C’era un signore un po’ eccentrico, il
signor O., proprietario di un albergo-ristorante, che aveva preso una
scimmietta. Non ricordo esattamente a quale specie appartenesse, non era uno
scimpanzé comunque, era più piccola, probabilmente un macaco. Appena presa la portò subito in paese per mostrarla alle persone tenendola al guinzaglio come fosse un cagnolino. Io, da sempre
amante degli animali, ricordo che non appena la vidi da lontano volli
avvicinarmi curiosa per poterla meglio osservare e anche con la speranza di
poterla accarezzare o magari prenderla in braccio. Ricordo che stavo mangiando
un gelato e che mi avvicinai tenendo il cono in mano; la scimmietta, che era un
maschietto e fu chiamato Brando, non appena mi vide avvicinare, di slancio si
gettò su di me e mi tirò via il cono gelato dalla mano. Non mi aspettavo di
certo un gesto fulmineo e deciso come quello e dopo qualche istante di stupore
scoppiai in una grande risata e l’accarezzai tutta contenta. In poco tempo
Brando divenne l’attrazione del paese. Tutti i bambini accorrevano a vederla da
vicino, qualcuno meno timoroso si azzardava ad allungare la mano sulla sua
testolina per una carezza, altri si limitavano a ridere contenti nell’osservare
le sue strane smorfie, nell’ascoltare i suoi gridolini o nel prenderle la
zampetta a mo' di saluto. Quando la portava in giro, il signor O. la teneva al
guinzaglio e durante il resto del giorno e la notte la teneva libera nel
giardino, che era sul retro dell’albergo e che aveva provveduto a chiudere con
una recinzione. Si arrampicava sugli alberi e giocava. Ricordo che ogni volta
che mi capitava di passare da quelle parti mi fermavo a cercarla con lo
sguardo, oppure la chiamavo. Mi ci ero affezionata. Ogni volta che incontravo
il signor O., quando era da solo, non perdevo occasione per fargli un sacco di
domande su Brando: “dov’è adesso? Cosa fa? Cosa mangia? E dove dorme? Se vengo
a casa tua mi ci fai giocare? Me lo saluti?”.
Dopo
qualche mese dal suo arrivo nel paese si cominciò a parlare del fatto che fosse
un po’ troppo selvatica, che il proprietario non fosse riuscito ad addomesticarla
come avrebbe dovuto. Si sparse la voce che una volta lo avesse persino morso e
che avesse cercato di aggredire alcune persone che si erano avvicinate un po’
troppo alla recinzione del giardino. Sapete come funziona nei paesi, da un particolare ci si costruisce una leggenda urbana le cui proporzioni aumentano nel passare di bocca in bocca.
Fatto sta, che improvvisamente
mi fu vietato di avvicinarla e accarezzarla:
- “È pur sempre un animale
selvatico, non si sa mai” - diceva mia madre;
- “meglio che non le vai troppo
vicino, se ti morde poi è un problema” - diceva mio padre;
- “è cattiva,
aggredisce le persone” - diceva la gente;
- “è una bastarda irriconoscente, gli
do da mangiare e mi rigranzia con un morso” - diceva il signor O..
E
poi venne quel giorno. Era un pomeriggio. Ero uscita per andare in paese con
mia madre - abitavamo un po’ fuori dal centro e per raggiungerlo dovevamo
giust’appunto costeggiare il giardino dell’albergo, quello in cui stava la
scimmietta. A un certo punto vedemmo sopraggiungere il signor O., in senso
opposto al nostro. Camminava a passi veloci, l’espressione torva e preoccupata,
un fucile in spalla. Non appena ci vide fece segno a me e a mia madre di
fermarci e di fare silenzio:
- “Shhh... non vi muovete, state ferme lì”;
- “signor O., che succede?” - fece mia madre
allarmata;
-
“Brando è scappato dal giardino, ha scavalcato la recinzione”- rispose il Signor O. in maniera concitata;
-
“oh mio Dio, ma dov’è adesso? E dove sta andando lei con quel fucile? Non vorrà
mica... ”
-
“tranquilla signora, è tutto sotto controllo, ho già chiamato anche
rinforzi... vede, l’animale è come impazzito, è fuori di sé, già da qualche
giorno era molto nervoso, oggi poi, quando mi sono avvicinato per dargli da
mangiare mi è saltato addosso come per aggredirmi, ho fatto giusto in tempo a
ripararmi in garage, temo che per riprenderlo non ci sia altro modo che...”;
-
“ma come, ma com’è possibile, è solo una scimmietta... “ - disse mia madre;
-
“sì, è piccola, ma ha denti forti e una mascella fortissima, se aggredisse
qualcuno passerei guai... anche voi... ecco, tornate indietro, aspettate che
sia tutto finito”.
