Non sono di quelle che cercano sempre di cucire una vita
addosso alle persone che si incrociano per strada, o sugli autobus, o in altri
luoghi in cui c'è la possibilità di osservare. Però devo ammettere che ci sono
individui che per una loro particolare fisionomia si prestano particolarmente a
questo esperimento. È il caso della guardia giurata di servizio presso la banca
in cui vado ogni tanto (vado, ahimé, non per piacere, ma per dovere). È un
tipetto magrolino, minuto, talmente minuto che sembra quasi sparire dentro la
divisa che indossa. I pantaloni troppo grandi oscillano mentre si muove, come
agitati da un vento invisibile ed il rumore della stoffa di una gamba che
struscia a contatto con l'altra dà come l'impressione che al loro interno non
vi sia nient'altro che aria. Da sotto la giacca - segnata in vita da un
cinturone talmente stretto a formare un vitino di vespa da far invidia alle
modelle che sfilano in passerella e dal quale pende una pistola aggressiva -
spunta un collo lungo e striminzito simile a quello di un tacchino, anche per
il colore della pelle, leggermente rossastra, come irritata da un dopobarba
scadente. Sulla testa una peluria grigiastra appena accennata, come di rasatura
che comincia giust'appunto ad aver bisogno di una ripassatina. Ai piedi degli
anfibi pesanti - pure con questo caldo! - quelli da militare, allacciati
stretti stretti e lucidati con cura, dai quali sbuffano i pantaloni che vi sono
infilati dentro a forza. Volto scarno, guance rossastre, un sorriso sghembo che
in un lampo riscatta l'impressione di profonda mestizia emanata dalla sua
figura. Sempre in movimento, si sposta da un angolo all'altro dell'entrata, lo
sguardo aguzzo su persone e oggetti come di chi vuole avere sempre tutto sotto
controllo; e, del resto, è quello il suo lavoro.
Ma la cosa più bella e
più buffa di tutte è la voce, anzi, non propriamente la voce - sottile e
stridula come ci aspetterebbe proprio da un fisico mingherlino - ma le parole,
la lingua che emana da quella voce, una lingua dialettale lontana anni
luce dall'italiano standard, un dialetto così stretto ed immediato che
giusto approssimativamente potrebbe essere avvicinato al napoletano, o comunque
ad un dialetto campano. Non è il napoletano, il napoletano - quello di Totò, di
Troisi - io lo capisco; magari non tutte tutte le parole, ma il senso globale
della frase sì. No, il suo è qualcosa di più di un dialetto, è un dialetto
appreso da generazioni e generazioni. È la lingua di chi in casa, sin da quando
era bambino, non ha mai saputo sentir parlare altro che in dialetto, la lingua
di chi non è andato a scuola regolamente, la lingua di chi non si è mai
confrontato con altre realtà al di fuori di quelle del proprio quartiere.
Una
volta ho dovuto chiedergli un'informazione - mi pare sull'orario della banca, o
qualcosa di simile - mi ha risposto farfugliando qualcosa per me
incomprensibile che non sono riuscita a capire nemmeno dopo essermela fatta ripetere
per tre volte consecutive; alla fine, non saprei se più imbarazzata per me che
non riuscivo a capire o per lui che non riusciva ad esprimersi, ho annuito
sicura, ringraziando per l'informazione (che non sono riuscita a capire!).
