mercoledì 30 maggio 2012
Ancora sulla sperimentazione animale: intervista al Prof. Bruno Fedi
Un mio articolo su Asinus Novus.
martedì 29 maggio 2012
Pensieri
Un amico mi ha detto: "io mangio carne, tu mi vedrai come un mostro".
No, caro amico, io non ti vedo come un mostro. Io ti vedo come una vittima. E ciò che è ancor più doloroso è che sei vittima a tua insaputa e questo ti rende incapace di lottare per liberarti.
Sei vittima di una società e cultura basate sullo sfruttamento del vivente; una società e cultura che possono dirsi speciste non perché esiste una maggioranza di persone speciste che sarebbero più cattive e meno sensibili di altre o costituzionalmente votate alla sopraffazione e reificazione del più debole, ma perché, essendosi costituite ed evolute (cultura, società, economia) sulla base di una struttura di siffatto sfruttamento, hanno poi decretato l'inferiorità e l'assoggettamento "scontato", "dovuto" dell'animale non umano e di altri animali umani.
Gli animali non sono sfruttati perché sono inferiori. Ma sono inferiori perché sono sfruttati. E lo sfruttamento non avviene perché le persone sono cattive, ma perché abbiamo conosciuto - e da troppo tempo ormai - solo questo meccanismo di evoluzione sociale.
La sopraffazione non è una legge di natura. La sopraffazione è la maniera in cui ci siamo evoluti socialmente a partire da un certo momento della storia dell'umanità.
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domenica 27 maggio 2012
Cosmopolis di David Cronenberg
L'aspettavo da mesi e le mie aspettative, peraltro altissime, non solo non sono state deluse, ma ampiamente ripagate.
Per me: un capolavoro!!!
Se volete leggere la mia recensione, la trovate qui. ;-)
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giovedì 24 maggio 2012
Antispecismo ed Attivismo
(articolo pubblicato anche su Asinus Novus)
Oltre a diffondere l’etica antispecista tramite un
impegno di natura intellettuale (leggere, confrontarmi, scrivere articoli), mi
reputo anche un’attivista. Mi prendo cura di diversi animali, denuncio episodi
di maltrattamento, partecipo a presidi e manifestazioni, il tutto entro la
cosiddetta sfera della legalità. A dire il vero a volte ho commesso anche
qualche piccola infrazione di cui vado fierissima, tipo quelle volte in cui ho
manomesso delle trappole per topi trovate in alcuni garage ed altri luoghi pubblici.
E, sono sincera, se quel giorno mi fossi trovata a Green Hill non mi
sarei di certo tirata indietro di fronte alla possibilità di aprire qualche
gabbia per liberare dei cani altrimenti destinati alla morte.
Non credo che questo avrebbe fatto di me una
“delinquente”. Ci sono azioni e gesti che con il passare del tempo chiedono di
essere socialmente ripensati perché non più aderenti al formarsi di una nuova
coscienza e sensibilità. Di fronte alla liberazione dei beagles di Green Hill
l’opinione pubblica ha esultato pressoché compatta. Tra i capi d’accusa mossi
contro gli attivisti figura addirittura la rapina, ma quello che sulla carta va
ad esprimere un determinato concetto, nella coscienza collettiva ha significato
ben altro: ossia la liberazione di esseri senzienti dall’inferno dei laboratori
per la sperimentazione animale cui erano destinati.
La mia opinione è che gli attivisti abbiano fatto
bene a compiere il loro gesto in pieno giorno, sotto gli occhi di tutti,
persino dei poliziotti stessi, manifestando una precisa e ferma presa di
posizione, che è quella di dire “basta” allo sfruttamento di esseri senzienti,
così connotandolo di una forte trasparenza e facendolo uscire fuori dal
concetto di illegalità cui solitamente azioni come queste vengono rilegate.
Come scrive Tom Regan: “noi apriamo quelle gabbie e poi ci facciamo
trovare al loro interno, assumendoci la piena responsabilità delle nostre
azioni”.
Molti attivisti, tra cui quelli di Nemesi Animale
(che, per inciso, hanno tutta la mia ammirazione), hanno espresso invece
un’opinione diversa, ossia che quando si compiono azioni di liberazione bisogna
pensare in primo luogo a mettere in salvo gli animali e quindi esporli ai
riflettori è rischioso perché c’è il pericolo che vengano rintracciati per poi
essere restituiti ai legittimi proprietari (leggasi: ricondotti al loro destino
di essere vivisezionati). Osservazione senz’altro giusta. Diciamo però che il
caso di Green Hill ha avuto il pregio di avere anche una valenza dimostrativa,
che gli va indiscutibilmente riconosciuta e che, a mio modesto avviso, non deve essere sottovalutata. Mai come in questo periodo il
dibattito sulla legittimità o meno della sperimentazione animale si è fatto infatti tanto
acceso.
Metologie differenti di liberazione a parte,
l’attivismo per la liberazione immediata suscita comunque sempre tanti
dibattiti e pensieri che meritano di esseri adeguatamente analizzati.
Se mi fermo a riflettere scopro che alcune
perplessità e dubbi non sono affatto nuovi (in parte li avevo già espressi qui
parlando del film Aurora) e che, in definitiva, sono gli stessi su cui
l’attivista per i diritti animali si dibatte da sempre.
Ferma restando la convinzione di voler porre fine
allo sfruttamento animale, quale strategia da adottare? Una strategia a lungo
termine che lavori affinché cambino e vengano ripensate le attuali strutture
socio-economiche basate sullo sfruttamento tanto degli animali non umani quanto
di quelli umani - e si tratta di una vera strategia politica - o una strategia
utile nell’immediato a salvare alcune vite ma che paga ancora lo scotto - viste
le attuali normative vigenti - di relegare tali azioni nella sfera
dell’illegalità, con il rischio di paragonare i promotori di tali nobili
iniziative alla stregua di fuorilegge sovvertitori dell’ordine sociale?
