quando risalisti, subito dopo, dicendo che non avevi
saputo chiedere perché ti vergognavi, ti detti uno sguardo così eloquente, ma
così eloquente che non avrei avuto bisogno di aggiungere altro, seppure mi
fossi coscienziosamente sforzata di non lasciar trapelare la mia irritazione. E quanto me lo facesti pesare quello sguardo del quale avevi percepito tutto lo scazzo del momento, della vacanza appena conclusa, del viaggio, la stanchezza, tutto ovviamente rivolto a te come rimprovero per non essere riuscita a darmi quel piccolo, banale aiutino. Sebbene, non avessi voluto, ecco, farti quello sguardo. Era uscito così, il tempo di un attimo e poi già a sviare il volto, e tu l'avevi colto. Piccolezze, piccoli particolari, ma assai significativi per noi e di noi rivelatori.
E
poi conosci parecchi scheletri del mio armadio, e li conosci così bene, i
perché ed i percome che potresti persino chiamarli con nome ad uno ad uno.
E
sebbene tu non mi abbia mai risparmiato le tue pungenti e spesso sarcastiche
critiche, in fondo, se non proprio compresa, hai sempre continuato a volermi un
gran bene.
Un
bene così grande di cui ti sono gratissima e di cui sono orgogliosissima.
Ti
ricordi quando ebbi l’incidente con il motorino e fui costretta a letto per un
mese con la gamba ingessata? Che tu, per non lasciarmi, non uscisti più di casa
se non per andare a svolgere le commissioni per mia madre? Ti ricordi che
facesti finta di esserti rotta un braccio e girasti con quella fasciatura finta
per tutto il paese, così, per solidarietà verso di me?
Già,
avevamo 14 anni ed insieme facevamo veramente un cocktail micidialmente
esplosivo. E quante ne abbiamo combinate negli anni a seguire, a 15, 16, 18
anni... nulla ci metteva paura, nulla ci sembrava impossibile, e comunque, pure
se avevamo paura, lo facevamo lo stesso. Ricordi? Tu eri quella che aveva le
idee, ma poi si tirava indietro, io quella capace di sfinirti fino a che non mi
avessi confermato che sì, le avremmo messe in pratica. Io ero quella che non
riusciva a starsene tranquilla nemmeno un po’, e tu mi dicevi sempre, "ma possibile che non sai stare senza far niente nemmeno cinque minuti?"; quella che la notte non c’era
verso di dormire o di tornare a casa, quella che al mattino veniva a svegliarti con lo yogurt su un piattino
anche se ti faceva schifo perché andava a me e perché se lo mangiavo io lo
dovevi mangiare anche tu. Io ero quella che da bambina ti costringeva a giocare
al giochino delle parole di Archimede per cui ero praticamente invincibile
visto che mi allenavo da sola e a cui tu, proprio perché tanto sapevi che avrei
vinto io, non volevi giocare. E, andando ancora oltre il tempo dei ricordi lucidi, a
quelle prime immagini di noi piccolissime, io ero quella che chiudeva a tripla
mandata la porta e si piazzava con il suo corpicino a gambe e braccia allargate
a sbarrare il passaggio per non farti andare via. Quella che dopo mesi che non
ci vedevamo ti accoglieva stracolma di entusiasmo e ti prendeva la manina per
trascinarti in camera a giocare, ma tu quella che, timida timida com’eri e
sopraffatta dalla mia esuberanza, alla quale ti serviva sempre un po’ di tempo
per abituarti, invece mettevi il broncio e quasi scoppiavi a piangere,
provocando in me un moto di delusione e rabbia al tempo stessa; o forse la
rabbia era solo una maniera per reagire alla delusione.
Io
quella che ti spinse per gioco dal bordo della vasca e ti fece battere la testa
e poi ti supplicò di non dire a mamma che ero stata io e mamma, per la paura
che si era presa, ti ci diede pure un ceffone sopra.