- “Mamma, ma non vuole uccidere Brando, vero?”
- dissi io con una vocina flebile;
- “no, sta tranquilla, non vuole ucciderlo,
sai, non spara cartucce vere quel fucile, vuole solo addormentarlo per poterlo
riprendere”;
-
“ma perché, lui non ci voleva stare in giardino?”;
- “no, si vede di no”;
-
“forse vuole tornare libero?”
-
“può essere, forse, non lo so, sai sono animali...“;
- “ma non può lasciarlo andare dove gli pare
e basta?”;
“non
può no, potrebbe mordere qualcuno, sai, è diventato cattivo”;
“ma
lui non è cattivo...“.
Passarono
i giorni, le settimane, i mesi e di Brando presto si perse il ricordo.
Solo
io ogni volta che scendevo in paese mi fermavo ancora a cercarlo con lo sguardo
in mezzo agli alberi del giardino, speranzosa di poterlo rivedere. Non mi
dissero infatti che fu ucciso quel giorno. Mi dissero che quel fucile era
servito ad addormentarlo e che poi l’avevano riportato sano e salvo nella foresta dove era nato. Cosa che mi riempì di
gioia.
In
realtà, come avrete immaginato, Brando finì di vivere quel pomeriggio in cui io
e mia madre incontrammo il signor O. con il fucile. Altri tempi. Oggi
davvero lo si sarebbe potuto addormentare e poi riportarlo sano e salvo in un
luogo a lui congeniale. Forse oggi a nessuno, nemmeno a un signore un po’
eccentrico, verrebbe in mente di prendere una scimmietta selvatica e di
pretendere che si comporti come un cagnolino. Forse oggi alcune specie sono più
tutelate rispetto al passato. Quel che non è cambiata è l’arroganza tutta
umana. Quella di giudicare “cattivo” un povero animale selvatico estirpato dal
suo ambiente naturale e di volerlo punire per un “danno” che in realtà è
imputabile solo all’uomo. E mi viene in mente King Kong, il
celebre gorilla dell’omonimo film - e quanto piansi quando lo vidi al cinema -
strappato ai suoi affetti e alla sua foresta, portato nella grande metropoli
come attrazione turistica e poi ucciso perché dopo essere riuscito a liberarsi
mette a soqquadro l’ambiente circostante e danneggia cose e persone.
Che
colpa hanno avuto Brando e King Kong? Nessuna. L’uno nella realtà, l’altro
nella finzione, era animali che vivevano liberi nel loro habitat, felici, secondo quelle caratteristiche di specie che gli sono proprie. Poi un bel giorno è arrivato
l’uomo, li ha catturati, li ha imprigionati, li ha schiavizzati. Loro magari si
sono ribellati, o magari hanno semplicemente cercato di vivere in accordo con la loro natura, reagendo alla paura, a determinati stimoli.
E l’uomo, cosa vi
aveva visto in loro? Non l’espressione di una meraviglia, non l’unicità del
vivente, ma solo l’oggetto del proprio desiderio, solo il riflesso della
propria bramosia di dominio sulla natura e sull’altro. Una volontà di dominio e
di assoggettamento subito pronta a trasformarsi in paura non appena diventa
ingovernabile, non appena l’altro risponde a reclamare il proprio diritto alla
vita.
Dominio
e paura. Intercambiabili. Per questo Brando è dovuto morire. Perché sfuggito al
dominio, si è trasformato nel mostro da abbattere.
Povero
Brando. Nei miei ricordi tornerò ancora a cercarti, là tra gli alberi. E quando
riuscirò a scorgere il tuo musetto simpatico, ti offrirò ancora un cono gelato.
E ti chiederò perdono per quello che l’uomo ti ha fatto. E poi ce ne andremo
via insieme. Liberi. Ognuno per la sua strada. Tu per la tua, nella foresta
dove sei nato. Io per la mia, qualunque essa sia. Uniti nel ricordo di esserci
sfiorati e amati per quello che siamo.