Il caso dei beagles di Green Hill è un caso limite,
che esce in qualche modo fuori dall’ordinario; è vero che la gente ha esultato
per la liberazione avvenuta, ma non scordiamoci che si è trattato pur sempre di
animali d’affezione: precisamente, cuccioli di cani. E non scordiamoci nemmeno
che molti di quelli che si sono commossi non sono nemmeno vegetariani. E se invece dei cuccioli di beagles fossero
stati liberati dei topi, o delle galline da un allevamento intensivo? Credete
che l’opinione pubblica si sarebbe ugualmente commossa compatta? Io penso di
no. Ed ho ragione di crederlo perché non mi pare che la maggioranza delle
persone esprima verso le pescherie ed i mattatoi lo stesso sdegno manifestato
per l’allevamento di Green Hill.
Per questo dico che le azioni di liberazione
animale, beagles di Green Hill a parte, continuano ad apparire alla maggioranza
come inconsueti, illegali, profondamente sovversivi (attenzione, dico e
ribadisco “appaiono alla maggioranza”, non certo a me, che, da antispecista
quale sono, vengono considerati invece gesti di grande valore etico).
Cosa fare dunque? Aspettare che i tempi cambino e
che tutta la società sia pronta a chiedere l’apertura di ogni gabbia - ma
intanto migliaia di animali continuano a morire ogni giorno, ogni ora -
rimanendo sempre nella legalità ed attivarsi politicamente affinché si renda
evidente il legame inscindibile che c’è tra liberazione dell’umano e
liberazione dell’animale dalle forme di oppressione di cui è vittima, o
attivarsi nell’immediato per liberare anche solo una vita, accettandone tutti i
rischi, pur essendo consapevoli di agire come outsider all’interno di un
sistema che comunque continua a considerare legale l’assoggettamento degli
animali agli umani?
Io credo che entrambe le strade possano e debbano
essere percorribili e che una strategia a lungo termine - fondamentale - non
debba però escludere le tante piccole azioni giornaliere che possono essere
compiute per la liberazione ed il benessere animale, fosse anche manomettere
una trappola per topi o mettere in salvo un pulcino caduto a terra da un nido.
Perché la vita di anche un solo singolo essere vivente non vale meno di quella
di molti vista in una prospettiva a lungo termine.
Vorrei infine esprimere un’ultima perplessità: mi è
stato chiesto da un amico il perché del mio partecipare a presidi, banchetti
informativi e manifestazioni e se lo ritenessi davvero utile ed efficace.
Qui intanto farei un distinguo: i banchetti informativi hanno lo scopo
appunto di informare, al pari di un blog per esempio, fornendo notizie che
generalmente non vengono diffuse dai media e testimoniando la verità sullo
sfruttamento animale tramite foto, volantini, video, brochures ecc. e quindi hanno una certa utilità.
Le manifestazioni ed i presidi invece secondo me
servono a poco: intanto vi partecipano soprattutto persone già sensibili alla
tematica affrontata, secondo poi raramente raggiungono una copertura mediatica
talmente ampia da suscitare un certo scalpore (a meno che non vi si aggiunga
qualche azione dimostrativa come nel caso di quella di Green Hill). Eppure io
vi continuo a partecipare. Perché? Mi è stata fatta questa domanda e cercherò
di rispondere con tutta la sincerità possibile. Intanto sono convinta che fare,
agire sia meglio di non fare nulla. Ad ogni azione corrisponde sempre una
reazione ed io non voglio essere agita, ma voglio agire. Voglio decidere, fin
quanto mi è possibile, delle mie azioni e scelte. In secondo luogo l’incontro
con altre persone che si stanno battendo per la stesso fine diventa un momento
di confronto che può avere una sua utilità. Terzo, e qui faccio un po’ di
fatica ad ammetterlo - ma voglio essere sincera - partecipare alle
manifestazioni mi aiuta psicologicamente. Una motivazione egoistica
dunque, direte voi? Sì, in questo caso sì, lo ammetto. Ma lasciatemi spiegare
meglio.
Ci sono giorni - e non sono pochi - in cui mi assale
uno sconforto indicibile al pensiero di tutti gli animali che soffrono
rinchiusi in miliardi di gabbie in attesa di essere uccisi. Il pensiero di
questo gigantesco e tragico olocausto invisibile ai più, che avviene con il
consenso dei più, a volte si fa davvero insopportabile ed è allora che pensi
che saresti disposto a fare qualsiasi cosa pur di poterne ridurre almeno un po’
le proporzioni, che saresti disposto a tutto pur di renderti minimamente utile,
in qualsiasi modo. Partecipare ad una manifestazione allora può dare un po’ di
sollievo, anche se solo illusorio, di star facendo qualcosa di giusto, di
buono, di utile.
E pensi che se riesci a convincere anche solo
un’amica a venire con te e a quella magari scatta qualcosa nella testa allora
forse avrai contribuito a salvare magari una vita. E, di fronte ad una tragedia
di incalcolabili proporzioni, salvare una vita di certo non è nulla, eppure al
tempo stesso diventa dannatamente importante. Diventa tutto.
E mi viene in mente l’agente Clarice Starling
(“Il Silenzio degli Innocenti”) che da bambina scappava dal ranch dello
zio con un agnellino tra le braccia, con le urla insistenti nelle orecchie di
tutti gli altri che stavano per essere macellati, convinta, forte e coraggiosa
del suo gesto di poter riuscire a salvarne almeno uno.
Allora, per concludere, io resto fermamente convinta
del fatto che lo sfruttamento degli animali - tanto umani che non umani - non avrà termine fino a che esso sarà alla
base del meccanismo che regola la nostra società e le strutture
socio-economiche di essa. Fino a che esso sarà meccanismo stesso di
funzionamento sociale. Dobbiamo quindi pensare a strategie a lungo termine,
strategie politiche che ripensino totalmente la nostra maniera di vivere il
nostro rapporto con gli altri animali non umani, riconsiderandone il valore
inerente della loro vita e non più soltanto quello strumentale. Ricordiamoci
che gli animali non vengono sfruttati perché sono di fatto a noi inferiori, ma
è vero invece che vengono considerati inferiori proprio perché sono sfruttati.
Decostruire questo meccanismo socio-economico basato sullo sfruttamento di
esseri senzienti è quindi fondamentale per porre fine allo specismo.
Intanto però la mia coscienza mi impone di attivarmi
ogni qualvolta mi si presenta l’opportunità di fare la mia parte per salvare
anche solo una vita e di occupare tutte le strade pensabili e possibili da
percorrere in vista della liberazione totale.