Ancora
io quella che, abituata com’ero a ricevere sempre tutti i complimenti e da
tutti, quella volta che la signora Dora ti disse che eri proprio carina con
quel vestititino, ti diedi, per tutta risposta, uno schiaffo sulla guancia.
Ero gelosa, certo. Ti amavo, ma ero gelosa ché quando venivi la mamma pensava
più a te che a me, cosa che io, da figlia unica, proprio non riuscivo a
concepirlo. E chissà, forse quella fissazione di volere sempre le cose uguali
per tutti e due era una maniera come un’altra per fare in modo che non ci fosse
nessuna rivalità. Ché le competizioni le ho sempre detestate, abituata com’ero
a primeggiare senza bisogno di scendere nemmeno in campo. Così, per default.
Tutto
questo per dirti che abbiamo condiviso tantissimo e che sempre, pure se magari
distanti per mesi, siamo state in grado di riacciuffare al volo quell’affinità
che dall’origine si era venuta a creare tra noi, sin da molto prima dell’età
della ragione (così almeno mi racconta mia madre).
Per
cui quando l’altro giorno mi hai detto quella cosa mi hai fatto scattare
qualcosa dentro, qualcosa che è saltato come una molla.
A.
mi ha detto che è come se avessi avuto un’epifania. Non saprei. A quanto ne so
per epifania si intende una rivelazione che giunge improvvisa dalla realtà,
anche quotidiana, anche quella più prosaica, come una luce che si accende
repentina e ti mostra qualcosa che prima non avevi mai visto. In questo senso
forse è così. Però quel che mi hai detto ha fatto qualcosa di più perché
continua a scavare, a scavare, a scavare un tunnel in cui entra a poco a poco
sempre più luce.
Quando
mi hai detto che ritrovando e rileggendo quei tuoi vecchi diari su cui ogni
tanto scrivevo qualcosa anche io e quelle lettere che ci scambiavamo
abitudinariamente è come se tu avessi avuto la chiara e forte percezione che in me
un tempo ci fosse stata un’altra persona, con una personalità del tutto diversa
e slegata da quella di adesso, quasi se ne fosse venuta a sovrapporre una seconda nel tempo, è stata per me veramente una rivelazione - nonché conferma della tua sagacia e capacità di percepire oltre.
Mi
hai detto: “ma che ti è successo, che ti è successo ad un certo punto?Perché è chiaro che qualcosa è successo”.
E da allora non faccio che pensarci, da quello stesso istante in cui abbiamo chiuso il telefono.
Già,
mi sono detta - che mi è successo? - perché sì, ora è chiaro pure a me che qualcosa è successo. E mi sconvolge non averlo realizzato prima.
Io
ora non so esattamente cosa, se un singolo episodio, o tanti insieme, il tutto,
tutto ciò che stavo vivendo allora così da intravedere mille ipotesi, la
malattia di mia madre, per dirne una, che ci ha spiazzati tutti e che ha
spazzato tutto via, la leggerezza, le risa, l’incoscienza ed in cambio ha portato
il suo bel carico di senso di colpa. Non so come, né esattamente quando e cosa,
ma è vero che qualcosa ad un certo punto è avvenuto in me. Ci ho riflettuto. E sto continuando a farlo.
E una cosa l'ho capita, che ècome se io ad un certo punto avessi voluto farmi da
parte, ridimensionarmi, rimpicciolirmi (anche in senso materiale, in fondo fu pressapoco
in quel periodo che iniziai ad avere problemi col cibo e che passai attraverso
la devastazione - più mentale che fisica, nel mio caso, riuscendo comunque ad
uscirne - dell’anoressia).
La
verità è che ad un certo punto ho avuto timore di dar fastidio, di dar fastidio
a qualcuno, qualcuno che non so bene chi, e che proprio perché
in-individualizzabile è finito per diventare tutto il mondo. Paura, anche, certamente, oh, questo lo so bene, di esprimere pienamente tutte le mie potenzialità.