Eppure c'è dell'altro che emana da questa figura. Un senso di orgoglio e di dignità che non saprei descrivere, ineffabile eppure concretamente percepibile. Svolge il suo lavoro con serietà e dovizia, con impegno profuso a cuor leggero, quello di chi ama il proprio lavoro. È sempre gentile, sempre cortese, sempre servizievole: sta lì pronto ad aprire la porta, a richiuderla - l'ultima volta non avevo l'euro che serve per poter usufruire dell'armadietto porta-oggetti e lui me l'ha prestato senza neanche pensarci due volte - ad offrire - in quella sua lingua stramba - tutte le informazioni di cui i clienti hanno bisogno. Sempre sorridente, di quel sorriso un po' sghembo che riscatta tutta la modestia della sua figura. Si vede che è fiero del lavoro che svolge, che è felice, realizzato, che sente di essere al suo posto, al posto giusto nel momento giusto, è proprio uno che ha trovato il suo posticino nel mondo. E tante volte mi sono immaginata come potrebbe essere ad essere lui. Uno che si alza la mattina e sa cosa deve fare, dove deve andare e perché. E un po' lo invidio. Giuro. Non importa che sia ignorante, che non abbia studiato, che non sappia parlare. È uno che quando la mattina si alza sa esattamente cosa fare e qual è il suo posto là fuori, nel mondo. E mi sono anche immaginata che questa sua sicurezza gli provenga da una certezza inconfutabile: quella di sapere di essere sfuggito da un luogo e da un'esistenza altrimenti disgraziati. Me lo sono immaginato proveniente dall'entroterra campano, da uno di quei posti in cui nasci con il destino già praticamente segnato. Una vita fatta di miseria - spirituale e materiale - in cui non hai altra scelta che quella di fare da manovalanza della camorra; oppure di scappare. E allora me lo sono immaginato quel giorno che è partito, ha salutato i suoi "ciao mà, ciao pà, statem' bbuon" (o qualcosa di simile) e poi è andato a cercar fortuna in città. E ora che l'ha trovata la sua fortuna, quella che per lui è l'alzarsi la mattina e sapere esattamente cosa fare ed avere un proprio posticino nel mondo, se la tiene stretta e con quel suo sorriso sghembo sembra proprio che voglia ricordarlo a tutti.
Eppure c'è dell'altro che emana da questa figura. Un senso di orgoglio e di dignità che non saprei descrivere, ineffabile eppure concretamente percepibile. Svolge il suo lavoro con serietà e dovizia, con impegno profuso a cuor leggero, quello di chi ama il proprio lavoro. È sempre gentile, sempre cortese, sempre servizievole: sta lì pronto ad aprire la porta, a richiuderla - l'ultima volta non avevo l'euro che serve per poter usufruire dell'armadietto porta-oggetti e lui me l'ha prestato senza neanche pensarci due volte - ad offrire - in quella sua lingua stramba - tutte le informazioni di cui i clienti hanno bisogno. Sempre sorridente, di quel sorriso un po' sghembo che riscatta tutta la modestia della sua figura. Si vede che è fiero del lavoro che svolge, che è felice, realizzato, che sente di essere al suo posto, al posto giusto nel momento giusto, è proprio uno che ha trovato il suo posticino nel mondo. E tante volte mi sono immaginata come potrebbe essere ad essere lui. Uno che si alza la mattina e sa cosa deve fare, dove deve andare e perché. E un po' lo invidio. Giuro. Non importa che sia ignorante, che non abbia studiato, che non sappia parlare. È uno che quando la mattina si alza sa esattamente cosa fare e qual è il suo posto là fuori, nel mondo. E mi sono anche immaginata che questa sua sicurezza gli provenga da una certezza inconfutabile: quella di sapere di essere sfuggito da un luogo e da un'esistenza altrimenti disgraziati. Me lo sono immaginato proveniente dall'entroterra campano, da uno di quei posti in cui nasci con il destino già praticamente segnato. Una vita fatta di miseria - spirituale e materiale - in cui non hai altra scelta che quella di fare da manovalanza della camorra; oppure di scappare. E allora me lo sono immaginato quel giorno che è partito, ha salutato i suoi "ciao mà, ciao pà, statem' bbuon" (o qualcosa di simile) e poi è andato a cercar fortuna in città. E ora che l'ha trovata la sua fortuna, quella che per lui è l'alzarsi la mattina e sapere esattamente cosa fare ed avere un proprio posticino nel mondo, se la tiene stretta e con quel suo sorriso sghembo sembra proprio che voglia ricordarlo a tutti.