Aprire le gabbie di Green Hill è stata una grande
azione, un’azione certamente utile che è valsa a salvare le vite di qualche
decina di cuccioli, non dobbiamo però commettere l’errore di pensare che sia
sufficiente, non dobbiamo quietare le nostre coscienze dimenticandoci del
sistema di sfruttamento che è rimasto pressoché inalterato.
Partecipare alle manifestazioni, gridare “assassini”
a chi specula sulla vita di miliari di esseri senzienti, può avere una sua
utilità, soprattutto psicologica, come ho detto, dare l’impressione che ci si
sta attivando per qualcosa, ma essere lì presenti senza avere ben presente il
meccanismo di sfruttamento che vi è alla base, e senza volerlo cambiare nel
profondo, non sarà di una grande utilità.
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venerdì 18 maggio 2012
Roman Polanski: a film memoir di Laurent Bouzereau
Intenso e toccante documentario - in realtà una lunga intervista arricchita da scene dei film, foto inedite e filmati giornalistici - sulla vita, costellata da tragici eventi, ma anche di grandissimi successi, di uno dei miei registi preferiti.
Qui la mia recensione.
mercoledì 9 maggio 2012
Cecità della Fede
Forse non vale la pena commentare questo post di Costanza Miriano, a lei ispirato, come scrive, da Camillo Langone (il che già non promette bene), mi
sono detta. Chiaro esempio di "cecità" umana, a dispetto della luce
divina di cui l'autrice del suddetto si sentirebbe invece ammantata, ma poiché
invece tale pensiero riassume abbastanza diffusamente anche quello della chiesa
cattolica, direi che un paio di considerazioni le merita.
Innanzitutto vorrei dire alla signora Costanza
Miriano, giornalista RAI, madre di quattro figli, che la compassione verso ogni
essere senziente, al di là delle nebulose indicazioni che si evincono dalla
Bibbia - e nebulose proprio perché soggette alle più svariate interpretazioni a
seconda della tesi che si intende propugnare, quando invece non prese
specificamente alla lettera, sempre secondo la tesi che in quel momento si intende
sostenere - sarebbe insegnamento buono e utile. Ma in fin dei conti è giusto
che ognuno insegni e trasmetta alla propria prole la propria visione del mondo,
tra cui, evidentemente, l'assoluta certezza dell'autrice del pezzo in esame che
Dio abbia creato tutte le altre specie affinché noi ce ne cibassimo - ah, già,
ma non è certezza, è Fede, mi ricordano.
A dire il vero io, se fossi la Miriano e ci tenessi
proprio tanto ad entrare nelle grazie di Dio, ad onorarlo e rispettarlo ecc.,
qualche dubbio sull'interpretazione del suo volere me lo farei venire. Insomma,
tanto per fare un piccolo esempio, non sarei tanto convinta che il comandamento
- uno dei più importanti direi - "non uccidere", voglia intendere,
assai riduttivamente, di non uccidere solo gli esseri umani, escludendo tutti
gli altri esseri senzienti appartenenti alle altre specie animali. In fin dei
conti il comandamento dice proprio
"non uccidere", e poiché non si può che uccidere un essere vivente,
tra cui gli animali, allora forse a me un piccolo dubbio verrebbe e, con questo
dubbio, piuttosto che finire all'inferno - luogo della cui esistenza la Miriano
è altresì certa - magari mi atterrei al principio generale del rispetto di ogni
creatura vivente senziente.
Pensi un po' se si sbagliasse, cara Miriano! Certo,
magari mi sbaglio anche io e Dio esiste veramente, e di certo ai suoi occhi
apparirei come una peccatrice - se questo Dio fosse il Dio dipinto da voi
cattolici - ma almeno non mi sarei macchiata dell'abominio più grave, ossia
quello di aver contribuito - nel momento dell'acquisita consapevolezza del
danno - allo sfruttamento ed uccisione di altri esseri senzienti.
Comunque sia io non ragiono da cattolica che
determinata la propria condotta in base ad una lista di comandamenti, quindi,
senza addentrarmi a criticare le sue convinzioni religiose, mi limiterò a
criticare il suo pezzo portandolo in un campo più neutro: ossia quello comune e
condiviso, almeno voglio sperare, della semantica.
Attenendomi quindi al testo oggettivo da lei
scritto, cara Miriano, a questo punto continuo a rivolgermi direttamente a lei,
innanzitutto la inviterei a prestare attenzione ai termini che usa, il che,
visto che lei è giornalista e scrittrice non dovrebbe risultarle poi così
difficile; lei scrive: "Non provo quindi quella commozione profonda,
quel vibrante trasporto parareligioso che ha chi descrive le peripezie degli
animali da allevamento.".
Ora, alla voce "peripezia" io leggo, su
vari dizionari: "vicenda rischiosa, complicata o disavventura
imprevista".
Quindi ne dovrei dedurre che secondo lei lo
sterminio sistematico e sistemico di miliardi di esseri senzienti al giorni sia
solo una "disavventura imprevista"?
Ah, ma forse lei voleva usare tale termine
nell'accezione letteraria più estesa secondo cui "peripezia" starebbe
a significare "ribaltamento improvviso, per così dire avventuroso, della
situazione"? Beh, pure in questo caso il termine, se applicato agli
animali da allevamento, davvero non regge; non si ha infatti nessun
ribaltamento di prospettiva, visto che miliardi di questi esseri senzienti
vengono fatti nascere ed allevati con un'unica prospettiva possibile: quella di
finire nel suo piatto, e in quelli di persone come lei.
In merito poi alle condizioni in cui vengono
allevati gli animali, anziché definirli "peripezie", la inviterei,
sempre prendendosi un nanosecondo di vacanza dall'indignazione per l'aborto, a
meglio documentarsi ed informarsi, mica per altro, ma giusto per sapere
esattemente di cosa si sta scrivendo.
Quindi direi che non ci siamo proprio. No, no; il
termine "peripezia", da lei adottato immagino per dare un tocco di
simpatia e di "ironia" al suo pezzo - non voglio infatti credere che
lo si sia adoperato in maniera intellettualmente disonesta o quale mero artificio
retorico per sminuire e depotenziare il valore della vita di miliardi di esseri
senzienti - risulta completamente inappropriato.