Paura di essere esplosiva, di far male, di dar fastidio e poi presto paura di
ridere persino, di essere felice. Ad un certo punto sono diventata un'altra persona.
Mi
vedo camminare su una strada, a testa alta, spavalda, sicura di me, leggermente
incosciente, leggera, ma di quella leggerezza che non è mai superficialità quanto il
voler togliere i pesi dall’anima per lasciare che voli via, al pari di una
mongolfiera. Una leggerezza sostanziale insomma; e me lo dicesti una volta, che io ero frizzante, proprio così, come un vino bianco leggero bevuto d'estate col caldo, ubriacante quasi; e poi vedo sempre me su quella
stessa lunghissima strada, guardarmi intorno e poi abbassare gli occhi e farmi
da parte, e chiedere scusa a destra e a manca mentre inciampo ed urto sui corpi
e più inciampo ed urto e più vorrei sparire. E sento quella leggerezza farsi
sempre più insostenibile e quindi divenire improvvisamente il nemico da
combattere, il male oscuro da sconfiggere. Che strano, eh, scambiare la leggerezza e l'essere genuinamente frizzanti con il lato oscuro del proprio animo.
Quindi,
su una cosa hai torto. Non è che sono diventata meno “cazzuta”, come hai detto
tu, non è che prima avevo le palle e poi le ho perse per strada (per quanto
detesti queste espressioni sessiste e maschiliste, come se una donna per essere
davvero in gamba dovesse per forza avere il cazzo e le palle o altri attributi
caratteriali di segno maschile; ma so che la tua era solo una maniera dì dire e
so anche che insieme abbiamo tante volte demolito le opinioni comuni ed i
condizionamenti culturali oppressivi della libertà delle manifestazioni del
singolo). Non, si tratta di quello, io non sono affatto una persona che prima
era un po’ stronzetta e si faceva largo a spallate nel mondo che poi improvvisamente è diventata buona e gentile con
tutti. Sai bene che le apparenze ingannano e stai tranquilla che i piedi in
testa non me li faccio mettere da nessuno e che improvvisamente posso rivelarmi
molto più aggressiva e combattiva di quello che apparentemente può sembrare. Io
mi riferisco piuttosto a qualcosa di molto profondo e molto più radicato e
stratificato nella mia personalità, qualcosa che ad un certo punto ho voluto
mettere a tacere, zittire, chiudere ermeticamente, fare da parte.
Cosa?
Veramente quella
mia natura così esplosiva che faceva le cose solo perché dal momento che si potevano
fare, beh, perché non farle? Ovviamente solo se erano cose che non facevano male a
nessuno, ché la testa sulle spalle l’ho sempre avuta, il rispetto per gli altri anche, mai stata davvero
irresponsabile o incosciente. Oddio... forse in un paio di occasioni...
giustificati dall’assenza di esperienza. ;-)
E perché mai poi?
Insomma,
sto cercando di capire quale sia esattamente l’essenza e le peculiarità di
quella parte della mia personalità che tu ad un certo punto hai visto svanire
senza poterci fare nulla. Ma, cosa più importante di tutte, sto cercando di
recuperare solo il buono di quella parte. Perché la stronzaggine, la
spavalderia, la supponenza, quell’arroganza che a volte emergeva in me, quella
no, quella vorrei lasciarla stare giù in fondo dove l’ho seppellita. So però
che quella era la parte malata di qualcosa di positivo, propositivo e combattivo che invece
devo assolutamente recuperare. E soprattutto la leggerezza, quella leggerezza che non è superficialità, ma abbandono di ogni pesantezza.
E,
se lo sto capendo e se già da giorni avverto in me dei cambiamenti,
impercettibili quasi all’esterno eppure significativi, è grazie a te. Prendere coscienza di una parte del sé, di certi meccanismi, si dice in psicanalisi che non porti automaticamente alla risoluzione del problema. Ma che è una strada che si apre e che conduce ad una maggiore consapevolezza del sé. Ed è già tantissimo.