E provo una certa gratificazione nell'osservarlo
perché ci sono cose nel mondo che possono essere fatte solo nell'unica maniera
in cui richiedono di essere fatte. Cose che hanno un unizio ed una fine. Come
lavare i piatti. Si comincia e si finisce. Come tutto in fondo. E ci sono
persone che hanno impressi sulla loro pelle l'inizio e la fine della loro
esistenza. E vedere l'inizio e la fine di qualcosa è gratificante. O almeno lo
è per me. Io, che non so mai dove sono iniziata, che forse devo ancora iniziare
e che a volte però ho come l'impressione di scorgere già la fine.
19 commenti:
Ciao,
bellissima questa descrizione: mi sembrava di averlo davanti questo ometto così fiero del suo posto nel mondo conquistato con fatica.
Complimenti, sei molto brava, ci rivredremo presto.
Un caro saluto
Un racconto efficace e reale. Ben scritto è dire poco. Complimenti per questo ritratto d'autore.
Buona serata
Massimo e Keiko, grazie mille per i complimenti, mi fa piacere che vi sia piaciuto questo mio "ritratto". In realtà era tanto che volevo scrivere di questo signore, la sua figura mi ha sempre ispirato. Proprio vero che il mondo fuori e la gente offrono spesso validi spunti per poter scrivere.
Buona serata ed un saluto ad entrambi.
a me l'inizio e la fine mi sono deliberatamente e artisticamente insopportabili. penso che conti solo quello che sta in mezzo, tra capo e collo di fine e inizio. infatti se ci pensi le forme d'arte che siano letteratura cinema teatro o la pittura ecc (per non parlare della musica) vanno tutte incidentalmente contro il principio e la fine, si pongono, nelle migliori realizzazioni, nel non-tempo... in parte è un superamento estetico, tutto interno ai sentieri culturali ed artistici, in parte è una reazione al gratificante quadrato borghese che in un inizio e in una fine stabiliti trova la sua realizzazione fisica di potere, il suo misurato controllo. nella "discontinuità del mentre", diremmo, il quadrato borghese non può esercitare alcuna forza. nella spiegabilità invece, nella razionalizzazione di un principio e di un finale, può esercitare un controllo totale, perché ciò che sfugge sta fuori dagli schemi temporali, o del medium, sta nel (ab)uso estremo, sfinente, del medium artistico... del linguaggio di quella specifica arte.
veramente splendido questo pezzo, me lo immagino scritto a metà tra Karl Krauss e Christa Wolf (oggi mi vengono i paragoni teutonici...)! E il finale è molto profondo. Già, chissà dove iniziamo e dove finiamo. Grazie.
ps. domani che ho un giorno di pausa rispondo (finalmente) alla tua mail! :)
Ciao Dinamo,
caspita che bel commento!
Non ho mai riflettuto a dire il vero sull'inizio e la fine nell'arte, però in effetti, ora che ci mi fai pensare i romanzi (così come i film) che mi piacciono di più sono quelli in cui si narra qualcosa di astratto, la vita che scorre e basta (penso a "Cinque pezzi facili" di Rafelson, un film astrattissimo proprio perché indefinito), in cui non c'è un vero finale e quando arriva il punto è solo perché finisce la carta stampata, o la pellicola, ma si capisce che in qualche modo la storia potrebbe continuare all'infinito.
Nella vita invece mi gratificano tutte quelle azioni che iniziano e finiscono in poco tempo, parlo di mansioni semplici e banali quali appunto il lavare i piatti. Mi gratificano perché nel caos (non è metaforico, né tanto per dire) della mia esistenza c'è almeno qualcosa che viene portata a termine, che ha un suo senso. "Cosa fatta capo ha", in questo senso intendo. Forse, come dici tu, c'è una sorta di sicurezza "borghese" in questo, per quanto io detesti i valori cosiddetti borghesi. ;-)
Vero poi che il tempo misurato è solo una convenzione, una maniera per ordinare e sì, per controllare (in effetti il capitalismo inizia proprio con la misurazione del tempo, con la suddivisione del lavoro in ore, con il tempo pagato ecc.).