Direi poi di sorvolare sul fatto che lei,
nell'osservare un altro essere vivente senziente, ci veda solo "cibo che
cammina", in fin dei conti non è colpa sua se non riesce a provare
un'empatia estesa agli animali non-umani, peccato che però, ci scommetto, lei
si indignerebbe assai se un uomo dicesse che nella tal donna ci vedesse solo un
corpo da sfruttare sessualmente. Si tratta infatti della medesima distorsione
di ricezione dell'altro, accolto non per le sue qualità inerenti, ma
considerato esclusivamente come mezzo per soddisfare le proprie pulsioni. Nel
primo caso si tratta della soddisfazione del palato, nel secondo del proprio
organo riproduttivo. In ogni caso è interessante notare come l'altro venga
ridotto a cosa, ad oggetto, a puro mezzo di soddisfacimento corporale (mi
domando se lei si renda minimamente conto di quale totale annullamento della
complessità dell'altro vi sia in questa riduzione che vi vien effettuata).
Inoltre lei afferma che la sua capacità
d'indignazione la riserva tutta per l'aborto. Senza entrare nel merito della
questione aborto, ossia se un embrione appena abbozzato possa considerarsi vita
o meno, ma ammettiamo pure di sì e di volerla salvaguardare, non capisco come
rinunciando a mangiare gli animali o fermandosi un attimo a riflettere sul
valore inerente della loro vita si potrebbe in qualche modo interferire con la
posizione anti-abortista. Una presa di posizione assolutamente non inficia o
preclude l'altra. Noto allora che lei ricorre, probabilmente a sua insaputa, al
solito - trito e ritrito - sofisma del "meno peggio" per giustificare
quel che è invece ingiustificabile. Poiché ci sarebbe qualcosa di più importante
- e c'è sempre - di cui occuparsi, nel frattempo infischiamocene di tutto il
resto. Che importa se miliardi di esseri senzienti vengono sterminati ogni
giorno, ci sono i bambini in Africa che muoiono di fame. E poiché massacrare un
animale è sicuramente meno peggio di massacrare un bambino, allora
giustifichiamolo pure. E facciamoci pure dell'ironia sopra, ma sì. Cara signora
Miriano questo cosiddetto "sofisma del meno peggio" è un trucchetto
retorico davvero molto prevedibile e qualunquista. Certamente c'è da indignarsi
per una gran quantità di fatti, soprusi, violenze, abusi che avvengono nel
mondo, ma prenderne alcuni, eleggendoli a priorità assoluta, per giustificarne
altri non è proprio la maniera migliore per manifestare solidarietà verso il
creato. Infine, e intendo proprio sul finale, nella sua chiosa conclusiva, lei
cade in un corto circuito davvero ingenuo; afferma che la carne degli animali
che cucina ha "il sapore della superiorità dell'uomo sul creato".
Peccato che confonda l'effetto con la causa, generando un corto circuito dal
quale è difficile uscire. L'uomo non uccide gli animali in virtù di una
legittima superiorità, bensì questa superiorità è il risultato semmai di una
mera azione di costante sopraffazione che egli, in maniera del tutto illegittima,
esercita sugli animali. È il mero uso della forza e l'arroganza di una visione
viziata da un antropocentrismo cattolico che fa dire all'uomo "io sono
superiore agli animali", e non una differenza sostanziale tra una specie
privilegiata e tutte le altre che gli sarebbero indifferenziatamente inferiori.
Le ricordo quindi, cara Miriano, fuori da ogni visione rigorosamente biblica,
che l'uomo nasce animale tra gli animali e proprio antropologicamente,
storicamente, socialmente non si è sempre sentito "superiore" alle
altre specie. Questa presunta superiorità è il risultato di un sistema che da
secoli e secoli si basa sullo sfruttamento sistematico di uomini ed animali,
facendone il meccanismo base su cui si regge tutto l'ingranaggio
socio-economico; un sistema che ha di fatto ridotto l'altro diverso da noi,
l'animale, ad essere inferiore, ma non perché biologicamente lo sia, bensì come
risultato di un nostro comportamento che di fatto ne ha decretato
arbitrariamente questo stato. È l'uso costante della forza e della
sopraffazione che ha reso di fatto l'animale inferiore. Legittimare questo
sfruttamento significa quindi legittimare l'uso della forza e della
sopraffazione sui più deboli. Alla faccia della carità cristiana!
La superiorità dell'uomo sull'animale è quindi
esclusiva di una visione tipicamente teocratica, una visione in cui solo l'uomo
sarebbe detentore dell'anima; una visione in cui, e proprio in virtù di questa
presunta anima, ci si arroga il diritto di sterminare, sfruttare, schiavizzare,
uccidere altre specie. Beh, se dev'essere l'anima il pretesto per uccidere,
allora preferisco venderla al diavolo e finire all'inferno!
Se davvero cara Miriano lei è convinta di possedere
un'anima illuminata dalla grazia divina, immortale, conferitale da un essere
superiore, perché, anziché ricorrervi a pretesto di un esercizio di arroganza e
sopraffazione sulle altre specie, non la indirizza nel virtuoso obiettivo
dell'accoglimento e rispetto di tutti i viventi?
Sia chiaro, a me non dà fastidio che lei continui a vedere nella meraviglia di un essere senziente "cibo che cammina", o meglio, non è questo il punto. Io trovo semplicemente intollerabile che si continui a giustificare il massacro di miliardi di creature adottando le più improbabili giustificazioni. Addirittura per diritto divino. Quando, se l'esistenza di Dio e della sua volontà non è certo fatto empiricamente e scientificamente assodato, lo è però la sofferenza di un essere vivente che desidererebbe solo poter vivere da libero il "dono" della propria vita. Il cui valore, inerente, è indiscutibile.
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domenica 6 maggio 2012
Antispecismo, veganismo, vegefobia: riflessioni, nuovi traguardi ed alcuni chiarimenti
Una delle maniere più disoneste di condurre una
discussione è quella di spostare l'attenzione dall'oggetto della stessa alle
qualità individuali degli interlocutori, rivolgendo accuse di tipo personale,
denigrando i soggetti che propugnano una tesi al fine di confutare la stessa.