Quindi, dico ancora grazie a te, che pure nella distanza, non hai mai saputo perdermi di vista. Cosa che
invece io forse ho fatto con te.
(Al telefono con mio padre, che non è antispecista e non
perde mai occasione per sfottermi sull’argomento):
- hai visto i vetturini delle botticelle, sono arrabbiati eh
con voi animalisti?
- eh sì, ma hanno poco da arrabbiarsi, hanno torto marcio,
cambiassero lavoro. Si prendessero un risciò per portare a spasso i turisti,
gli costerebbe anche molto meno. In altre città, come Londra, funziona.
- beh, con il risciò si fatica...
- beh, così non costringerebbero i cavalli a faticare per
loro.
- ma guarda che anche i vetturini hanno il loro bel da fare,
mica solo i cavalli, anche loro stanno sotto al sole, al freddo... e poi dai,
non è vero che trattano male i cavalli, loro ci guadagnano coi cavalli, per
loro sono denaro, quindi figurati se li trattano male...
- appunto, l’hai detto, per loro non sono altro che
guadagno, merce, oggetti, un mezzo di trasporto come un altro, alla stregua di
un taxi. Non si può parlare di “buon trattamento” con questi presupposti. O
diresti la stessa cosa dei papponi che sfruttano le mignotte? Certo gli danno
da mangiare altrimenti non potrebbero farli trottare, certo la sera li mettono
a dormire nei box, ma dopo... (con voce un tantino alterata)... dopo una cazzo
di vita di così duro sfruttamento sai dove vanno a finire? Al macello, al
macello li portano, manco la ricompensa di un prato su cui riposarsi finalmente
liberi da briglie e peso di carrozze...
e che cazzo!
- ma ci vanno da vecchi al macello... quando sono ormai
vecchi...
- ti ci porto pure a te? E non ti sembra orribile mandare
degli esseri senzienti al macello per di più dopo una vita di sfruttamento?
- ah Rì, ma di quale sfruttamento stai parlando? I cavalli
si sono sempre usati per il trasporto, da sempre, pensa prima dell’invenzione
delle macchine... è sempre stato così!
- sì, ma appunto ora
abbiamo le macchine. Se la tecnologia è servita a qualcosa è stato appunto a
sostituire il lavoro pesante degli esseri viventi con le macchine. Una volta
c’erano gli schiavi che remavano per far navigare le imbarcazioni, una volta il
contadino usava il bue per tirare l’aratro, oggi ci sono macchine che fanno
tutto questo, con buona pace tanto degli uomini che degli animali. Dunque,
visto che purtroppo gli animali continuano inesorabilmente però ad essere
sfruttati in tantissimi altri settori, perché non cominciamo ad eliminare
almeno quelle situazione su cui tutti, anche molti carnivori impenitenti,
concordano che siano superflue e superati; appunto, le botticelle, a che
servono? A quale turista? Ci sono gli autobus turistici aperti sopra che
offrono una bella visuale panoramica. Ma poi, che significa “si è sempre
fatto, è sempre stato così”? Non è una motivazione logica, non c’è una
logica in quello che dici. Le azioni passate non possono essere una
giustificazione per il presente.
- dico che i cavalli sono animali forti, resistenti, per
quello li si sono sempre usati per trainare mezzi e per traspostare uomini,
merci, è la loro natura, mica soffrono... i vetturini poi, te l’ho detto, li
trattano benissimo...
- i cavalli sono animali favolosi nati per vivere liberi in
natura, nessun animale - quanto forte e grande sia - nasce per essere usato
dall’uomo, è l’uomo che si è arrogato questo diritto.
- e vabbè, dai, si è sempre fatto così, ora non mi sembra
che il problema siano le botticelle, ci sono cose più serie cui pensare...
- certo... ad esempio quando sarà la prossima volta che
andrai a prendere la porchetta dal porchettaro che viene da Ariccia, quella
porchetta che non manchi mai di ribadirmi quanto è buona, quasi a volermi fare un dispetto... sì, certo.