Io però in questo caso intendevo più un inizio ed una fine nel senso di un'esistenza che ha trovato una sua ragione di essere (non LA ragione d'essere, che non ne esiste una univoca e valida per tutti, ma una ragione personale), che riesce a percepirsi in qualche modo collocata NEL tempo, dentro al tempo.
Grazie, un saluto. :-)
Ciao Marco,
accipicchia che paragoni, così mi lusinghi. ;-)
Già, chissà dove iniziamo e dove finiamo, bella domanda.
A volte mi sembra di essere sempre stata. Altre di essere nata e morta centinaia di volte. A volte sono "espansa", altre "limitata". :-D
Oggi poi non ce l'ho fatta a venire, sono dovuta restare a casa a fare delle cose, spero sia andata bene la conferenza. :-)
Non preoccuparti per l'email, rispondi pure con calma.
Un abbraccio e un bacino a Marcello. :-)
Trovo che la vita sia un affare incredibilmente semplice, eppure spesso ci appare, secondo me a torto, complicato.
Se osservo gli animali, mi sembra che loro non si chiedano il perchè delle cose. Sanno quello che devono fare senza farsi domande. Lo fanno e basta. Si può dire che non abbiano scelta.
La guardia giurata lo stesso. Evidentemente non si pone il problema, si alza al mattino, va a lavorare e poi torna a casa. Quale libero arbitrio? Questo è e questo è.
Poi guardo le piante e la cosa mi diventa ancora più evidente.
Ed io ce l'ho un libero arbitrio? Direi decisamente che no, un libero arbitrio non ce l'ho. Solo penso di averlo, a volte, quando mi faccio domande su chi sono e cosa devo fare, ma sono solo pensieri, cose nella testa che spariscono in fretta.
Come essere vegano. Non è una scelta. E' la conseguenza di uno stato di consapevolezza. Chi mangia carne lo stesso. Non effettua una scelta, ma si comporta in base al proprio stato di consapevolezza. L'uno vede la carne come un mostruoso delitto, l'altro come una gustosa pietanza. C'è poco da scegliere per entrambi.
Le piante, gli animali, le guardie giurate sono forse così affascinanti perchè ci mostrano la semplicità dell'esistenza.
Ciao De Spin,
bellissime riflessioni le tue e bella anche la conclusione sul fascino della semplicità.
Giorni fa leggevo qualcosa (in un romanzo, proprio Lucernario di Saramago di cui ho messo il link della recensione nel post precedente) a proposito della libertà e della necessità. Forse è proprio vero che la libertà non esiste, ma esiste la necessità (Bergman, ne Il posto delle fragole arriva invece a dire che "male e bene non esistono, esistono solo le necessità"). Per necessità si potrebbe intendere anche la consapevolezza. Noi siamo divenuti, in questo senso, consapevoli che mangiare animali non ci è necessario e da lì abbiamo deciso di comportarci di conseguenza.
Del resto, pare che chi compia azioni immorali non le percepisca come tali, ma tenda a trovarvi delle giustificazioni che possano legittimarle (del tipo: è necessario che si faccia questo, non ho altra scelta, faccio ciò per un fine superiore, quest'azione è ripropevole ma il fine è giusto ecc.) e quindi a vedervi una necessità. Potremmo dire che in queste persone manca la consapevolezza.
Se esiste il libero arbitrio inoltre è sempre comunque dettato e condizionato dall'ambiente in cui si cresce, dai valori fondanti la nostra educazione, dalle nostre esperienze. Un uomo violento perché da piccolo ha subito violenza e perché ha introiettato quel tipo di comportamento, può dirsi in grado di scegliere? Può dirsi libero?
In Arancia Meccanica di Kubrick invece c'è un passaggio cardine, quello in cui il parroco si esprime contrario alla "cura Ludovico" per Alex perché dice che ci dev'essere la volontà di rifiutare il male, che non può essere un mero condizionamento.