Questo fastidioso, irritante atteggiamento lo vedo
spesso applicare dai detrattori dell'antispecismo per depotenziare - se
consapevolmente o meno, non saprei - l'argomento dello sfruttamento degli
animali. Così su Facebook nascono pagine che si accaniscono contro i sostenitori della
liberazione animale, colme di offese, di riferimenti ed aneddoti personali
estrapolati in maniera tendenziosa dal loro contesto originario al fine di
farci apparire come dei pazzi esaltati estremisti intolleranti. Ormai non
saprei nemmeno più quantificare il numero di volte che ho sentito o letto:
"ah, io gli animalisti non li sopporto proprio, sono delle persone
fanatiche, esagerate ecc.ecc.". Per non parlare degli sguardi di
disapprovazione o dei risolini di scherno - più o meno velati - che ci vengono
rivolti nelle varie situazioni di tipo sociale (cene, pranzi, aperitivi, feste
ecc.) al solo sentirci pronunciare la frase "no, grazie, io non mangio
carne, sono vegano (o vegetariano)", situazioni in cui sovente
sbocciano lunghissime discussioni in cui, facendo apparire noi come esaltati,
estremisti, esagerati, si mira allo scopo di ridicolizzare e criticare la
nostra scelta. Si finisce così con lo spostare l'attenzione dal vero tema
dell'antispecismo, che è la liberazione degli animali dal dominio
dell'uomo - ma anche dell'uomo dall'uomo - a noi stessi, che di tale
lotta ci facciamo promotori. Non solo, spesso in queste discussioni della
sofferenza degli animali non si parla affatto, si finisce quasi col rimuoverla,
col tacerla, tutti presi come sono gli uni - i detrattori - nell'attaccarci, e
gli altri - noi - nel difenderci dalle
accuse che ci vengono rivolte.
Ci chiamano "patosensibili" perché saremmo
troppo coinvolti dalla sofferenza degli animali, troppo empatici, troppo
sentimentali, come se esistesse una quantificazione standard dell'empatia e
dell'amore, un misuratore ufficiale del sentimento volto a stabilire fino a
quanto esso debba ritenersi nella norma e quanto, superato tale confine
immaginario, sconfini nella patologia; ed il bello è che per tante persone
questo limite, questo confine sarebbe dato proprio dalla specie verso cui si
presta attenzione e cure: se si fa l'elemosina ad un barbone va bene, è gesto
considerato socialmente accettabile ed anzi auspicabile, mentre se si porta da
mangiare ad un gattino randagio è gesto da folli, irrazionale, nella migliore
delle ipotesi, una perdita di tempo. Altri ci chiamano invece - in totale
ribaltamento di prospettiva - sadici, intolleranti, fanatici, nazisti,
insensibili, nemici della specie umana perché, a loro dire, preferiremmo gli
animali ai membri della nostra specie. Innanzitutto trovo davvero curiosa
questa doppia prospettiva: che si decidano, almeno!: o siamo patosensibili, o
siamo insensibili, non possiamo essere tutti e due le cose a seconda di come
faccia più comodo all'interlocutore di turno.
Comunque sia, tutto ciò non ha nulla a che vedere
con il vero argomento che si vorrebbe trattare, ossia lo sfruttamento degli
animali e quindi, il desiderio della sua fine, in una battaglia volta alla
liberazione animale, ma anche umana. Questo significa propugnare la tesi
dell'antispecismo.
E non dovrebbe importare chi siamo noi, se
insensibili o patosensibili, se estremisti o persone misurate, se antipatici o
simpatici, quello che importa è solo la liberazione animale. Essa, come tale, può essere solo totale, non parziale.
Anziché rispondere per le rime nel tentativo di difenderci dall'interlocutore di turno che ci denigra, offende, sbeffeggia, dovremmo invece sforzarci di riportare la discussione sul vero oggetto della stessa: ossia lo
sfruttamento degli animali e la sofferenza che esso procura loro. Purtroppo non
è facile in certi frangenti mantenersi lucidi, ma invece è importantissimo
cercare di non cadere in questo tranello dialettico. Ricordo la spiacevole
discussione che ha avuto luogo tempo fa sul blog Minima et Moralia in cui molti
antispecisti si sono dovuti difendere dall'accusa di non sapere bene come si
svolge una corrida, mentre la questione della violenza praticata sul toro - vero argomento delle nostre opposizioni - è
passata in secondo piano. Tranello in cui, ahimé, sono caduta anche io. In
maniera tendenziosa in quell'articolo contro l'antispecismo c'è stato un
attacco ben mirato (e sleale, con frasi estrapolate dai loro originari
contesti) contro gli antispecisti, con conseguente depotenziamento delle nostre
istanze, ossia, in sostanza, con conseguente depotenziamento dell'antispecismo
stesso. Mai, dico, con il senno di poi, avremmo dovuto farci trascinare in una
discussione ad personam.
Questi atteggiamenti ed accuse ad personam
sono, ahimé, piuttosto frequenti, tanto che si è cominciato a parlare di
"vegefobia": ossia atteggiamenti e comportamenti discriminatori nei
confronti di chi sceglie di tirarsi fuori dal sistema dello sfruttamento
animale ed indirizza in questo senso le proprie scelte (alimentari, di
vestiario ecc.), divenendo vegetariano o vegano.
Mi ha fatto molto riflettere la discussione nata in
seguito ad un articolo apparso su Asinus Novus dal titolo "Teriofobia",
scritto da Marco Maurizi (che saluto con affetto). Nei commenti,
giustamente, alcuni (tra cui lo stesso Maurizi) fanno notare come il termine
"vegefobia", indicando atteggiamenti discriminatori nei confronti dei
vegetariani/vegani, sia inappropriato e possa dare adito a fraintendimenti
sociali perché tenderebbe appunto a focalizzare l'attenzione sul soggetto uomo,
che compie una scelta individuale, e non sugli animali, per i quali invece si
adopera: come se la scelta vegana fosse in sostanza una mera scelta di uno
stile di vita - e come tale quindi individuale, condivisibile o meno - ma che
lascerebbe inalterata la base socio-economica dello sfruttamento animale
(rimanendo il boicottaggio di determinati prodotti animali al di sotto della
soglia numerica oltre la quale si potrebbero verificare un sostanziale
mutamento socioeconomico).