- beh, ti passo la mamma.
- passami mamma.
Per inciso, io voglio tantissimo bene al mio papà, è una
persona stupenda che mi ha dato moltissimo, che mi ha permesso di diventare
quella che sono (e, modestamente, pure se potrei fare di meglio, mi accontento) senza mai intralciarmi nelle mie scelte e riportandomi alla
ragione quelle volte in cui magari ne avrei fatte di sbagliate (oddio, questo
non possiamo saperlo, ma sicuramente le sue intenzioni sono sempre state le
migliori e dirette al mio bene, alla mia felicità, tanto immediata quanto
futura. Gli esiti poi sono tutt’altra cosa e dipendono da un’infinità di variabili
non calcolabili). Ovviamente sull’argomento diritti animali divergiamo assai.
Non perché mio padre sia una persona insensibile. Ama gli animali d’affezione.
Quando in passato abbiamo avuto una colonia di gatti in giardino si occupava e
preoccupava di loro con dedizione, li curava, portava dal veterinario quando
stavano male e gioiva nel vederli correre liberi in giardino. Vuole un mondo di
bene a Marty (il "mio" adorabile jack russell), è come un nonno per lui, quando devo
partire e non posso portarlo con me so che ha una casa pronta ad accoglierlo.
Semplicemente è un uomo attaccato alle sue idee e concezione del mondo, non
abituato a sentirsi messo in discussione. Un po’ rigido insomma. Scherzosamente
io e le mie cugine, quando eravamo più giovani, specialmente nel classico
periodo adolescenziale in cui si cerca in tutti i modi di far emergere la
propria personalità (o meglio, si cerca di strutturarne una, di far venire
qualcosa di probabile da quel bozzolo informe in cui siamo rinchiusi) e si
discutono gli ordini genitoriali, lo avevamo tacciato di essere “comunista
fuori, ma fascista nell’anima”, libretto rosso di Mao Tse Tung in bella vista
in libreria (ebbene sì), bastone sotto
al letto! :-D
Beh, papà, se mi leggi, sappi che ti voglio tanto bene. Però pensaci che
i maiali, tutti, dal primo all’ultimo, sono come Marty e che se una cosa si è
fatta per tanto tempo non significa che debba esserci una giustificazione
valida per continuare a farla. Anche i politici rubano da sempre eppure
vorresti che le cose cambiassero. O debbo pensare che il libretto di Mao lo
tenessi perché il rosso stava bene con il legno scuro della libreria, quella
bellissima libreria piena di tanti libri interessanti che so compravi anche per
me, soprattutto per me e per cui... credimi, non hai sprecato i tuoi soldi. E ti dico anche una cosa, già che ci sono, la mia eredità, da te, la ho già avuta, ed è la migliore che potessi avere, e sono tutti i libri che saccheggiavo di nascosto dai piani in alto della libreria, quelli che tu e mamma pensavate di nascondere perché convinti che non fossero adatti ad un'adolescente (o forse solo che non fossi in grado di comprenderli), e poi la tua integrità, onestà, altruismo, il tuo fare del bene al prossimo sapendo che in cambio non avresti avuto nemmeno la gratitudine. Certo, hai i tuoi difetti, e ne hai avuti tanti, ma ho sempre pensato che recriminare sia un atteggiamento sterile, e non sempre condivido le tue idee, ma forse, ecco, questa mia capacità di avere una visione critica, di elaborare i dati della realtà, di formarmi delle idee tutte mie, e, sopra ogni cosa, questa mia capacità di prendere il buono ed il cattivo delle persone, quindi anche di te, è il dono più prezioso che sei riuscito a farmi.
Mamma dice che io ho sempre una giustificazione per tutti, per tutto, anche per le persone ed i comportamenti stronzi. E no, non è giustificazione.È comprensione. E comprendere forse è la cosa che più mi interessa al mondo.