E quindi vi rientra il discorso della consapevolezza.
Mi domando una cosa però: quanto c'entra il volerla perseguire una determinata consapevolezza (nello specifico quella sul trattamento riservato agli animali)?
A me la consapevolezza non è sbocciata dal giorno alla notte, ma è stata il risultato di un cammino che volutamente ho intrapreso. Esprimo un atto di volontà quando mi metto a leggere documenti sullo sfruttamento animale o a guardare video che testimoniano l'orrore.
Molte persone hanno "sotto pelle" questa consapevolezza, ma vogliono continuare ad ignorarla, per facilità, per comodità, perché prendere atto di un qualcosa costa fatica.
Volutamente intrapreso, o necessariamente? :-)
Beh, direi in effetti necessariamente. Nel momento in cui mi sono resa conto che continuando a mangiare gli animali avrei continuato a contribuire alla loro sofferenza e sfruttamento, mi è diventato impossibile continuare a farlo. Quindi necessariamente ho dovuto compiere una scelta. :-)
Quindi volontà e necessità coincidono?
La descrizione è superlativa.
Ti auguro una serena notte; saluti a presto.
Grazie Cavaliere oscuro :-)
Auguro una serena notte anche a te, sperando che l'afa ci dia un po' di tregua. A presto.
Ti leggo sempre con grande piacere.
Questa tua guardia giurata, per come sai descriverla e immaginarne il "retroterra" fatto di marginalità superata con la determinazione, e di poche ma salde certezze, può essere un personaggio promettente - nel senso che può venirne fuori un vero e proprio racconto, con una sua "storia" ;-)
Hahahah io gioco sempre all' "attaccare la storia di una vita" a quasi tutti quelli che vedo. Più che altro a quelli che trovo interessanti o schernibili. Hihihi... magari la ragazzina vestita sconcia, o la signora cicciona vestita a fiori con un cagnolino microscopico... è un gioco divertente... ma una guardia così non l'avevo MAI vista... e io che pensavoche per fare la guardia dovevi essere spisso spisso!
Non sempre volontà e necessità coincidono.
A me capita spesso di fare delle scelte, di mia volontà, ma che a dire il vero non erano per forza necessarie.
Come non guardare le partite, in streaming. Non le guardo perchè sono incazzata, ma in realtà non è necessario, potrei cercare un sito di streaming e guardarmele.
E poi ho scoperto di essere intollerante al latte, per cui, volente o nolente, per necessità, sarei dovuta diventare vegana per forza :D hihihi
Ciao Ivaneuscar,
anche io ti leggo sempre con grande piacere. :-)
In effetti sì, il personaggio in questione offre dei buoni spunti per una storia più articolata, chissà, magari in futuro potrei volerla approfondire.
Al momento ho intenzione di fare altri due "ritratti" altrettanto particolari, sempre di persone reali che ispirano parecchio per la loro fisionomia. Alla fine a me interessano le persone così, quelle che in qualche modo escono fuori dall'ordinario.
Un saluto e grazie per essere passato. :-)
Ciao Volpina,
che vuol dire "spisso spisso"? :-D
Leggevo su internet che per fare la guardia giurata comunque non sono richiesti requisiti particolari, tipo altezza minima o altro.
Sulla necessità o volontà, secondo me bisogna anche intendersi un po' sui termini. Mi sto rendendo conto che da ciò che per me è assolutamente necessario poi segue sempre l'atto di volontà; mi spiego meglio: preso atto dello sfruttamento degli animali e della loro sofferenza ho ritenuto necessario iniziare a lottare per porvi fine, da lì la volontà di smettere di mangiarli. Un abbraccio. :-)
Ah allora mi si sfata un mito! E io che credevo bisognasse essere forzuti e spissi (appunto, Grossi e Giganteschi)...
Allora posso farla anche io la guardia giurata.
Una volpina rossa con la bocca a prugnetta e lo sguardo minaccioso.
Mi sento snoopy. Hahahah!
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