Inoltre, si può davvero parlare di discriminazione
per il solo fatto che nel nostro quotidiano troviamo molti ostacoli, tra cui
anche la difficoltà di reperire prodotti vegani nei comuni supermercati o di
trovare menù vegani nei ristoranti, nelle mense pubbliche, nei bar ecc.? Ed il
sarcasmo, le continue derisioni e sbeffeggiamenti cui siamo continuamente
sottoposti possono considerarsi una forma di molestia o atteggiamento
persecutorio?
Certo, sono comportamenti che feriscono sotto il
profilo psicologico e che potrebbero giungere persino a minare le convinzioni
di chi in realtà vorrebbe diventare vegano e lottare per la liberazione animale,
ma ha bisogno di approvazione sociale e non sopporterebbe di sentirsi messo in
"minoranza". Purtroppo tanti giovani trovano resistenza anche nelle
stesse famiglie in cui vivono: genitori che si oppongono alla loro scelta di
diventare vegetariani, che li ostacolano (proprio per ignoranza, ossia perché
pensano che una dieta priva di animali e derivati non sia sana), fiaccando la
loro motivazione. Esiste anche una difficoltà oggettiva nel trovare piatti veg
in circostanze sociali, menù veg nei ristoranti (specialmente in Italia
comunque, in Inghilterra invece ogni ristorante ha anche un suo menù veg, ed
ogni piatto veg è contrassegnato da un pallino o stella verde; inoltre è sempre
specificato se vegetariano o vegano; così come, sempre in Inghilterra, è facile
trovare numerosi prodotti vegani anche nei supermercati comuni).
Quindi esiste di fatto una cultura specista -
amplificata, conferma e rafforzata poi da una costante e martellante propaganda
mediatica - contro la quale ci sentiamo spesso inermi e che mira constantemente
ad indebolire, negare, ridicolizzare le nostre lotte e richieste, ma forse,
parlare di discriminazione è in effetti esagerato, o quantomeno fuorviante
perché i veri discriminati non siamo noi, ma gli animali. Cioè, intendiamoci, a
me scoccia andare al ristorante e non trovare nemmeno un piatto vegano, ma se
ciò avviene è perché viviamo in una cultura in cui è considerato "normale"
nutrirsi di animali e derivati, e non certo perché qualcuno ci vuole
danneggiare. Sono gli animali ad essere danneggiati, non noi.
Io sono convinta del fatto che nella nostra società
gli antispecisti, per tutta la serie di motivi sopraindicati e per altri, non hanno
vita facile. Purtroppo ci scontriamo quotidianamente contro un muro di
indifferenza, ignoranza e disinformazione che oppone una strenua resistenza
alle nostre istanze (che poi, sono quelle degli animali). Di fronte alla tanta disinformazione e propaganda
mediatica che mira a rimuovere, negare, depotenziare lo sfruttamento e la
sofferenza degli animali, ci sentiamo stanchi, sfiduciati, demotivati. Ma,
torno a ripetere, non è forse fuorviante però parlare di discriminazione dei
vegetariani/vegani quando in realtà i veri "discriminati" - ma
sarebbe più corretto dire oppressi, schiavizzati - sono gli animali? Non si
rischia, ancora una volta, parlando di "vegefobia", di spostare
l'attenzione su noi, promotori della liberazione animale, anziché sulle
condizioni di sfruttamento degli animali stessi, assecondando così il gioco di
chi, per negare la serietà e la forza dell'antispecismo, vuole sminuire coloro
che lo sostengono? Soprattutto, il termine "vegefobia", forse, con quella radice "veg", rimane troppo focalizzato su uno degli aspetti dell'antispecismo, ossia la scelta alimentare.
L'articolo di Maurizi mi ha fatto parecchio
riflettere e, seppure in un primo momento - e proprio perché la prima volta che
ho sentito il termine "vegefobia" (nel mio blogroll c'è il link al relativo sito) mi aveva parecchio colpito, riscontrando come
comuni e vissute in prima persona certi atteggiamenti denigratori nei confronti
dei vegetariani e vegani - ho obiettato che invece di questa forma di "discriminazione" bisogna tener conto e
sarebbe sbagliato negarla o ridimensionarla, mi sono poi resa conto invece che
ciò che più che urge è riassegnarle un giusto spazio (certamente se capita di
essere offesi o anche veramente discriminati - leggo di casi di persone cui è
stato negato un posto di lavoro perché nel curriculum avevano indicato di
essere vegetariane - bisogna stigmatizzare, denunciare il fatto e cercare
giustizia), ossia svelarne le vere origini, restituirle il suo vero
significato: ridicolizzando gli antispecisti, i vegani, vegetariani, è in
sostanza a ridicolizzare gli animali che si tende. Quindi forse come suggerisce
Maurizi sarebbe più corretto parlare di "teriofobia", che non di
"vegefobia".
Anche perché, a pensarci bene, noi siamo veramente
l'unica "minoranza" a volere qualcosa non per noi stessi, bensì per
qualcun altro che non può esprimersi direttamente: gli animali. Non scendiamo
in piazza per noi stessi, per i nostri diritti, ma per quelli degli animali.
Certo, vorremmo anche più ristoranti vegani, più prodotti vegani, ma non in
aggiunta a quelli che già ci sono, ma semmai in completa sostituzione di questi
altri.
La nostra voce viene data in prestito agli animali -
e non perché essi non sanno esprimersi, ché comunicano perfettamente, ma perché
la maggioranza non è disposta ad ascoltarli - e chiede diritti legittimi per
loro: il diritto di vivere in pace, liberi, la fine del loro asservimento
all'uomo.
Ciò che dobbiamo fare quindi è smettere di
indignarci ogni volta che ci sentiamo offesi, derisi, incompresi e mantenerci
lucidi ed attenti nel riportare l'attenzione sugli animali, sviandola da noi
stessi.
Bisogna fare anche attenzione, secondo me, a parlare
di veganismo. Sempre meglio parlare di antispecismo. O di diritti degli
animali, di liberazione animale, di lotta contro lo sfruttamento animale perché
il veganismo è solo uno dei mezzi con cui combattere contro un sistema che ha
radici infinitamente più complesse. E d'altronde, l'assoggettamento degli
animali all'uomo non avviene solo nel campo alimentare, ma in mille altri campi
e modi, persino a partire dal linguaggio (ne ho parlato qui).
La scelta vegana dovrebbe essere quindi conseguenza
logica dell'essere antispecisti, un inizio, ma non l'unico fine e punto
d'arrivo.
Conosco, ahimé, moltissimi vegani che hanno
intrapreso un certo percorso per motivazioni salutari o d'altro tipo; per
alcuni l'essere vegani fa parte di un percorso spirituale, in questo senso
estremamente soggettivo, individuale, che nulla ha a che fare con la
liberazione animale.
Sia chiaro, ben vengano persone così avanti nel loro
percorso spirituale (un percorso comunque di valore, che implica il rispetto di
ogni forma vivente) - anche perché, come dice l'amico Claudio, agli animali
alla fine importa poco se non li mangi perché pensi che la loro carne ti faccia
male o perché sei antispecista, a loro basta che appunto, non li mangi - ma
rimane comunque un cammino personale, che per nulla (o di poco, al massimo
sulle persone vicine) incide sulla prospettiva di una totale abolizione
dell'attuale sistema basato sullo sfruttamento degli animali (e degli uomini,
ché non si deve dimenticare che nella logica di dominio del nostro attuale
sistema gli animali sono solo la base di una piramide di sfruttamento globale,
di cui noi tutti, chi più chi meno, facciamo parte).
Essere vegani e dire (ne conosco molti, non mi sto
inventando nulla): "io ho fatto questa scelta, ma rispetto le scelte
altrui, questo è un cammino, un percorso, ognuno dovrà arrivarci con i propri
tempi, magari in un'altra vita (sic!)" - ma intanto gli animali
continuano a morire a miliardi - significa che allora importa di più della
propria crescita personale che non della liberazione animale. Importa di non
fare del male perché ci si vuole sentire in pace con sé stessi, puliti, e poi
degli altri, del resto... chissene frega.
E invece no. A noi antispecisti deve importare in primo luogo della
liberazione animale, che è un atto politico quindi (politica intesa nel suo
senso più ampio, ovviamente, e non come appartenenza ad uno schieramento
piuttosto che ad un altro) perché mira a sovvertire l'attuale sistema di
sfruttamento di altri esseri senzienti (tanto umani che animali) e poi, in
secondo luogo, semmai, della nostra crescita spirituale personale.
Bisogna farsi parte attiva, non passiva che nasce e
finisce con la sola scelta dello stile di vita vegano. Non basta. È tantissimo,
certo, ma ci deve essere una presa di coscienza ed una denuncia totale di tutto
il sistema e di tutti i comportamenti sociali in cui l'animale viene ridotto a
"cosa".
Dire "io rispetto la tua scelta", è una
frase che l'antispecista vegano non dovrebbe mai dire all'onnivoro. Sarebbe
come se ai tempi della seconda guerra mondiale qualcuno avesse detto al
Nazista: "io per mia scelta personale e secondo un mio cammino di
illuminazione spirituale non brucio gli Ebrei nelle camere a gas, ma rispetto
la tua scelta". Un paradosso, no?
Dunque, l'antispecismo non è uno stile di vita, ma
un atto politico perché mira alla fine del sistema socio-economico alla cui
base vi è lo sfruttamento degli animali (e degli umani, lo metto sempre tra
parentesi perché nello specifico sto parlando degli animali e poi perché penso
che sia sottointeso). Mira all'abolizione dell'asservimento di alcuni esseri
viventi (i molti) ad altri (i pochi). Per questo non ha senso quando qualcuno
ci accusa di essere insensibili e di voler favorire gli animali agli umani.
Essere antispecisti non significa salvare la mucca e mandare a morire l'uomo
(come ho scritto qui). Significa avere rispetto di entrambi.
La scelta vegana è ovvia conseguenza di chi intanto
si rifiuta di far parte di questo sistema, di chi davvero ritiene che uccidere
altri esseri senzienti per cibarsene o per altro sia un atto ignobile e
mostruoso.
Chi si definisce antispecista, chi abbraccia le istanze dell'antispecismo NON può non diventare anche vegetariano/vegano, NON può non rifiutarsi di dare il suo contributo allo sfruttamento degli animali, nelle tante, infinite forme in cui esso avviene e si manifesta.
Pensare però di essere a posto con la propria
coscienza nel coltivare la propria isoletta felice della scelta vegana che
agisce indisturbata all'interno di un sistema in cui comunque gli animali
continuano a morire a miliardi per mano dell'uomo, secondo me non basta; siamo
ad un livello minore di ipocrisia, siamo coerenti con noi stessi, ma siamo
ancora succubi del sistema di sfruttamento degli animali.
Se uno pensa che diventare vegani sia il massimo che
si possa fare, si sbaglia. Sicuramente è il massimo che può fare per sé stesso,
ma non per gli animali.
Questo è un post di profonda autocritica, di
parziale messa in discussione di alcune mie idee (lo avevo scritto nel mio
profilo, del resto, che sono una che alza sempre un po' la posta rispetto ad
alcuni traguardi raggiunti, che non si reputa mai "arrivata" e che
cerca sempre di apprende cose nuove senza "arroccarsi" su prese di
posizioni a prescindere), frutto di confronti e letture di altri blog, tra cui
il già citato Asinus Novus di Marco Maurizi - del quale sto
anche leggendo l'interessante saggio "Al di là della Natura - gli
Animali, il Capitale, la Libertà (di questo mi riserverò di parlare in seguito, a lettura ultimata) - oppure quello di De Spin (che scrive articoli sempre molto mirati ed efficaci) o di articoli come questo e, magari, anche frutto di un'evoluzione personale - data anche sempre dall'incontro con gli
altri - che spero essere sempre in crescita.
Ciò che è curioso è che quando presi la decisione di diventare vegetariana pensai che fosse, appunto, una scelta personale (sempre scaturita dall'amore per gli animali e dalla volontà di rispettarli), ma, rendendomi conto sin da subito della valenza di portata universale che questa scelta conteneva in nuce - mirando al boicottaggio dei prodotti dello sfruttamento animale - cercai subito di parlarne il più possibile a chi mi stava accanto, sensibilizzando, aprendo il blog, credendo fortemente nel potere individuale delle singole scelte (e ci credo ancora, non lo sto affatto rinnegando, solo che non basta, in fin dei conti sono secoli che esiste il veganismo/vegetarianismo, ma il sistema di sfruttamento degli animali contina a non venire messo in discussione, se non appunto a livello individuale, ma non sul piano socio-economico) ecc.. Poi c'è stato un momento in cui ho pensato che diventare vegana fosse il massimo che potessi fare. Ora penso che essere antispecisti significhi far parte di un movimento totalmente rivoluzionario - teso a minare le basi di un sistema che si regge sullo sfruttamento di una massa sconfinata di esseri senzienti la cui individualità è totalmente negata - e che, come tale, ha un significato anche politico. Certamente le nostre singole scelte devono essere volte a boicottare questo sistema, quindi è ovvio che diventare vegetariani/vegani sia fondamentale, così come serve partecipare a manifestazioni, sottoscrivere petizioni, sensibilizzare, scrivere sui blog, partecipare a discussioni in rete o nel reale ecc.. Ma bisogna avere ben chiaro in mente che questo sistema, così com'è strutturato, non vedrà mai la fine dello sfruttamento degli animali e degli uomini.
Bisogna darsi da fare per comprendere tutte le implicazioni di questo sistema, la sua struttura capillare di cui il massacro di animali è la base.
Capire per smascherarlo, per provare a destrutturarlo. Per provare a cambiarlo.
(questo articolo è stato pubblicato anche su Asinus Novus)
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sabato 5 maggio 2012
Tutti i nostri Desideri di Philippe Lioret
Liberamente ispirato a "Vite che non sono la mia" di Emmanuel Carrère, il nuovo film del regista francese racconta la storia di un incontro, anzi, di più incontri: quello tra il Giudice Claire e Céline, la madre di una compagna di classe di sua figlia, "strozzata" dal debito contratto con le società di credito; quello tra Claire e Stéphane, Giudice come lei, disincantato, ma che saprà farsi coinvolgere nella battaglia per difende Céline e per denunciare gli abusi del credito al consumo; quello tra Claire e la malattia (e la maniera in cui essa arriva a ridefinire le priorità della sua esistenza); e infine, quello tra Claire e sé stessa, con i suoi sentimenti, le sue paure, le sue angosce.
Come dice Lioret: "Scopro che nei miei film è presente in filigrana una stessa tematica: la forza di un incontro che ci aiuta a superare noi stessi. Questo film mostra degli individui che si uniscono contro l'assurdità del mondo e che, nell'urgenza, fanno muovere le cose".
Tutti i nostri Desideri è anche un film, ovviamente, sul desiderio, o meglio, sui desideri: quelli che ci spingono ad agire, la forza motrice delle nostre decisioni e quelli indotti dalla società consumistica in cui viviamo, per esempio; e quelli intimi, inconfessati, indefiniti, ma non per questo meno autentici.
Un film che ha la forza di una denuncia sociale pur rimanendo interamente dentro al racconto intimista delle vicende dei personaggi; un film che parte dal di dentro, ma che sbuca sfuori, oltre lo schermo, fino al cuore dello spettatore.
Una recensione più approfondita - sempre mia - la trovate qui, come sempre su MENTinFUGA.
Buon fine settimana a tutti. :-)
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Vincent Lindon,
Vite che non sono la mia.
martedì 1 maggio 2012
(chiaro) come un lago senza fango (sir), così limpido come un cielo d'estate sempre blu
Ho notato che una delle critiche più frequenti rivolte agli antispecisti è quella secondo cui essi (tra cui la sottoscritta e molti di coloro che mi leggono), tra la vita di un cane e quella di una persona sceglierebbero di salvare il cane.
Come se ogni volta che andassimo al supermercato al momento di decidere cosa mettere nel carrello ci fosse qualcuno che con una pistola alla tempia ci intimasse: "scegli, o la bistecca o tua sorella!".
Ma per favore... smettere di mangiare gli animali non significa automaticamente sacrificare esseri umani in loro vece.
Domanda: a quanti di voi è mai capitato di dover scegliere tra la vita di un uomo e quella di un animale?
Per quale accidenti di cazzo di collegamento secondo i detrattori dell'antispecismo noi saremmo quelli che antepongono la vita degli animali a quella umana (come se poi non fossimo animali anche noi)?
Diventare vegani non significa mandare a morire esseri umani per salvare gli animali; significa, semplicemente, rispettare la vita. Di qualsiasi essere vivente.
Non ci vuole tanto a capirlo, eh. Perfino un bambino di quattro anni sarebbe in grado di capirlo.
Eppure...
* * * * * * * * *
La vivisezione è una truffa!
Coloro che la sostengono dico che sia utile perché, ad esempio, i topi condividono l'85% del nostro DNA. Bene, mi domando allora con quale coraggio si possa condannare alla sofferenza esseri senzienti così tanto simili a noi, in grado di rendersi perfettamente conto di cosa gli stia accadendo, di provare dolore, emozioni, sensazioni, terrore ecc.ecc.. Ma, se anche non fossero tanto simile a noi, mi domando lo stesso chi siamo noi per arrogarci il diritto di disporre di vite altrui. Superiori di che?
Badate bene, gran parte della cosiddetta sperimentazione animale viene praticata per il fine della ricerca pura (ossia per mera curiosità intellettuale) e molti esperimenti vengono condotti senza anestesia perché questa interferirebbe con i risultati ottenuti. Che tradotto in altre parole significa che molti animali vengono sottoposti a pure sevizie senza nemmeno il sollievo della remissione del dolore.
E comunque la vera domanda non è se la vivisezione sugli animali possa essere utile o meno (e non lo è, come sostiene ormai gran parte della comunità scientifica da almeno 25 anni, ad eccezione, ovviamente, di coloro che sono direttamente implicati nel mostruoso business che vi è dietro), ma se è lecito prendere migliaia, milioni di esseri senzienti e rinchiuderli a vita dentro le gabbie fino a che la morte non sopraggiungerà (i più "fortunati" sono coloro sottoposti a test talmente atroci da morire subito, tutti gli altri verranno "riadoperati" fino a che il loro fisico reggerà).
Non ho mai pensato che esista il Male in quanto entità assoluta, fissa, immutabile. Ma esiste gente che pratica il Male. Questi sono i vivisettori.
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